Il popolo sta tornando in auge nella politica contemporanea. Almeno il termine “popolo” sta tornando in auge. Sotto il significante, c’è indubbiamente uno spettro. I movimenti di protesta del decennio 2010, da Atene a New York, passando per Tunisi, Il Cairo, la Siria, Hong Kong o Santiago e Parigi, si sono visti come un intervento del popolo contro chi è al potere, o addirittura contro le élite, fino a riconoscersi sotto la bandiera nazionale. E lo hanno fatto sfruttando le ambiguità insite in questa nozione.
Ethnos, demos, plethos, ochlos, laos, populus, plebs, turba, multitudo? Nazione, popolo sovrano, plebe, moltitudine, folla, comunità autonoma? Anche classi populaires, per usare le parole della sociologia politica[1], combinando il vocabolario del popolo e quello delle classi, oscurate come ‘classi medie’ dal discorso economicista dominante. Democrazia, repubblica, potere del popolo, populismo, sovranità popolare? A seconda del palcoscenico — la nazione, il Parlamento o la strada — e a seconda dei media, sarà l’uno o l’altro, o entrambi. Il “popolo” è un concetto impuro.
Un’osservazione: le lotte politiche non sono più condotte nel vocabolario delle classi. Ma questo non significa che siano scomparse, e nemmeno la lotta di classe. Questo cambiamento nel vocabolario è un segno dell’evoluzione che la sociologia politica sta registrando: “Più che alla fine della classe operaia, stiamo assistendo alla fine dell’egemonia che la classe operaia ha costruito sulla classe operaia”[2]. Come in ogni crisi dal XVIII secolo, l’egemonia del significante “popolo” per nominare il soggetto politico, senza eliminare le sue ambiguità — al contrario — è il sintomo di un profondo cambiamento nel modo in cui il conflitto politico viene concepito e condotto.
Senza dubbio, all’indomani del crollo del comunismo burocratico, alcune persone hanno creduto che fosse evaporato, che la società fosse stata pacificata e riconciliata con se stessa. Questo significava dimenticare l’essenza stessa della politica, credere che la democrazia potesse essere un regime stabile. Come ha fatto ogni volta che c’è stata una rottura negli ultimi due secoli e mezzo, la lotta per la democrazia, per la libertà e l’emancipazione collettiva, è tornata sotto la bandiera del popolo. Lo spettro del popolo solleva nuovamente la questione della democrazia, sotto forma di un ritorno alle radici della libertà politica, in un momento in cui il governo rappresentativo vede messo in discussione il suo monopolio sulla legittima espressione della ‘volontà del popolo’.
La questione non è socio-economica, ma politica e filosofica, e quindi di sociologia e teoria politica. In un’epoca di globalizzazione capitalista, questo ritorno è un processo contraddittorio di riattivazione di un vecchio ordine e di punti di riferimento, e di riaccensione delle promesse deluse della democrazia: l’ethnos pretende di recuperare i ‘valori’ della ‘nazione’ che la globalizzazione ha spazzato via, mentre la moltitudine si presenta come un potere in grado di ricostruire la democrazia, di risvegliare un demos assopito e di ripristinare una democrazia originale, radicale e autentica.
Questo ritorno del popolo, che può essere inteso come un contraccolpo, è iniziato alla fine degli anni ’80 con lo slogan dei manifestanti della Germania dell’Est, conosciuta come Repubblica Democratica, “Noi siamo il popolo”, che in poche settimane si è trasformato in “Noi siamo un popolo”: l’ethnos sostiene un populus che si blocca, sotto la sovranità dello Stato, legittimato come “Popolo sovrano”, una moltitudine autonoma e attiva che pretende di esercitare la sovranità popolare. Un’analisi rapida, certo, ma che evidenzia una questione reale.
Non quella dell’ambiguità del nome ‘popolo’ nelle lingue moderne, che è essenziale per il discorso politico[3]. Né quella di sapere cosa sia un popolo: la domanda sulla sua essenza è irrisolvibile, oppure riceve solo una risposta poliziesca, che circoscrive una molteplicità di esseri umani su un territorio soggetto al potere amministrativo. Ma la questione è come creare un popolo, come una moltitudine può essere unificata o unificarsi in un popolo. O meglio, si tratta di sapere a quale popolo, attualmente assente, è necessario fare appello, cioè cercare di costituirlo, al fine di riattivare il processo di democratizzazione.
