1. Introduzione
«This is the West, sir. When the legend becomes fact, print the legend» È questa probabilmente una delle battute più importanti e conosciute nella storia del cinema e paradossalmente viene pronunciata non da uno dei protagonisti della pellicola, ma da uno dei vari giornalisti presenti in scena. Siamo alle scene finali del film. Il senatore Ransom Stoddard (interpretato da James Stewart) ha appena finito di raccontare come egli sia diventato the man who shot Liberty Valance e quello che ha ammesso avrebbe potuto non solo costargli la brillante carriera che dalla polverosa cittadina di Shinbone lo stava proiettando alla vicepresidenza degli Stati Uniti, ma soprattutto rovinargli completamente la reputazione di persona onesta e leale.
Maxwell Scott, (Carleton Scott Young) il reporter che insieme allo spettatore ha ascoltato l’intero racconto si alza in piedi e con una certa teatralità straccia i suoi appunti e pronuncia le famigerate parole: “quando la finzione diventa realtà, stampala”. Questo perché nel West come altrove, sembra vigere il celeberrimo teorema del sociologo americano William Thomas secondo cui, se gli uomini definiscono reali certe situazioni, esse saranno reali nelle loro conseguenze.
Del resto, tutti sanno che, quella notte, Ransom Stoddard è sceso in strada per affrontare Liberty Valance (Lee Marvin) col desiderio di fare giustizia dei tanti troppi torti che quel pistolero crudele e selvaggio aveva inflitto agli abitanti della contea di Shinbone. Poco importa che il giovane avvocato, venuto dalla civile costa Est solo con paio di codici per bagaglio, avesse saputo a malapena tenere in mano una pistola. Due uomini si erano affrontati in duello nella main street, uno di fronte all’altro di fronte all’intera cittadina che guardava atterrita da dietro le finestre delle case. Il bene contro il male ancora una volta avevano incrociato la loro strada e finalmente il primo aveva trionfato sul secondo. In modo chiaro e definitivo come solo l’esito di un duello nel Far West riesce a sancire.
Da allora sono passati molti anni. Ransom Stoddard è diventato un eroe popolare, ma la leggenda non ha giovato solo alla sua carriera politica. Il racconto della sua impresa è diventato l’elemento catalizzatore del processo di civilizzazione che ha trasformato quel misero sobborgo rurale asservito ai voleri mafiosi di un gruppo di allevatori nel ricco centro urbano di un territorio la cui produzione agricola ha richiesto e ottenuto l’arrivo della ferrovia. La wilderness ha ceduto il passo alla strada ferrata, il codice commerciale ha preso il posto della legge della giungla, e la stampa si è posta al servizio del progresso. Ransom Stoddard era e sarà sempre the man who shot Liberty Valance.
2. Una questione di metodo
Prima facie potrebbe sembrare arbitrario quanto superficiale intraprendere una riflessione sul tema del rapporto tra la menzogna e la politica partendo da un film western.
L’utilizzo del cinema come fonte dell’analisi politologia tuttavia non dovrebbe risultare così sorprendente. Del resto, già nel 1956. il filosofo Edgar Morin, ne Le Cinéma ou l’homme imaginaire, aveva dimostrato come il cinema finisca per svelare e spiegare tanto le strutture intellettuali della partecipazione quanto quelle partecipative dell’intelletto, legate tra loro dalla dialettica riflessiva prodotta dallo scorrimento delle immagini.
In questo senso il cinema poteva apparire come «una forza bruta che trascina con sé la partecipazione affettiva, ma è anche sviluppo di un logos»[1]. Lo scorrimento delle immagini sullo schermo segue un suo ritmo che, una volta svelato e riconosciuto, genera un linguaggio: «è un sistema coerente in cui l’approfondimento e l’utilizzazione del potere affettivo delle immagini sfociano in un logos»[2]. La cinematografia è un’arte dinamica che restituisce all’intelletto le sue fonti più vitali operando la trasformazione della meraviglia e della emozione in un momento della conoscenza. Nella sala del cinematografo la fantasia e la riflessione, mytos e logos, definiscono le polarità non contrapposte, ma anzi intimamente connesse, dell’orizzonte espressivo dello spettatore che finisce così per dimostrare quella complessità antropologica dell’umano, cara al sociologo francese. Assistere ad una pellicola e riflettere sulla realtà sono così le due facce di una stessa medaglia che inizia a brillare di luce propria quando lo spettatore, attraverso l’automatismo della impersonificazione nel protagonista, inizia a confrontare i limiti del reale e ad esplorare gli orizzonti del possibile.
