Il film si separa da altri documenti in modo radicale perché si svolge nel tempo, nulla impedisce di soffermarsi su un dialogo o su un dettaglio di un’immagine e di osservarli a lungo, le immagini in movimento scorrono velocemente, se ne fermiamo una, diventa una semplice fotografia. Ma essendo movimento, il film è tempo; mentre il movimento viene rappresentato, il tempo viene percepito come tale, come successione di istanti.

I film non vanno considerati come finestre sull’universo perché costituiscono uno degli strumenti con cui la società si mette in scena e si mostra. Allora si tratta di documenti del tempo quando sono stati realizzati e fonti per gli storici per scoprire e analizzare ciò che in un certo periodo veniva socialmente pensato con il rischio, sempre presente, di interpretare il passato con gli occhi del presente. (esemplare potrebbe essere il confronto tra un film degli anni Trenta e un film contemporaneo sugli anni Trenta).

Il documento audiovisivo ha una triplice valenza: a) fonte storica diretta del tempo in cui è girato, testimone di paesaggi e comportamenti; b) fonte indiretta come riflesso tra le mentalità correnti e l’immaginario collettivo; c) come scrittura storica per immagini, cioè un mezzo per rappresentarla.

Si tratterebbe di cogliere simultaneamente, l’aspetto di una realtà e la lettura della mentalità che ne scaturisce. Ma i film non sono la realtà, similmente agli specchi che incorniciano, delimitano e a volte distorcono, riflettendo ciò che hanno di fronte, i vari aspetti prodotti dalla società.

Ma c’è ancora un problema: l’inserzione di materiali di repertorio, spesso poco attendibili, quando non faziosi o indirizzati a mostrare una tesi. Il materiale di repertorio può provenire da altri filmati precedenti e “resi vivi e attuali”. Alcuni esempi: nei filmati della CBS sulla rivolta ungherese del 1956 erano stati inseriti spezzoni (la facciata di un palazzo nella notte illuminata dai bagliori di un incendio) che si riferivano al bombardamento di Londra e l’assalto di un carrarmato con una molotov, ma durante la seconda guerra mondiale). Più recentemente, durante la guerra del Golfo la diretta di Ted Turner della CNN trasmessa da Bagdad ci mostrava i bagliori di un bombardamento, mentre erano i razzi traccianti della contraerea irachena. O la stessa corazzata Potemkin, quella del 1905, faceva intendere che fosse la corazzata Aurora che effettivamente nel 1917 puntò i cannoni su Palazzo d’inverno… Inutile dire che le ricostruzioni con attori contemporanei che interpretano gli eventi passati, ci portano direttamente nella fiction abbandonando completamente la storia soltanto per il piacere e l’abitudine visiva degli spettatori. Il monito di Jacques Le Goff: “Occorre tener conto della forza didattica del cinema e della televisione. Davanti al piccolo schermo e al grande schermo la gente ha fiducia, crede nelle scene e nei fatti narrati”, chiosa il regista Peter Greenaway: “Il lettore possiede sul libro una padronanza che non avrà mai lo spettatore di un film”.

Ricordiamo la lezione di Pierre Sorlin: “Un film storico è una ricostruzione dei rapporti sociali che, col pretesto del passato, riorganizza il presente”. (Si può prendere ad esempio un evento quale la rivoluzione francese e osservarlo non dentro l’evento ma dal punto dove il pubblico è seduto insieme al suo mondo e al suo tempo: Napoleone (1938), La Marsigliese (1937), Campo di Maggio (1935) con un intervento diretto di Mussolini all’esame della sceneggiatura e con l’equivalenza Napoleone = Duce…)

L’immagine non è, in sé, né vera né falsa, non offre che un aspetto di una realtà che si estende al di là di quanto banalmente mostri. Eppure come ogni altra forma di rappresentazione, messa in scena semi-verità è soggetta a manipolazioni. Già segnata da una forte ambiguità quale registrazione fotografica, riflette un frammento del mondo, dall’altra essendo rimaneggiata attraverso l’inquadratura, la durata, i movimenti della cinepresa diventa un artefatto.

Allora un’immagine che crediamo “vera” può essere: a) autentica; b) fabbricata; c) prodotta al fine di fornire un’informazione differente rispetto a ciò che viene rappresentato; (esempio nei docu-film facendo interpretare ad attori o comparse dei ruoli. L’uso di modellini, immagini di guerra impossibili per lo sguardo della camera, musiche e suoni perché tutte le immagini della Grande Guerra erano mute, ma oggi sono presentate sonorizzate.); d) falsificata; (quando intenzionalmente viene modificata per dare un’informazione diversa dall’immagine originale (Il discorso di Lenin, Le bandiere USA in Giappone, quelle russe su Berlino, il miliziano durante la guerra di Spagna ecc.); e) non autentica: un’immagine vera inserita in altro contesto diventa un oggetto diverso, con un altro significato. Tipico della televisione quando per confezionare un servizio utilizza immagini di repertorio dello stesso ambito.