Avanziamo un’ipotesi: un popolo è un modo di essere di una moltitudine. In altre parole, una moltitudine viene unificata o si unifica in un popolo, non per una qualità oggettivamente determinabile o per un interesse comune, ma per un’esperienza collettiva, per l’agire in comune e per la consapevolezza condivisa dai suoi membri, trascendendo le loro particolarità, di partecipare a questo collettivo. Un modo di essere è una disposizione o habitus che è il prodotto di una modificazione, che determina un tipo di relazione con gli altri e di considerazione per se stessi che non richiede più riflessione o decisione, e che quindi viene vissuto come naturale. Una “seconda natura”, secondo i classici.
Lo stesso vale, ad esempio, per i segni di educazione nelle relazioni sociali, le cortesie, regole prima dette, poi incorporate come gesti eseguiti senza nemmeno pensarci, la cui assenza offende gli altri come un’anomalia. Questi modi di essere coagulano le abitudini in modo tale che la loro spontaneità le fa sembrare naturali, mentre i processi di apprendimento che le hanno stabilite vengono dimenticati. Una moltitudine di esseri umani, più o meno sparsi su un territorio, avendo acquisito modi di essere condivisi dai suoi membri, formano un popolo, in senso antropologico.
La disposizione che ne deriva è vista come naturale e l’appartenenza al popolo come una condizione dell’esistenza dell’individuo. Da qui la tentazione di ritenerli naturali o di fissarli come carattere nazionale secondo l’immaginazione psicologica dei popoli. Il modo di essere dice più dell’ideologia includendola: dice il pensiero nei e attraverso i corpi (Pierre Bourdieu). Tuttavia, questo non è sufficiente per formare un popolo politico, e nemmeno per legittimare la pretesa di costituirne uno.
Questo popolo ethnos assume la sua dimensione politica solo con l’assunzione moderna della nazione e la sua cattura da parte dello Stato sovrano: è il nazionalismo che crea le nazioni, non il contrario (Ernest Gellner). I classici, insieme a Montesquieu, hanno messo in discussione il rapporto tra la morale che caratterizza un popolo e il sistema politico di cui è capace. Al Legislatore di Rousseau viene assegnato questo compito: collegare le abitudini ai requisiti del patto sociale determinato dalla necessità di “cambiare il nostro modo di essere” per uscire da una crisi potenzialmente fatale. Spinoza si è anche interrogato sui limiti di un colorito collettivo (ingenium) che determina storicamente i possibili cambiamenti di una forma politica.
Se, per i moderni, il Popolo — populus o dèmos, anche se i due termini non hanno lo stesso valore — è un principio che legittima il potere sovrano, esso esiste effettivamente solo nella modalità di un popolo plasmato dai suoi costumi, ethnos che immagina la sua identità nel tempo, o addirittura si immagina come portatore di valori universali da propagare in tutto il mondo. Sotto il timore di questa “densità promiscua e tumultuosa, che scoppia di affetti, tattile e mormorante. Radicalmente banale, non idealizzabile: una torba[4]. Comprende l’inquieto, lo scorretto, a volte l’ignobile[5]. Dèmos o ochlos, turba? Dove possiamo trovare queste persone turba oggi? Nelle folle vendicative o nella massa consumistica? Che ne è dell’opinione pubblica, formata da cittadini informati che riflettono liberamente sull’interesse comune, in un’epoca di sondaggi di opinione che plasmano l’odio e i desideri individuali?
Se un popolo è un modo di essere di una moltitudine, allora ci sono diversi modi di essere un popolo, diversi modi di apparire come un popolo. Qualsiasi affermazione come “noi siamo il popolo”, o “noi siamo un popolo”, implica una differenza da un “voi” o un “loro” che non sono un popolo, o che provengono da un altro modo di essere un popolo, da un altro popolo. È questo gioco di differenze che dà origine, qui o là, a un tale e tale popolo, a un tale e tale modo di presentarsi come popolo, di presentarsi all’altro che non è tale, e quindi anche a se stessi, alla molteplicità di soggetti che si riconoscono nella figura che appare e li convoca o li sfida. Un modo di essere un popolo è un modo in cui i suoi membri riconoscono di appartenere a questo popolo. Ciò che serve, quindi, è un’istanza in cui un modo di essere possa apparire, sia ai suoi membri che agli altri, e differenziarsi dagli altri. Sotto due aspetti: da questi altri situati al di fuori del popolo, o da coloro che, dall’interno del popolo, dovrebbero sfidare la sua unità, o persino la sua identità, o la sua unificazione.