Per Morin, il cinema non si riduce mai ad un mero tema di uno studio che si esaurisce nel suo oggetto, ma costituisce una sorta di analogon concepito in maniera paradigmatica per riproporre le questioni filosofiche fondamentali,
«per me il cinema – scrive nella prefazione del 1977 a Le cinéma ou l’homme imaginaire – risvegliava l’interrogativo chiave di ogni filosofia: che cos’è quella cosa che chiamiamo spirito, se pensiamo alla sua attività, e cervello, se lo concepiamo come organo-macchina? Qual è la sua relazione con la realtà, essendo dato che ciò che caratterizza l’homo non è tanto che sia faber, fabbricante di strumenti, e sapiens, razionale e “realista”, ma che sia anche demens, produttore di fantasmi, miti, ideologie, magie?». La scelta di studiare l’immaginario e il pensiero analogico nel contesto del cinema, infatti, parve all’epoca situare Morin in una posizione di emarginazione e di solitudine culturale e scientifica, per via del sospetto e della diffidenza suscitati allora, proprio dal cinema, nell’élite colta, che lo considerava, come Morin ricorda nella stessa prefazione, come «un argomento marginale ed epifenomenico per un “sociologo”»[3].
Da allora, l’orizzonte epistemologico in questione è ancora scarsamente considerato e praticato, soprattutto negli ambiti della politologia, anche se proprio negli ultimi anni, non solo in ambito statunitense si sono moltiplicate le pubblicazioni in tal senso[4]. Non è certo questa la sede per restituire un quadro esauriente di tale evoluzione, tuttavia sembra doveroso ricordare che l’esperta di media, Liesbet van Zoonen, autrice di un testo seminale dal titolo Entertaining the Citizen: When Politics and Popular Culture Converge, ha dimostrato come i film e le serie politiche siano ormai usate largamente dai cittadini per dare senso alla politica non solo intesa come partiti, candidati e leader in lotta per il potere, ma anche come indirizzo politico esprimibile da una comunità, ovvero quello che gli anglosassoni chiamano policy. In particolare, essi
«consentono alle persone di riflettere sui dilemmi della politica che i politici si trovano ad affrontare (riflessione), di criticare o elogiare i politici per la loro morale e le storie per la loro ideologia (giudizio), e di esprimere le loro speranze e ideali (fantasia). Inoltre, alcune storie danno ai loro spettatori la sensazione di aver acquisito nuove conoscenze su elementi specifici della politica, da utilizzare come strumenti per decifrare la realtà (descrizione)»[5].
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3. Un genere mitopoietico
Se tali considerazioni possono trovare un immediato riscontro sulle produzioni mediatiche più facilmente riconoscibili come di argomento politico[6], queste tuttavia ben più difficilmente sembrerebbero riconducibili ad un film di genere western.
A ben vedere, per tutti coloro che sono abituati a guardare al Far West come la mera ambientazione di una storia avventurosa, sembra difficile comprendere il valore fondativo che il mito della frontiera riveste per la società americana. Spesso, in modo estremamente riduttivo, si guarda alla occupazione delle sue sterminate praterie come ad una sorta di cinica opportunità che permettesse di contenere l’insorgere dei conflitti sociali. Una tale interpretazione del resto si avvale della lettura che Werner Sombart nel breve saggio Warum gibt es in den Vereinigten Staaten keinen Sozialismus? restituisce del mito della frontiera. Il sociologo tedesco «sottolinea[va] l’aspetto liberatorio e anche rassicurante per la classe operaia americana della prospettiva di una trasformazione in free farmer. La campagna, da luogo dell’oppressione medievale diventa luogo concreto della realizzazione dell’utopia»[7]. Gli ultimi della costa Est, che fossero disoccupati in cerca di un lavoro che non ledesse la loro dignità o gli stessi operai stanchi delle vessazioni del capitalismo industriale insorgente, avrebbero potuto coltivare il sogno di mettere la propria famiglia e tutti i miseri bagagli su un conestoga l’iconico carro con i quali i pionieri affrontavano le terre inesplorate dell’Ovest e di cercare la propria parte dell’American Dream.
La lettura materialistica di Werner Sombart, al pari di quella di molti contemporanei europei, sottovalutava il sostrato spirituale legato al sogno di una simile opportunità e finiva per ignorare le conseguenze non solo sociali ma persino antropologiche che quel desiderio di libertà individuale e di autonoma ricerca del benessere alimentava in seno alla nascente comunità americana. Per comprendere quella che sembra essere la vera e propria singolarità dell’individualismo americano sembra qui sufficiente leggere un passaggio di una delle Letters from an American farmer scritte già nel 1782 dal narratore americano di origine francese John Hector St. John de Crèvecœur.
