Definire il genere dello Stato predatore: “maschile militarizzato”

 

La natura maschile militarizzata dello Stato predatore è profondamente intrecciata con la sua relazione organica con la produzione militare. Questa simbiosi non solo favorisce l’espansione del settore privato, ma coltiva anche un terreno fertile per il suo coinvolgimento nelle imprese militari, sia direttamente attraverso i contratti che indirettamente attraverso il coinvolgimento del settore finanziario. In questo senso, la sede dello Stato predatore è il Complesso militare-industriale, la cui influenza si estende in tutto il mondo come un cacciatore implacabile. Facendo leva sulle minacce reali o percepite poste dal terrorismo e dai nemici, lo Stato predatore maschile militarizzato giustifica il suo esercizio di potere in nome della protezione della maggioranza della popolazione. Tuttavia, questa protezione spesso ha il prezzo salato di trascurare gli investimenti nel benessere sociale. Inoltre, l’onere di sostenere questa illusione di sicurezza ricade in modo sproporzionato sulle spalle dei membri più vulnerabili della società, in particolare le donne. Man mano che il benessere sociale si riduce, le donne si trovano a sostenere un fardello sempre più pesante.

In conclusione, lo Stato predatore è di genere; incarna un’identità ‘maschile militarizzata’ e opera all’interno della sede del Complesso militare-industriale (globale), facendo affidamento sul lavoro non retribuito delle donne.

L’analisi femminista dell’economia politica fa un parallelo tra i capifamiglia maschi e lo Stato maschile, che esercitano entrambi il controllo sulle persone a carico con il pretesto di agire nel loro interesse. Il loro potere è intrinsecamente violento, ma questa violenza è spesso mascherata da ideali di virtù e amore (Young 2003: 6; True 2015: 419). Ampliando questa analogia, si potrebbe affermare che nell’era del neoliberismo finanziario, lo Stato incarna non solo una persona maschile, ma un capofamiglia “maschile militarizzato” e, cosa più significativa, un capofamiglia “abusivo” del lavoro delle donne su scala globale. Basandoci sul concetto di Stato predatore di James K. Galbraith, illustriamo l’impatto di genere dello Stato capitalista contemporaneo.

Attingendo alla teoria sociale evolutiva di Thorstein Veblen, James K. Galbraith ha introdotto il termine “Stato predatore” in una delle sue opere più significative, per chiarire la rinascita del comportamento predatorio all’interno del mondo degli affari negli Stati Uniti (Galbraith 2008). Galbraith ha affermato che durante l’era del neoliberismo finanziario, i capitalisti hanno cercato di ottenere “il controllo completo dell’apparato statale” (Galbraith 2008: 131). Questo ha fatto sì che il governo si trasformasse in una mera coalizione di rappresentanti di industrie regolamentate, come quella mineraria, petrolifera, dei media, farmaceutica e agricola, decisi a dominare completamente il quadro normativo. La loro prospettiva vedeva le attività economiche del governo non attraverso lenti ideologiche, ma solo come vie per un enorme profitto privato su scala continentale (ibid. 131). La preda in questo scenario è (la maggior parte) il pubblico, che soffre per l’esaurimento delle risorse pubbliche, che a sua volta diventa un’opportunità di profitto per le aziende.

Contrariamente alla concezione comune, il paradigma economico neoliberale non promuove necessariamente uno Stato più piccolo, ma assegna piuttosto un ruolo maggiore allo Stato nel facilitare l’espansione del settore privato per perseguire il profitto in più aree (Galbraith 2008; True 2015). In linea con questo obiettivo, il neoliberismo riduce la spesa pubblica per i programmi di welfare e i beni pubblici, indebolendo la solidarietà sociale. Questa riduzione può estendersi anche ai servizi di difesa e di polizia. Poiché gli Stati diventano sempre più incapaci di adempiere a questi ruoli, il settore pubblico viene percepito come debole (eccessivamente ‘femminile’ o ‘morbido’), rendendo necessario l’intervento del settore privato per fornire i compiti e i servizi che lo Stato indebolito non può più permettersi per i suoi cittadini (Peterson e Runyan 1999: 104; Via 2010: 46-47).