Chiamo palcoscenico questa istanza di apparire a se stessi e agli altri, che agisce allo stesso tempo come un operatore di costituzione, una mediazione tra una moltitudine e un popolo, attraverso la quale si fa conoscere a se stessa e agli altri come un popolo unificato: su un palcoscenico una figura si presenta come capace di chiamare i membri di una moltitudine che si riconoscono come appartenenti a questo popolo. Si tratta di un “palcoscenico dell’Altro” (Jean-Toussaint Desanti), in cui ogni persona si trova in relazione a tre modalità di alterità: quest’altro, con cui riunirsi, l’altro contro cui lottare e, infine, questo terzo, per un certo tempo indifferente al conflitto, che è necessario conquistare a se stessi.
Non esiste un popolo naturale; viene sempre creato attraverso la mediazione delle istituzioni.
Su ogni palcoscenico, una drammaturgia dà corpo alla formazione e all’azione di un popolo, drammaturgia prodotta da organismi come scuole, romanzi, film, musica, stadi, partiti e sindacati. La stampa e i mass media, inventati dalla modernità, sembrano essere i mezzi con cui queste drammaturgie vengono messe in scena e amplificate pubblicamente.
Tre scene configurano tre modi di essere un popolo all’interno della stessa società, invalidando in anticipo qualsiasi tentativo di omogeneizzazione, rendendo possibile, in qualsiasi situazione, la predominanza di una sulle altre due, senza eliminare le contraddizioni che le legano, senza mai raggiungere l’esclusività. Qualsiasi tesi a sostegno dell’omogeneità del popolo si basa sulla negazione dell’esistenza di due di esse. Chiamo queste tre scene Paese, urne-parlamento e strada-città.
La prima è la comunità transistorica dei vivi e dei morti, immaginata come produttrice di un mondo singolare e di un modo di vivere tra gli altri. Le persone sono viste come agenti che costruiscono il Paese e, nelle versioni non razziste, come prodotti della loro stessa attività. I contadini guidano il corteo, spesso soldati i cui nomi saranno iscritti sui monumenti di guerra nelle piazze dei villaggi e delle città. Non erano occupanti di un territorio, ma artigiani di un Paese reso abitabile coltivando la terra e curando le anime, trasformando i dati tettonici e climatici in realtà geografiche e umane. I vivi si immaginano come figli e figlie del Paese, della madrepatria, con una responsabilità da ereditare e un dovere verso i morti. Édouard Glissant vede la nave negriera come il Paese degli Indiani d’Occidente, discendenti degli schiavi, un Paese di mezzo, di sradicamento. Può anche essere una lingua, come lo Yiddish per il sionismo diasporico europeo della fine del XIX e dell’inizio del XX secolo.
In tutti i casi, gli antenati chiedono che i vivi siano degni dell’eredità che hanno trasmesso[6], impegnando tutti nell’orgoglio nazionale, nell’orgoglio di questo popolo. La drammaturgia che anima questa scena ha figure emblematiche, quelle dei ‘fondatori’ o delle ‘fondatrici’, o altre, più recenti o addirittura contemporanee, che la incarnano[7], dando ragione dell’identità della nazione attraverso la sua storia. La rende un dramma in cui si forgiano dei ‘valori’ comuni. Questo si realizza allo stesso tempo attraverso opere letterarie, teatrali, musicali e cinematografiche, formando una cultura popolare nazionale (Gramsci), anche negli stadi, e attraverso la scuola, una mediazione che forma i membri di questo popolo mettendoli alla prova come soggetti nazionali che, per i moderni, sono anche portatori di diritti civili, politici e sociali.