«Qui sono individui di tutte le nazioni fusa in una nuova razza di uomini, le cui fatiche e posteri un giorno causeranno grandi cambiamenti il mondo. Gli americani sono i pellegrini occidentali, che portano con sé quella grande messa delle arti, delle scienze, del vigore e dell’industria che ha avuto inizio da molto tempo ad est; finiranno il grande cerchio. Gli americani una volta erano sparsi in tutta Europa; qui sono incorporati uno dei migliori sistemi di popolazione che sia mai apparso e che succederà in seguito diventare distinti dal potere dei diversi climi in cui vivono. L’americano dovrebbe perciò amare questo paese in misura di gran lunga maggiore di quello in cui lui si trovava lui o i suoi antenati erano nati. Qui le ricompense della sua industriosità seguono con uguali passi i progressi del suo lavoro; il suo impegno si fonda sulla essenza più naturale, l’interesse personale; può desiderare un’attrazione più forte? […] L’americano è un uomo nuovo, che agisce secondo nuovi principi; deve quindi intrattenere nuove idee e formare nuove opinioni. Dall’oziosità involontaria, dalla dipendenza servile, dalla penuria e dal lavoro inutile, è passato a fatiche di natura molto diversa, premiato da un’ampia sussistenza. – Questo è un americano»[8].
Ubi panis ibi patria, sembra confermare St. John de Crèvecœur come il motto di tutti gli emigrati. Le grandi praterie dell’Ovest attendono solo di essere coltivate per restituire i loro preziosi frutti, ma nelle parole del colono franco americano si comprende come la soddisfazione dell’aspetto materiale della questione diventa secondario di fronte a quella tensione spirituale che accompagna i pionieri nel loro quotidiano impegno di trasformare il semplice terreno in risorsa. Indagare cosa sia un americano significa comprendere il senso di quella intima consapevolezza di una diversità di cui egli si sente portatore. L’idea di fondo della cultura americana si risolve nella considerazione che nessuna grande nazione possa esistere senza assumersi la responsabilità di una grande missione. Più che una suggestione, essa declina il vero e proprio credo di una religione laica nei confronti di un destino manifesto, che caratterizza e accomuna ogni persona che voglia dirsi americana[9].
Il racconto delle loro gesta, inscritto all’interno di un alveo culturale idealmente delimitato dalle novelle di riscatto sociale ed economico di Horatio Alger da un lato e dalle riflessioni storico sociali di Frederick J. Turner ne The Frontier in American History dall’altro, assurge a fonte della mitopoiesi della identità di un popolo. Nel ventesimo secolo il cinema non fece altro che aggiungere la forza dell’immagini ad una narrazione che era stata già ampiamente metabolizzata dalla popolazione.
«Il Western servì a dar sostanza all’epica americana, ad illustrare la nascita della nazione, la formazione dell’identità collettiva, il progresso della civiltà, la spinta verso la libertà, la trasformazione di spazi aridi e pericolosi in rigogliosi e sicuri, le origini del capitalismo. Protagonisti indiscussi di questo grande spettacolo furono gli eroi del West, conquistatori del territorio e protagonisti di una mitologia nazionale che trovò in John Ford il suo massimo cantore come Omero per l’antica Grecia»[10].
4. The man who shot Liberty Valance
The man who shot Liberty è un film western diretto da John Ford nel 1962. La sceneggiatura di James Warner Bellah e Willis Goldbeck, adattata da un racconto del 1953 scritto da Dorothy Marie Johnson, racconta una storia apparentemente semplice ma dalla rilevante valenza simbolica. In merito alla pellicola, lo studioso di cinematografia e cultura popolare, Robert Ray scrisse infatti che «per la prima volta nella storia del cinema popolare, gli spettatori americani avrebbero dovuto affrontare una sfida ai miti delle origini della loro civiltà»[11].
Sin dalla sua prima immagine si intuiscono le intenzioni di John Ford di mettere in scena non solo l’ennesima rappresentazione del confronto biblico tra agricoltori e allevatori, ma di restituire un intenso affresco di un’epoca crepuscolare nella quale il lungo cammino di transizione dalla autocrazia della frontiera, la wilderness, alla democrazia del progresso, la civilization sembra essersi improvvisamente fermato come indeciso sugli ulteriori passi da compiere. La pellicola venne, infatti, realizzata in bianco e nero, quando ormai agli inizi degli anni Sessanta il colore era diventato la forma espressiva dominante nell’industria cinematografica. Evidentemente, il netto contrasto in un film in bianco e nero rende il tono di questo film più serio e più cupo e finisce per enfatizzare l’atipicità di questo western che sin dalla scelta estetica pretende di mettere in discussione tradizioni consolidate valori condivisi del genere[12].