È documentato che il militarismo serve come strumento molto utile per lo Stato predatore, in particolare quando è allineato con il neoliberismo finanziario (Harvey 2005; True 2015; Marshall 2020; Akcagun-Narin e Elveren 2023). La retorica neoliberale spesso si rafforza attraverso narrazioni di paura e pericolo, enfatizzando l’importanza della militarizzazione dello Stato (Harvey 2005). La minaccia pervasiva del terrorismo, sia a livello internazionale che interno, ha influenzato in modo significativo i discorsi sulla sicurezza nazionale, portando a una maggiore militarizzazione sociale e pratica degli Stati. Ciò include gli sforzi per raccogliere sostegno a livello sociale e l’assunzione di società militari private come estensioni della tradizionale ‘sicurezza nazionale’ fornita dai militari nazionali (True 2015). Questo paradigma rafforza l’aumento della spesa militare a scapito di una minore spesa per il welfare, nonché degli investimenti ambientali e infrastrutturali, rendendo le grandi maggioranze più vulnerabili alle sfide sociali, economiche e ambientali. In altre parole, lo Stato predatore dirotta più risorse verso una produzione di armi improduttiva ma altamente redditizia, a spese del benessere della maggioranza. Si parla di “violenza strutturale” (Runyan e Peterson 2014). Ovviamente, i divari di genere nel mercato del lavoro domestico e retribuito rendono la violenza strutturale più dannosa per le donne. Cioè, “la violenza strutturale delle priorità e delle disuguaglianze politiche, economiche e sociali che lasciano ampie fasce di persone soggette a disoccupazione, sottoccupazione, povertà, malattia, malnutrizione, crimine e violenza domestica e sessuale” ha una dimensione di genere (Runyan e Peterson 2014: 13).

La finanziarizzazione serve anche gli interessi dello Stato predatore e ha impatti diversi sul benessere di uomini e donne. Negli anni ’70, i capitalisti hanno cercato di rafforzare il loro potere economico in risposta al calo dei tassi di profitto (Harvey 2005). A questo proposito, l’adozione delle politiche economiche neoliberali a partire dai primi anni ’80, insieme alla rapida espansione del settore finanziario, ha rappresentato una preziosa opportunità per i capitalisti di compensare il calo dei tassi di profitto. La deregolamentazione e i progressi del sistema finanziario hanno facilitato un aumento significativo dei flussi di capitale transfrontalieri e lo sviluppo di nuovi strumenti finanziari, consentendo al capitale di generare profitti sostanziali non attraverso la produzione, ma attraverso la negoziazione di attività finanziarie (ossia, fare soldi con i soldi). Il settore finanziario è diventato sempre più coinvolto nel finanziamento della produzione di armi e si è integrato perfettamente con il settore militare attraverso l’acquisto di azioni. Questo profondo cambiamento nel paradigma economico ha fornito ai produttori di armi nuove opportunità per aumentare la redditività, espandendo la scala della produzione di armi e il suo finanziamento. Questa relazione simbiotica tra il settore finanziario e i produttori di armi si è rafforzata nel 21° secolo. Il settore militare, con i suoi elevati margini di profitto, è diventato un’opzione di investimento attraente grazie al suo potenziale di rendimento eccezionalmente elevato (Marshall 2020; Akcagun-Narin e Elveren 2023). Le principali società finanziarie hanno ampliato la loro influenza sul settore militare acquisendo aziende di difesa o acquistando le loro azioni. Il capitale gode di alti rendimenti quasi privi di rischio sugli investimenti nei settori militarizzati, che sono sempre più promossi dallo Stato predatore militarizzato. Questi fondi potrebbero altrimenti essere investiti in infrastrutture civili o in programmi di assistenza sociale. Secondo Runyan e Peterson (2014), il trading finanziario distoglie le risorse e l’attenzione dagli investimenti a lungo termine nell’industria, nelle infrastrutture e nel capitale umano (sociale). Questa deviazione esacerba le condizioni di estrema disuguaglianza e contribuisce alle crisi di riproduzione e sostenibilità sociale. È evidente che la mancanza di tali investimenti rischia di danneggiare in modo sproporzionato le donne, che dipendono maggiormente dalla spesa sociale.