Possiamo notare qui che è impossibile isolare la scena in cui appare l’ethnos da quella del demos o populus, quella dell’identità immaginata da quella della rappresentazione politica: mentre la produzione artistica e culturale è spontanea, la scuola è sotto l’autorità del sovrano e, per lui, l’elemento chiave nella costruzione del popolo. Da qui la dimensione eminentemente politica dei dibattiti sul tema. In ogni caso, questo rivela, se fosse necessaria una prova, che non esiste un popolo immediatamente dato, come naturale, ma sempre mediato dalle istituzioni attraverso le quali è ciò che è.
La seconda scena presenta il passaggio da uno stato di natura, ipotetico o reale, non importa, allo Stato civile, attraverso la mediazione di un patto sociale, che legittima l’esercizio del potere sovrano. Qui, la moltitudine diventa un popolo, ciascuno con ciascuno, attraverso il mezzo del rappresentante che figura, e quindi conferisce unità al rappresentato, sia per incarnazione che per proiezione di ciascuno in tutti, o addirittura nel Tutto. Attraverso il sovrano, c’è la Legge, necessaria per la vita comune, una Legge che, per i moderni, sostituisce tutte le altre, siano esse familiari, religiose o sociali. Questo è ciò che caratterizza la natura secolare dello Stato. In questa fase, si svolge la drammaturgia dello sviluppo politico, attraverso la quale il Popolo diventa il principio o l’autore delle leggi, attraverso le quali vengono costituite sotto l’autorità dei loro rappresentanti, di cui legittimano il potere. Questo popolo, il principio della legge, “colui che solo fonda” (Jules Michelet), si riconosce veramente nell’obbedienza alle leggi di cui è, “in un certo senso”, l’autore. Il passaggio dall’uguaglianza naturale all’uguaglianza legale. Dei diritti?
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Questa drammaturgia sorvola su una difficoltà: il rappresentante che parla “in nome del popolo” sembra essere un delegato del popolo, anche se è questa parola, rivolta a una moltitudine, che raggiunge l’unità, o addirittura l’omogeneità, a condizione che i membri della moltitudine la ascoltino e si riconoscano in essa. “Parlare in nome di” significa in realtà rivolgersi a coloro in nome dei quali stiamo parlando, e costituirli come un corpo unificato attraverso un “vi ho capito” che può essere o meno punteggiato da un’acclamazione. Questo significa anche che la rappresentanza mantiene una distanza permanente tra rappresentante e rappresentato, e deve essere sempre rifusa, in altre parole che nessun rappresentante è giustificato a presentarsi come il popolo: il popolo non può essere incarnato in nessuna figura.
Di conseguenza, il tema dell’autolegislazione di un popolo che obbedisce alle leggi di cui è esso stesso l’autore sembra essere un mito (Catherine Colliot-Thélème), un mito indubbiamente utile, ma che maschera la reale dominazione costitutiva del popolo. La realtà di questa forma democratica di potere risiederebbe in uno Stato capace di garantire l’esercizio dei diritti soggettivi dei suoi cittadini, contrariamente alla tendenza di qualsiasi governo a limitarli.
La combinazione di queste due drammaturgie giustificherebbe la costituzione di Stati-nazione moderni, immaginati come formati da una storia, da credenze, da valori e persino da una lingua comuni a tutti i cittadini e che garantiscono uguali diritti civici e, successivamente, diritti politici e sociali. È il popolo o la nazione a detenere il potere costituente? Da solo o attraverso i suoi rappresentanti? Qual è il rapporto tra il popolo e i suoi ‘rappresentanti’? Hanno un mandato sovrano o un mandato imperativo? Qual è il loro rapporto con le leggi? Sono condizioni di libertà o un mezzo di servitù volontaria? Come possiamo attuare un modo di essere democratico? Come comprendere l’idea di auto-legislazione che si suppone definisca la moderna repubblica democratica? Si tratta di una realtà effettiva o di una mistificazione che maschera un vero dominio? E la dominazione, come esercizio del potere, può essere eliminata? Possiamo davvero passare dal potere sugli altri al potere tra alcuni e altri?
Queste sono le domande che guidano la terza fase, quella che per convenzione chiamo rue-comités. È di per sé l’invenzione del moderno, come traccia di ciò che la Rivoluzione dell’89 può avvolgere nell’universalità. Con questo intendo uno spazio pubblico di intervento per una massa di persone che si proclamano popolo, in grado di sfidare l’ordine legale, spesso gridando “Siamo il popolo”, opponendo due modi di essere, quello dei governanti o dei dominatori e quello del popolo, forgiato nell’esperienza condivisa del lavoro e della solidarietà di fronte a molteplici forme di dominio (economico, sociale, politico, razziale, sessuale, culturale, ecc.)