L’ulteriore elemento critico che sottolinea il grave momento di indecisione morale viene introdotto dalla presenza di ben tre protagonisti. Accanto a Ransom Stoddard e Liberty Valance, si staglia la figura di Tom Doniphon, la cui solidità fisica e morale viene garantita dalla superba interpretazione di John Wayne.
All’inizio del film, il senatore Stoddard arriva a Shinbone dalla nuova ferrovia con sua moglie Hallie (Vera Miles) proprio per partecipare al funerale di Tom Doniphon. In un lungo flashback che coinvolge gran parte del film, la narrazione ricostruisce gli eventi che hanno portato a quel giorno.
Anni prima, nella piccola cittadina di Shinbone, le ambizioni degli agricoltori di regolamentare il possesso e l’uso della terra veniva osteggiato dalle prevaricazioni degli allevatori per e l’uso della terra. Quando Ransom Stoddard vi arriva, è un giovane avvocato che pretende di affermare i suoi nobili ideali in virtù della conoscenza giuridica offerta dalla padronanza dei suoi codici. Tuttavia, prima ancora che l’ignoranza è la paura a tenere sotto scacco gli agricoltori e gran parte dei cittadini di Shinbone. Gli allevatori infatti pagano un killer violento e crudele per avallare le proprie pretese mafiose, Liberty Valance. Nomen omen, ma i suoi comportamenti ne tradiscono la regressione in brutale anarchia. Tutta l’arroganza delle sue pretese sembrano risolversi nella frase spezzante con la quale riassume le sue scelte nomadi quanto aggressive «Vivo dove appendo il mio cappello».
Stoddard fa la conoscenza del bandito e della sua frusta di cuoio sin da prima del suo effettivo arrivo, quando la diligenza su cui viaggia viene assalita. Sopravvissuto a quel primo incontro, grazie anche all’aiuto di una coppia di immigrati svedesi che gestiscono un ristorante e della giovane Hallie, Stoddard si rende ben presto conto della situazione e sceglie di sostenere le pretese degli agricoltori per indire una pubblica assemblea ed eleggere un proprio rappresentante da inviare al governatore dello stato. La sua battaglia per la legalità inizia dall’organizzazione di una scuola per combattere l’analfabetismo dilagante e dal sostegno del piccolo giornale locale, lo Shinbone Star. La pellicola in questo senso restituisce un mirabile affresco della costruzione democratica di una comunità. Del resto, «ogni movimento politico “montante” deve passare attraverso una serie di chiuse muovendosi verso l’interno lungo la strada che porta al cuore del sistema politico e verso l’alto in direzione dell’arena centrale del processo decisionale»[13]. I cittadini di Shinbone, grazie all’elemento catalizzatore offerto dall’arrivo di Stoddard, incominciano a prendere atto della necessità del superamento di queste soglie che negavano loro il diritto di esprimere liberamente e quello di una effettiva partecipazione al fine di determinare il proprio destino politico[14].
Evidentemente tutto questo può essere realizzato solo grazie alla presenza di Tom Doniphon, un pioniere rude e fiero, che coltiva la terra della sua fattoria per nulla intimorito dalle prevaricazioni di Liberty Valance. La sua figura permette a Ford l’originale riflessione offerta dalla pellicola, che non si riduce solo nel confronto scontato tra la resistenza aggressiva di un passato che non vuole mollare la presa sui destini delle persone e l’intraprendenza ingenua di un futuro ideale che stenta ad affermarsi, ma che seduce lo spettatore con la solida persistenza di un presente indifferente ma orgoglioso. John Wayne, del resto, restituisce una superba interpretazione di Tom Doniphon, quale paradigma ideale di selfmade man, uomo generoso e onesto, il cui orizzonte esistenziale si risolve tuttavia solo nella costruzione di una casa più grande dove ospitare la donna di cui è innamorato. Protegge Ransom Stoddard per semplice, forse persino occasionale, empatia, non perché crede nei suoi ideali politici. Probabilmente detesta Liberty Valance, ma non mostra alcun interesse personale ad accelerare gli eventi per addivenire ad uno scontro. Tom Doniphon non ha alcun interesse per la dimensione comunitaria del vivere civile. Lo ribadisce chiaramente a Stoddard per dissuaderlo dal suo impegno civico. «So che quei libri di legge significano molto per te, ma non qui. Qui fuori, un uomo risolve i propri problemi da solo» [15].