“Ora lo schermo è diventato un vuoto dove le apparenze si formano e spariscono all’istante, in una sequenza senza alcuna logica esterna, come le parole in una conversazione a singhiozzi, o come le idee che corrono nella nostra mente. L’immagine non mostra, suggerisce pensieri e sensazioni. Non è fedele né falsa: come trattarla e prenderla in considerazione?[1]

Un approccio psicologico, implica tre presupposti: a) esistono, in un dato momento, stati d’animo collettivi; b) traspaiono nel film perché i cineasti li condividono e perché il cinema, arte di massa, non può ignorarli; c) l’immagine, più accessibile dei discorsi, influenza il pubblico, rende chiari sentimenti ancora confusi, promuove modelli di comportamento. Ma si tratta di congetture ideologiche, di mascherata propaganda o no? Non sappiamo né le inclinazioni né le reazioni degli spettatori. Supporre lo spirito del momento non è facile, tanto quanto la descrizione psicologica dei pensieri e dei modi di vedere. Occorre interpretare. Roland Barthes, dopo aver affermato che l’immagine fotografica è un linguaggio senza codice, poiché continuamente sfuggente, oscillante su una presunta verità meccanica, uno sguardo assoluto privo di condizionamenti, e un senso che deriva dalla radicata riconoscibilità della realtà visiva; distingue nel messaggio due livelli: uno denotativo dove la fotografia è la riproduzione del reale e uno connotativo, dove l’immagine si dà da leggere sulla base di una simbolica universale o da una retorica d’epoca.[2] Ma come osserva Guy Debord, la vera essenza della merce (ciò che lega il sistema economico allo spettacolo) è la sua spettacolarizzazione, cioè viene consumata essenzialmente per la sua carica simbolica. E poiché la produzione è diventata sempre più immateriale con la conseguenza di trasformare il mondo reale (gli oggetti, le merci, i consumi ecc.) in immagini che diventano inevitabilmente reali in quanto prodotto di una società il cui spettacolo è diventato reale. “Lo spettacolo è il cuore dell’irrealismo della società reale”.[3]

Prima dell’età digitale, contraffare fotografie o film era laborioso e costoso, cosicché i falsi erano rari e spesso riconoscibili. Ci sono casi famosi, la fotografia del miliziano colpito a morte di Robert Capa, la bandiera russa issata a Berlino, quella americana a Iwo Jima. Il problema non è tanto della verità della singola immagine ma del loro assemblaggio, della scelta, della successione o della sottrazione di alcune immagini. Ad esempio le immagini di Hitler che abbandona lo stadio mentre Jesse Owens, l’atleta nero, alle Olimpiadi di Berlino, non compaiono in Olympia (1936) di Leni Riefenstahl, obbligata da Goebbels di cancellare tutte vittorie degli atleti di colore. Ma di per sé senza interrogarlo, si tratta di verità storica anche se è un poema sulla bellezza e armonia del corpo umano. Poco importa che Terra di Spagna, il documentario sulla guerra civile di Joris Ivens del 1937 con commento di Hemingway, utilizzasse per i bombardamenti i rumori del film San Francisco (1936) di Van Dyke, o il valore di propaganda dei cinegiornali sovietici, più di 500, tra il 1941 e il 1945 dove la sofferenza si erge a protagonista. Il documentario Un operatore al fronte di Maria Slavinskaya del 1946, mostra il lavoro dell’operatore Sushinsky, compresa la sua morte A Beatiful Mind (2001) di Ron Howard dove Russel Crowe interpreta il matematico John Nash, ci racconta davvero la figura del matematico o gli sceneggiatori hanno omesso alcuni aspetti? Hanno omesso che era razzista, omosessuale e antisemita (parole sue scritte nel 1967 “La radice di ogni male, per quanto riguarda la mia vita personale, sono gli ebrei”), proprio perché descrive una realtà soggettiva è diventa troppo facile falsificarla. Rossellini per La presa del potere di Luigi XIV (1966) studiando le armature, gli abiti ecc. scoprì che il re era alto 1,60 quindi assegno la parte del sovrano a un attore di bassa statura, dimenticando che l’altezza media dell’epoca era più o meno quella, così il regista travisa la realtà presentandoci un piccolo re costretto a imporsi a una cerchia di uomini più alti di lui. C’è però un fatto. Trasmettere un’idea di storia che sia accolta dal pubblico delle sale cinematografiche, cioè di chi necessariamente non conosce la storia, di film in film, finisce per dare un’idea del passato, dei suoi usi e costumi del tutto anacronistico. Insomma, spesso il film non fa che illudere delle verità sul passato.

[1] P. Sorlin, Ombre passeggere, cinema e storia, pag. 51, Marsilio, Venezia, 2013.

[2] R. Barthes, La camera chiara, Einaudi, Torino, 1980.

[3] G. Debord, La società dello spettacolo, Baldini & Castoldi, Milano, 1997.


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