In questo senso, le strade delle città, con le loro barricate o manifestazioni, le fabbriche occupate o, più quotidianamente, le discussioni tra i lavoratori, i delegati sindacali, legalmente riconosciuti o meno, le piazze, le rotonde, i campi falciati di OGM, i campi e i sentieri delle manifestazioni nelle zone rurali, le ZAD, i sentieri di montagna utilizzati dai rifugiati e da coloro che li aiutano, eccetera, sono inclusi sotto questo significante. Nel complesso, si riferisce alla zona in cui il confine tra legalità e illegalità non è impermeabile: comprende la necessaria illegalità che i movimenti operai e popolari hanno dovuto assumere per affermarsi in modo autonomo. Quella che i sostenitori dell’ordine chiamano “violenza”.
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Rue dice tutto, ossia ciò che non è necessariamente soggetto alle forme di legalità del sovrano, ma che può anche fare affidamento sulla lettera della legge per esercitare un diritto di controllo o di sfida del potere governativo. La novità del movimento moderno è che rende questa scena una conditio sine qua non della politica democratica, e quindi comprende che gli interventi della strada non sono semplicemente di protesta o di detronizzazione, ma possono essere costitutivi, una richiesta di diritti. Questo popolo che appare in strada si dà nella sua spontanea immediatezza, o anche in un’autenticità di cui le mediazioni necessarie all’essere del populus lo avrebbero privato? Crederlo significherebbe confondere l’imprevedibilità di una rivolta con l’esistenza spontanea del popolo, o assecondare il discorso statale che lo assegna alla folla turbolenta.
Fare popolo, al plurale e non nell’alienante unione nazionale, è una questione di arte politica.
In realtà, questa scena espone la differenza tra questo popolo della sovversione e una folla, quando adotta forme di organizzazione autonome dalla dominazione. Da qui l’accoppiamento necessario tra la strada e i comitati, dalle sezioni dei sans-culottes, alle assemblee nelle piazze e nelle rotonde, passando per i soviet o i consigli, ma anche i sindacati dei lavoratori e i partiti politici. In gioco: la capacità di deliberazione autonoma del maggior numero possibile, e quindi la democrazia dal basso. La tesi decisiva si basa sul principio che “l’emancipazione della classe operaia deve essere opera dei lavoratori stessi”[8]. È l’atto di agire in comune, attraverso un’organizzazione autonoma dagli organi statali, l’esperienza dell’uguaglianza, che è l’emancipazione popolare.
Così come esiste una pluralità di forme di dominio — economico, politico, coloniale, di genere, razziale — esiste anche, in questa fase, una pluralità di popoli: qualsiasi riduzione a uno di essi, dichiarato decisivo, equivale a un rinnovamento del potere dell’Uno proprio del Popolo sovrano, il potere che fonda l’autorità statale. I partiti e i sindacati rischiano sempre di proporsi come rappresentanti del popolo, aprendo la strada all’illusione populista di un popolo presente in sé, nella sua purezza, sulla scena pubblica.
Il significante “popolo” racchiude una richiesta di trasversalità (Pierre Dardot), per cui una rivendicazione derivante da una forma di dominio non comporta la soddisfazione di una richiesta particolare, corporativa, ma risuona in tutto il dominio della giustizia trasformando le relazioni sociali. Questo è il caso delle lotte femministe e antirazziste, delle richieste di uguaglianza di genere e così via. Diventano un popolo quando vengono adottate da gruppi diversi da quelli da cui emergono, anziché essere confinate a una particolare richiesta di riconoscimento.
Poiché le motivazioni di queste azioni sono radicate nella richiesta di libertà reale, nel desiderio di realizzare le promesse rivoluzionarie, nel desiderio di diventare soggetti della politica, direi che derivano dalla sovranità popolare, differenziandosi così dal Popolo sovrano. In contrasto con il popolo che dovrebbe essere l'”autore della legge”, chiamerò questi popoli attori. Sono il “vero popolo”? Certamente no: “popolo” è il nome del complesso diviso in tre popoli in tensione, persino in contraddizione, nelle congiunture storiche moderne.