5. Qui nescit dissimulare, nescit regnare
Quando arriva la sera del fatidico duello, l’esito sembra scontato. Eppure John Ford ci mostra un evento incredibile, la morte del bandito Liberty Valance, caduto proprio di fronte al saloon dove era stato innalzato il cartello di richiamo per l’assemblea pubblica dei cittadini. Un’immagine fortemente simbolica, il tiranno caduto e la nascente agorà. I cittadini accorrono, Ransom Stoddard, ferito ma vivo, diventa il simbolo della rinascita democratica del paese e finalmente il progresso può iniziare il suo corso, lasciando gli spettatori increduli ma felici.
Più tardi in un drammatico confronto tra Doniphon e Stoddard si rivela la vera cifra politica della pellicola, nella quale entrambi dovranno fare i conti con le proprie responsabilità. Il primo, che paga il suo gesto perdendo tutto quello per il quale aveva lottato, la casa che egli stesso brucerà in un impeto di ira e frustrazione, la donna che amava e che lascerà andare tra le braccia del giovane avvocato; il secondo che deve dimostrare di essere all’altezza della leggenda e che viene costretto dagli eventi ad alimentare con una detestabile menzogna quel processo democratico cui tanto teneva.
Certo sin dalla riflessione classica la menzogna veniva considerata un efficace instrumentum regni. Lo stesso Platone, nella sua Repubblica ideale, inaugurava il dibattito sul tema, prescrivendone ai governanti l’uso con la stessa accortezza con la quale si usa un farmaco, con tutta l’ambiguità semantica che la lingua greca attribuisce alla parola. In quanto tale,
«un simile espediente deve essere lasciato ai medici, mentre i profani non devono ricorrervi … Spetta dunque ai governanti, se mai qualcuno ne ha il diritto, mentire per ingannare i nemici o i concittadini nell’interesse della città, mentre tutti gli altri non devono fare ricorso a un simile espediente; ma diremo che per un cittadino privato mentire ai governanti è colpa uguale o anche maggiore di quella di un ammalato o di un atleta che non denunci al medico o al maestro la verità sulla propria condizione fisica, o del marinaio che non riferisca al timoniere sullo stato effettivo della nave e dell’equipaggio, ossia qual è la condotta sua e dei compagni di navigazione»[16].
Hannah Arendt nella sua complessa riflessione sulla relazione della politica con la menzogna, pur da una prospettiva sempre molto critica, finiva con ammettere una certa validità dell’antico brocardo qui nescit dissimulare, nescit regnare. Non solo si trovò a riconoscere che, da un punto di vista meramente empirico, l’abitudine a dire la verità non è mai stata annoverata fra le virtù politiche, e che le menzogne sono sempre state considerate strumenti giustificabili negli affari politici, giungendo alla paradossale conclusione che esse, «dal momento che sono sostituti di mezzi più violenti, tendono a essere considerate degli strumenti relativamente inoffensivi all’interno dell’arsenale dell’azione politica»[17]. Ma soprattutto finì con individuarne persino una loro utilità «La capacità di mentire e la possibilità di cambiare i fatti – la capacità di agire – sono tra loro connesse». Riconosceva in un articolo dal titolo Lying in Politics pubblicato nel 1972 sulla «New York Review of Books»[18]. «Non è una novità che l’inganno, la menzogna deliberata e la «bugia manifesta» vengano utilizzati come strumenti legittimi per l’ottenimento di fini politici […] le menzogne sono state sempre considerate come strumenti giustificabili negli affari politici»[19]. Al contrario, la sincerità «non è mai stata annoverata tra le virtù politiche, perché essa può contribuire veramente poco a quel cambiamento del mondo e delle circostanze che è tra le più legittime attività politiche»[20].
John Ford non gira, tuttavia, il film solo per ribadire un concetto che in un certo qual modo è stato metabolizzato nell’analisi politologica e nella pratica quotidiana dei rapporti di potere sin dagli albori della storia democratica. Proprio attraverso le riprese della scena del duello offre agli spettatori una diversa prospettiva e una reale possibilità di scelta.
Quando Doniphon racconta a Stoddard di essere intervenuto nel duello, il regista espone agli spettatori una seconda scena che appare solo simile alla prima versione dello scontro. Certo le inquadrature sono diverse, la prima dalla prospettiva dell’avvocato, la seconda da quella del pioniere ma questo non dovrebbe giustificare le “evidenti” differenze, la posizione del braccio di Stoddard e la caduta di Valance. Le diversità potrebbero essere imputate all’imperizia o alla negligenza di Ford o degli attori coinvolti di restituire una medesima performance e quindi Liberty Valance è stato comunque ucciso a tradimento. Oppure potrebbero offrire allo spettatore l’opportunità di riflettere su cosa effettivamente convenga credere. Una volta riconosciute, le differenze tra le due scene impediscono di ricostruire oggettivamente quanto effettivamente accaduto.