La finanziarizzazione aumenta anche la vulnerabilità delle donne attraverso le crisi finanziarie. Se da un lato facilita l’accumulo di capitale, fornendo maggiori opportunità alle grandi aziende, dall’altro ostacola il processo di accumulo di capitale facendo precipitare le crisi finanziarie. Senza dubbio, l’impatto delle crisi finanziarie varia a seconda delle classi sociali e del genere. Esiste una vasta letteratura sui costi di genere delle crisi finanziarie causate dall’uomo, con studiose femministe che esaminano come il lavoro non retribuito sia stato chiamato a colmare il divario tra il benessere pubblico e la fornitura del mercato privato durante le crisi economiche (Bennholdt-Thomsen 1981; Elson e Pearson 1981; Mackintosh 1981; Mies et al., 1982; Picchio 1992; Elson 1998; Hoskyns e Rai 2007; Bakker 2007; Bedford e Rai, 2010; Rai 2013; Antonopoulos 2014).

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Quando la crisi economica colpisce, la disoccupazione aumenta, i salari reali, i servizi sociali e i trasferimenti assistenziali diminuiscono, le donne sono chiamate al loro dovere di compensare la perdita di reddito monetizzato. Aumentano il lavoro retribuito e non retribuito, sia in termini di tempo che di intensità. Sassen si riferisce a questo fenomeno come alla “femminilizzazione della sopravvivenza” (2000), dove le donne, come strategia di sopravvivenza, si affidano pesantemente alle attività informali per garantire la riproduzione sociale. Le crisi economico-finanziarie causate dall’uomo comportano la perdita di posti di lavoro sicuri e di capacità di guadagno, portando alla concentrazione delle donne in forme di lavoro precarie. Questo, a sua volta, porta a orari di lavoro più lunghi per le donne, che cercano di mitigare l’impatto sul reddito familiare. Inoltre, si registra una diminuzione della partecipazione delle ragazze all’istruzione, il deterioramento delle condizioni di salute delle donne, l’aumento del lavoro minorile e il coinvolgimento delle donne in attività informali lecite e illecite. Inoltre, c’è un aumento della violenza strutturale e della violenza diretta contro le donne (Aslanbeigui e Summerfield 2001; Harcourt 2014; Runyan e Peterson 2014; Sutton 2010; True 2012; True e Tanyag 2019: 18).

La natura maschile militarizzata dello Stato predatore è profondamente intrecciata con la sua relazione organica con la produzione militare. Questa simbiosi non solo favorisce l’espansione del settore privato, ma coltiva anche un terreno fertile per il suo coinvolgimento nelle imprese militari, sia direttamente attraverso i contratti che indirettamente attraverso il coinvolgimento del settore finanziario. In questo senso, la sede dello Stato predatore è il Complesso militare-industriale, la cui influenza si estende in tutto il mondo come un cacciatore implacabile. Facendo leva sulle minacce reali o percepite poste dal terrorismo e dai nemici, lo Stato predatore maschile militarizzato giustifica il suo esercizio di potere in nome della protezione della maggioranza della popolazione. Tuttavia, questa protezione spesso ha il prezzo salato di trascurare gli investimenti nel benessere sociale. Inoltre, l’onere di sostenere questa illusione di sicurezza ricade in modo sproporzionato sulle spalle dei membri più vulnerabili della società, in particolare le donne. Man mano che il benessere sociale si riduce, le donne si trovano a sostenere un fardello sempre più pesante.

In conclusione, lo Stato predatore è di genere; incarna un’identità ‘maschile militarizzata’ e opera all’interno della sede del Complesso militare-industriale (globale), facendo affidamento sul lavoro non retribuito delle donne.

Riferimenti

Akçagün, P. e A. Y. Elveren. (2023). Finanziarizzazione e militarizzazione: Un’indagine empirica. Rivista di Economia Politica Radicale https://doi.org/10.1177/04866134231167

Antonopoulos, R. (Ed.) (2014). “Introduzione” in Prospettive di genere e impatti di genere delle crisi economiche globali. New York: Routledge.

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Fonte: nakedCapitalism