In ogni formazione sociale moderna ci sono tre popoli, che si combinano o si dividono a seconda del momento, intrecciando le loro caratteristiche in proporzioni variabili. Le scienze sociali e politiche forniscono un’analisi concreta dell’intreccio di queste tre drammaturgie. Possiamo parlare di drammaturgia del terzo stadio? C’è bisogno di una figura eroica che incarni il Popolo Uno in questa fase? È chiaro che questo sarebbe un rischio, quello del “leader della plebe” (Maritn Breaugh), del grande timoniere, del lider maximo, o anche del “leader amato”, che sarebbe difficile da scongiurare e che alla fine porterebbe al rinnovamento delle forme stataliste di potere dell’Uno. Come possono questi popoli attori unificarsi? Come, nella necessaria unificazione, possono evitare di cadere nella delega di potere e nella disciplina, aspetti negativi della democrazia, che sono necessari per un’azione efficace? Si tratta indubbiamente di aporie.
Questa fase, anche se è integrata in uno Stato nazionale, non è necessariamente limitata da esso. Pertanto, rende possibile la formazione di popoli transnazionali: formare un popolo con i migranti, senza richiedere l’assimilazione, rivendicando un diritto all’ospitalità (Balibar), e non un diritto all’ospitalità per motivi umanitari. Un “diritto ad avere diritti” (Hannah Arendt), in altre parole ad agire con gli altri, senza i quali vengono “consegnati all’oblio” (Etienne Tassin), come se fossero annientati da questa polizia che nega loro qualsiasi identità, qualsiasi singolarità.
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Creare dei popoli, al plurale e non in un’unione nazionale alienante, è una questione di arte politica, che intreccia questi tre filoni. Una politica di emancipazione, di democratizzazione, sarà caratterizzata dal primato dato agli atti della terza fase: un primato che non significa esclusività, lasciando all’estrema destra il controllo della base nazionale e alla tecnocrazia capitalista le chiavi dello Stato. Il primato accordato ai consigli sostiene che i subalterni non possono lasciare gli affari politici agli ‘specialisti’, che la questione è effettivamente quella di sapere come i molti possono prendere in mano gli affari della Città, come la vera democrazia, fondata sulla deliberazione dei molti, può essere ancorata ‘in basso’, essere fatta dal basso.
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Non possiamo davvero separare queste tre scene, questi tre modi di essere un popolo: interagiscono tra loro, pur avendo una propria scenografia. Le esperienze collettive non possono essere pure, né ciò che chiamiamo un popolo in un sito particolare. Le esperienze non si sedimentano, ma interagiscono tra loro in base a ciò che il corpo sociale è in grado di fare in un determinato momento del suo sviluppo. L’orgoglio di appartenere a questo Paese, l’obbedienza al sovrano, che può essere sostenuta dall’immaginazione di partecipare alla sovranità, e il paziente desiderio di riformare o rivoluzionare l’ordine iniquo esistente si intrecciano, in proporzioni diverse a seconda della posizione sociale, evolvendo in base alle circostanze e attraversando gli individui.
L’orgoglio nazionale può essere combinato con l’obbedienza per reprimere il potere di una moltitudine insorgente, o addirittura per giustificare l’uso della forza repressiva più violenta contro una fazione il cui essere come popolo, o addirittura la sua umanità, è stato negato. Può essere combinato con un desiderio di vendetta, e cercare nel governo rappresentativo la causa della perdita del prestigio nazionale e del danno subito in comune, delle disuguaglianze che umiliano. Allora un popolo sosterrà che la democrazia (rappresentativa) è la morte del popolo in quanto popolo, con i rappresentanti accusati di aver catturato i benefici del potere per il proprio profitto, motivo per cui il popolo è chiamato a mobilitarsi dietro un leader che esprima la sua identità. Questa è la posizione di Schmitt, che conclude che è necessario uno Stato totale.
Qui, è il desiderio di omogeneità nazionale, considerato come naturale, a formare il legame del popolo e il motivo del programma politico a cui aderisce: il riferimento alla patria, immaginata come un luogo naturalmente (o teologicamente) affidato al popolo, è al centro della scena, con le forze insurrezionali che ritrattano il palcoscenico della rappresentanza divenuta illegittima. La formazione di un popolo fascista. D’altra parte, il primato del potere insurrezionale, combinato con l’orgoglio nazionale e il desiderio di diritti, può portare a un’apertura ai non indigeni e a concedere loro la nazionalità, come è avvenuto nei primi giorni della Rivoluzione dell’89[9] e durante la Comune.