«L’impercettibile sfasatura tra le due scene è voluta. Le due scene, girate in tempi diversi, sono state meticolosamente sincronizzate e nulla di ciò che accade è fortuito. L’asincronia tra la prima e la seconda versione di fa capire che Valance è stato colpito da Doniphon e non da Stoddard. E tuttavia, in questo modo, non vediamo più ripetersi esattamente l’accaduto e perdiamo la possibilità di ricostruire oggettivamente l’episodio. Infatti dal nostro punto di vista di spettatori la prima scena è altrettanto credibile quanto la seconda.
Se nella prima scena avessimo notato la stessa impercettibile asincronia della seconda, la versione di Doniphon spiegherebbe qualcosa che ci è rimasto oscuro e sarebbe convincente. Ma dal momento che la prima scena non desta alcun sospetto, perché mai ci sarebbe bisogno di una spiegazione supplementare? In sostanza noi crediamo alle parole di Doniphon solo perché siamo suggestionati dalla sua personalità e ci sembra più ragionevole che sia stato lui a uccidere il bandito. Ma chi ci dice che il suo colpo sia andato veramente a segno e invece il colpo di Stoddard sia andato a vuoto? Non ce lo dicono certo i sensi, poiché la prima scena è perfettamente plausibile quanto la seconda. Ciò non significa che Doniphon menta. Ma, come nel film Rashomon di Akira Kurosawa, nel quale i personaggi presentano versioni soggettive degli stessi fatti ed è impossibile capire quale sia la verità oggettiva.
In fondo, chi ci vieta di pensare che Doniphon abbia creduto di colpire per primo Valance e ricordi la scena in modo distorto, mentre lo ha colpito solo per secondo, dopo che questi era già colpito da Stoddard, che ha azzeccato un colpo da maestro con la classica fortuna dei principianti?»[21]
A ben vedere, è possibile insinuare che John Ford non abbia mai voluto definire con chiarezza la questione di chi avesse realmente ucciso Liberty Valance proprio per lasciare allo spettatore la libertà di credere non in quello che aveva visto, né alle parole che aveva udito, ma in ciò che avesse ritenuto più opportuno. Non si tratta di inaugurare un percorso relativista che mette in discussione l’esistenza della verità o per lo meno la possibilità di una sua riconoscibilità. Quanto piuttosto l’asserzione dell’esistenza di una verità negoziabile che assurge a presupposto di una costruzione politica condivisa. Poco importa chi abbia ucciso il criminale, quello che veramente rileva a livello politico è la costruzione sociale condivisa che su quell’evento, storia o leggenda che sia, è stata costruita.
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6. Conclusione
Curiosamente nello stesso anno, il 1962, il regista austriaco Otto Preminger gira un film dal titolo Advise & Consent. Basato sul romanzo omonimo, per il quale Allen Drury, giornalista del New York Times ha conseguito il premio Pulitzer nel 1959, la pellicola rappresenta, per giudizio sostanzialmente unanime della critica, uno dei migliori film politici mai realizzati nella storia[22]. In estrema sintesi, Advise & Consent narra lo svolgersi dei retroscena congressuali a seguito della nomina del Sottosegretario di Stato da parte del Presidente. Questa, secondo la procedura richiesta dalla Costituzione americana, deve avvenire di concerto con i membri del Congresso i quali possono avere idee e interessi diversi se non opposti a quelli presidenziali.
L’analisi politologica degli accadimenti, degli intrighi e dei compromessi che si svolgono nelle oltre due ore di narrazione cinematografica meriterebbe una trattazione ad hoc[23]. Quello che qui preme sottolineare è una paradossale declinazione positiva del concetto di menzogna politica. Trattasi di un episodio molto significativo all’interno della narrazione, come evidenziato dal regista per rassicurare lo spettatore di fronte allo spettacolo indecoroso che successivamente sarà offerto dal comportamento dei parlamentari.
Ci troviamo nella casa di Robert Leffingwell (Henry Fonda), il giovane intellettuale “di sinistra” la cui nomina presidenziale aveva suscitato tanto scalpore tra le fila dei parlamentari tanto di maggioranza che di opposizione. Squilla il telefono e il figlio va a rispondere. Il padre gli chiede di dire una piccola bugia e di negare la sua presenza. Il bambino, la cui giovane età sembra rispecchiare l’ingenuità dello spettatore e del cittadino più in generale, ricorda al padre il disvalore, da questi evidentemente insegnato, di dire le bugie. Robert Leffingwell allora capisce che è arrivato il momento di dare una spiegazione. Generalmente le menzogne sono elaborate al solo scopo di frodare il prossimo, e queste, si sia genitori o figli, politici o cittadini, andrebbero del tutto evitate. Ma esiste anche un particolare tipo di menzogna: «questa è il particolare tipo di menzogna di Washington, D.C.» dice Leffingwell «Quella che si instaura quando l’altra persona non solo sa che tu stai mentendo, ma sa anche che tu sai che egli lo sa».
Il linguaggio politico del resto è tale non perché usato dai politici, ma perché espressione di una relazione di potere. La complicità che si instaura nella cosiddetta “Washington, D.C., kind of lie” attenua se non elimina il disvalore della menzogna che può risolversi in un accordo dilatorio del tempo della decisone o del confronto, utile al maggior approfondimento della questione, allo stemperamento degli animi o a quant’altro possa rivelarsi in seguito costruttivo e, pure nel rispetto dei ruoli e delle dinamiche parlamentari, condiviso.
Certo, se a spiegarlo è Henry Fonda il volto “buono” per eccellenza di Hollywood, il concetto sembra molto più accettabile e persino rassicurante. Non passeranno però più di una decina d’anni che la società americana sarà costretta a confrontarsi con la pubblicazione dei Pentagon papers e con lo scandalo Watergate e il rapporto tra cittadini e politici diventerà notevolmente più complesso e controverso.
Quel fiore di cactus posto da Hallie vicino alla tomba di Tom Doniphon nella scena conclusiva di The man who shot Liberty Valance potrebbe allora significare non solo l’omaggio a chi si è sacrificato per consentire al progresso di iniziare il suo cammino, ma anche il simbolo di una innocenza definitivamente perduta. La fine di quella schiettezza che solo nel duro ma leale confronto tra il pioniere con la wilderness si poteva riscontrare. La civiltà urbana richiede altro.
Note
[1] E. Morin, Il cinema o l’uomo immaginario, Raffaello Cortina Editore, Milano, 2016, p. 180.
[2] Ivi, p. 181.
[3] Cfr. C. Simonigh, Su alcuni presupposti dell’estetica complessa, in Aa. Vv., Pensare la complessità per un umanesimo planetario. Saggi critici e dialoghi di Edgar Morin con Gustavo Zagrebelsky e Gianni Vattimo, a cura di C. Simonigh, Mimesis edizioni, Milano, 2012, pp. 158 – 160.
[4] Sul significato e la portata di tale evoluzione si veda K. Fernandez, Film and American Political Culture, in American Political Culture: An Encyclopedia, (eds.) T. G. Jelen, M. J. Rozell, M. Shally Jensen, ABC CLIO, Santa Barbara, CA, 2015, pp. 445 – 451. Per un interessante contributo europeo, vista anche la duplice veste dell’autore di professore di Scienza Politica presso la Universidad Complutense de Madrid e leader della formazione politica spagnola Podemos, P. Iglesias Turrión, Cuando las películas votan. Lecciones de ciencias sociales a través del cine, Catarata, Madrid, 2013; Id. (coord.), Ganar o morir. Lecciones políticas en Juego de tronos, Ediciones Akal, Madrid, 2014; si permetta, inoltre, il rinvio al mio, The Best Man. Le campagne elettorali viste da Hollywood, Rubbettino, Soveria Mannelli, 2016.
[5] L. Van Zoonen, Audience Reactions to Hollywood Politics, Media, Culture & Society, 2007, Vol. 29(4), p.544.
[6] In questo senso si veda la sempre maggiore attenzione epistemologica riservata alle serie televisive ritenute dal Aldo Grasso “la nuova fabbrica dei sogni”: P. C. Rollins, J. E. O’Connor, The West Wing: The American Presidency As Television Drama, Syracuse University Press, New York, NY, 2003; J. E. Hackett, W. Irwin, House of Cards and Philosophy: Underwood’s Republic, Wiley-Blackwell, Hoboken, New Jersey,NJ, 2015; Aa. Vv., Vincere o morire. Lezioni politiche nel Trono di Spade, P. Iglesias Turrión, a cura di, Nutrimenti, Roma, 2017.
[7] G. Martinotti, Prefazione, a W. Sombart, Perché negli Stati uniti non c’é il socialismo, Paravia Bruno Mondadori, Milano, 2006, p. XXIV.