Un popolo è apparentemente costruito contro le élite dominanti. Ma in realtà è costituito dalla differenza da un altro popolo, un modo di essere dalla differenza da un altro, dalla differenza dalla folla. In una popolazione, almeno tre popoli sono in tensione tra loro: il popolo del Paese, il popolo della rappresentanza sovrana e il popolo dell’insurrezione.
In realtà, il più delle volte, parlare di popolo, di un popolo, significa fondere questi tre tipi di esperienza, dimenticare la loro pluralità. Al contrario, ci fa riflettere sulla loro diversità, comprendendo che “popoli” si dice sempre al plurale (Etienne Tassin).
Note
[1] Olivier Schwartz, “Possiamo parlare di classi lavoratrici” , La Vie des Idées , 13 settembre 2011; Sophie Béroud, Paul Bouffartigues, Henri Eckert, Denis Merklen, Alla ricerca delle classi lavoratrici. Un saggio politico , La Dispute, 2016.
[2] Sophie Béroud et al., op. cit. , P. 15.
[3] Permettetemi di citare il mio libro: Le vie del popolo. Elementi di una storia concettuale, Éditions Amsterdam, 2018.
[4] Turba: la moltitudine, la folla del popolo. ( Ed .)
[5] Christian Prigent, “Scrivere al popolo”, in , Antony Burlaud, Allan Popelard e Gregory Rzepski (dir.), Le Nouveau monde. Tavola della Francia neoliberista , Éditions Amsterdam, 2021, p. 753.
[6] Ad esempio: «I miei antenati, a migliaia, avevano aspettato come me, che scendesse la notte per seppellire i loro passi; si erano affidati a un vero amico e avevano sentito le zanne dei cani alle calcagna. Era semplice. Dovevo essere degno di loro. » Angela Davis, Autobiografia , tradotta da Cathy Bernheim, Éditions Aden [1975], 2003, p. 15.
[7] Così è, se seguiamo Emmanuel Macron, di Johnny Halliday, secondo le osservazioni fatte durante il “tributo nazionale” reso al cantante: ““Johnny” non solo “è entrato nelle nostre vite”, ma è diventato un elemento indispensabile presenza, un membro della nostra famiglia, un “amico”, un “fratello”. Ma la presenza di Johnny – nome che indica il grado di prossimità e di appropriazione a cui è stata sottoposta la sua persona – non si riduce a questa intima convivenza. Perché se Johnny appartiene “al suo pubblico”, un pubblico che si divide in una moltitudine di ammiratori che lo portano, ciascuno a modo suo, “nel suo cuore e nella sua vita”, lui in definitiva è “una parte di noi stessi” come “popolo unito”. In fondo, infatti, Johnny è “una parte della Francia”: superando “le generazioni” e “tutto ciò che divide la società”, permette alla “nazione” di costituirsi come “un popolo unito attorno a uno dei suoi figli prodighi. Tale effervescenza emotiva “è autentica”: “non tradisce”, prosegue Emmanuel Macron, “non posa”. “È una di quelle energie che fanno un popolo”. » Laurence Kaufmann, “Il singolare, il plurale e il generale” , Sociologie S, 23 maggio 2019. Questo testo è bello per essere vero, eppure è molto autentico. La storia non nomina la “penna” di questo pezzo antologico.
[8] Karl Marx, Statuti dell’Organizzazione internazionale dei lavoratori, 1864. Vedi Yohan Dubigeon, La democrazia dei consigli. Le origini moderne dell’autogoverno, Klincksieck, 2017.
[9] Sophie Wahnich, Il cittadino impossibile. Lo straniero nel discorso della Rivoluzione francese, Albin Michel [1997], 2010.
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Gérard Bras, è FILOSOFO, DIRETTORE DEL PROGRAMMA PRESSO IL COLLÈGE INTERNATIONAL DE PHILOSOPHIE E PRESIDENTE DELL’UNIVERSITÉ POPULAIRE DES HAUTS-DE-SEINE.
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Fonte: AOC Media.