[8] Le Letters from an American Farmer declinano un’opera epistolare in dodici lettere. Pubblicate nel 1782, il titolo originale Letters from an American Farmer; Describing Certain Provincial Situations, Manners, and Customs not Generally Known; and Conveying Some Idea of the Late and Present Interior Circumstances of the British Colonies in North America è considerevolmente più lungo di quello con il quale sono in genere conosciute, ma riassume in estrema sintesi le intenzioni poetiche dell’autore. Il Crèvecœur, in fuga dopo la sconfitta francese nella guerra franco-indiana per il controllo delle colonie oggi canadesi, scrisse l’opera, mentre sviluppava la sua azienda agricola vicino a Orange County nello stato di New York. Il testo è strutturato dal punto di vista di un narratore che si trovi in corrispondenza epistolare con un immaginario gentiluomo inglese, e ogni lettera riguarda un diverso aspetto della vita nelle colonie britanniche d’America. La citazione proviene dalla III lettera il cui titolo “What is an American?” appare in questa sede invero significativo [La traduzione è mia].
[9] L’espressione “Manifest destiny” venne coniata nel 1845 da John L. O’Sullivan, in un saggio intitolato Annexation, dove il giornalista incitava gli Stati Uniti ad annettersi i territori del Texas e dell’Oregon, perché era “destino manifesto dell’America di diffondersi sul continente”. L’espressione del resto se da un lato esaltava la sintesi dei valori fondativi della comunità americana dall’altro si prestava ad una ambigua giustificazione di un certo atteggiamento imperialistico. Per una ricostruzione critica del concetto, A. Stephanson, Manifest Destiny. American Expansion and the Empire of Right, Farrar, Straus and Giroux, New York, NY, 1995, (trad. it., Destino manifesto. L’espansionismo americano e l’impero del Bene, Feltrinelli, Milano, 2004).
[10] C. Siniscalchi, La Hollywood classica. L’impero costruito sull’etica americana (1915-1945), Ed. Studium, Roma, 2009, pp. 98 e ss.
[11] R. B. Ray, A Certain Tendency of the Hollywood Cinema, 1930~1980, Princeton University Press, New Jersey, NJ, 1985, p.243.
[12] Sull’uso del bianco e nero a sottolineare l’ambiguità morale si veda C. Siniscalchi, La Hollywood classica … cit., pp. 105 e ss.
[13] S. Rokkan, Cittadini, elezioni, partiti, Il Mulino, Bologna, 1982, p. 141.
[14] Per una ricostruzione del tema si veda D. Shaw, Morality and the Movies: Reading Ethics Through Film, Continuum, New York, NY, 2012, in particolare il capitolo dall’eloquente titolo Social contract theory in The Man Who Shot Liberty Valance (pp. 27 – 38).
[15] Sul personaggio di Tom Doniphon si veda S. Eyman Print the Legend: The Life and Times of John Ford, Simon & Schuster Paperback, New York, NY, 1999, pp. 466 e ss., S. A. Pearson, Why it is Tough to be the second-Tuoghest Guy in a Tough Town: John Ford’s The Man Who Shot Liberty Valance, in Print the Legend: Politics, Culture, and Civic Virtue in the Films of John Ford, S. A. Pearson (eds), Lexington Books, Lanham, MD, 2009, pp. 169 – 188.
[16] Platone, Repubblica, Libro III, 389b 7-9. (trad. di F. Sartori, Laterza & Figli, Roma – Bari, 2019)
[17] H. Arendt, Verità e politica, Bollati Boringhieri, Torino, 2004, p. 32.
[18] H. Arendt, La menzogna in politica. Riflessioni sui Pentagon Papers, in O. Guaraldo, (a cura di), Marietti, Genova, 2006. p. 11. I Pentagon Papers erano un dossier secretato elaborato dal Dipartimento della difesa americano, che descrivendo l’esistenza di molte azioni militari mai raccontate all’opinione pubblica, dimostrava come ben quattro amministrazioni, da Truman a Johnson, avessero sostanzialmente continuato a mentire al popolo americano, nascondendo le loro effettive intenzioni legate al conflitto in atto.
[19] H. Arendt, La menzogna in politica … cit., p. 9.
[20] H. Arendt, Verità …cit., p. 61.
[21] F. Troncarelli, Le maschere della malinconia. John Ford tra Shakespeare e Hollywood, Dedalo Edz., Bari, 1994, pp. 106 e ss.
[22] Cfr. B. Merrill Kelley, Reelpolitik II: Political Ideologies in ’50s and ’60s Films, Rowman & Littlefield Publishers, Laham, MD, pp. 72 e ss.
[23] Sull’argomento si veda in particolare G. Rizzoni, La democrazia al cinema. I dilemmi del costituzionalismo in cinque film, Meltemi, Roma, 2007, pp. 51 – 61.