Un rivoluzionario, visto soltanto nei moventi psicologici della sua azione, diviene solo un sadico
e un vendicativo; cosi, tutta la lotta politica e sociale,
di cui è fatta la storia, si sgretola negli impulsi torbidi dei suoi attori.
Guido Piovene**
1. Cosa sarebbe un presente senza storia?
Il rapporto della storia con il suo uso pubblico non è certamente inedito. Si può anzi dire che da Tucidide in poi non si possa parlare di storia senza menzionare l’uso che si fa delle acquisizioni storiche. In Tucidide la storia è strettamente legata non solo con la centralità di Atene, ma con la sua stessa figura di ricco proprietario ed esperto nell’arte della guerra[1]. Questo interesse personale lo conduceva a considerare la storia essenzialmente come storia degli avvenimenti presenti, e il passato funzionale alla giustificazione delle presenti vicende. Quindi, i fatti passati che non giustificassero il presente non erano oggetto di analisi storica, ovvero non erano considerati “fatti storici”. E su questi era esercitata l’akribeia, ovvero la capacità di distinguere e analizzare fonti e testimonianze. È forse una delle più antiche definizioni di “fatto storico”, che ha mantenuto parte della sua validità ancora oggi, se uno storico nostro contemporaneo, parecchi secoli dopo Tucidide osservava nel 1961:
«Allorché cerchiamo di rispondere alla domanda “Che cos’è la storia?”, la nostra risposta … è parte della risposta che diamo alla domanda: “Qual è il nostro giudizio sulla società in cui viviamo?”»[2].
I fatti hanno dunque senso storico, sembra asserire Carr, se hanno senso “per il presente”: ogni libro di storia dice molto più sull’epoca nella quale è stato scritto che dell’epoca di cui tratta. E su questa strada si potrebbe continuare, da Tucidide fino a Croce[3] e Collingwood[4], tanto da essere tentati di dare ragione a Nietzsche che argomentava nei Frammenti postumi che in realtà il fatto storico non esiste, ma esistono solo interpretazioni:
Contro il positivismo, che si ferma ai fenomeni: «ci sono soltanto fatti››, direi: no, proprio i fatti non ci sono, bensì solo interpretazioni. (…) Sono i nostri bisogni, che interpretano il mondo: i nostri istinti e i loro pro e contro. Ogni istinto è una specie di sete di dominio, ciascuno ha la sua prospettiva, che esso vorrebbe imporre come norma a tutti gli altri istinti.[5]
Il filosofo tedesco estremizza un elemento certamente presente nella costruzione del fatto storico, ma se così fosse non si potrebbe più parlare di storia, ma solo di romanzo: tutta la storia sarebbe un racconto inventato su basi dubbie, come diceva Boris Vian «L’histoire est entièrement vraie, puisque je l’ai imaginée d’un bout à l’autre»[6] [La storia è assolutamente vera, visto che è tutta frutto della mia immaginazione]. In realtà il rapporto tra il fatto e la sua interpretazione è ben più complesso della semplice smentita della fiducia positivista nella solidità del documento che lo testimonia. E, se la relazione tra il fatto e la sua interpretazione sfugge a ogni definizione in qualche modo esaustiva[7], compito dello storico è, nell’analisi degli avvenimenti, evidenziare questo rapporto con la consapevolezza che al fatto storico appartiene la sua interpretazione. Lo stesso “documento” è parte di ciò che testimonia. La soluzione parrebbe essere considerare l’interpretazione come una delle fonti nella ricostruzione della realtà storica, nel senso inteso da Carlo Ginzburg, secondo cui si può paragonare la realtà alla “cosa in sé” kantiana, ovvero al limite verso il quale lo storico deve tendere[8]. È in questo intreccio tra oggettività e soggettività che si sviluppa la ricerca storica, in bilico tra l’estrema soggettività nietzschiana e l’acritica fiducia positivista nel documento.
Tutto ciò per dire che
«Ogni storia, ogni narrazione è certamente una ‘mise en intrigue’, carica di teoria, di concezioni implicite, inespresse, di moduli narrativi e temporali che ne condizionano la struttura e il senso. (…) E chi dice che non ha nessuna filosofia della storia, ha spesso la peggiore.»[9]
Il revisionismo storico contemporaneo, su cui torneremo, è un esempio lampante di questo assunto di Bodei.
La “filosofia” della storia costituisce il framing ideologico entro il quale si sviluppa il discorso egemonico della ricostruzione del passato ed è parte della strategia del consenso, particolarmente in epoca contemporanea. Per frame si intende la cornice esperienziale nella quale si realizza la nostra conoscenza[10], in questo caso storica. È evidente che studiare un manuale di storia per uno studente non è la stessa cosa che assistere a una trasmissione televisiva che parla di storia per un generico appassionato, sebbene il contenuto diffuso sia in apparenza lo stesso. Ed è su questo frame esperienziale che insiste il discorso egemonico.
Ciò che fino in epoca moderna infatti costituiva la fabbricazione della tradizione, in epoca contemporanea, nella formazione di un’opinione pubblica di massa, si trasforma nella costruzione di paradigmi storiografici funzionali alla formazione di un senso comune che possa giustificare il dominio di classe, politico e sociale. La cornice entro cui si sviluppa è ciò che Mark Fisher chiamava “l’orizzonte del pensabile”[11], determinato dai rapporti sociali dominanti. Da semplice oggetto di studio del passato, la storia diventa uno dei terreni di scontro politico del presente. Uno scontro politico che non risparmia nessuno dei media: dai periodici alla televisione e al cinema, da Internet ai manuali scolastici.
Paradossalmente, per la storia contemporanea, l’enorme abbondanza di fonti costituisce uno scoglio problematico data la necessità per il ricercatore di operare una scelta rispetto alla pertinenza e alla rilevanza della documentazione. Il criterio utilizzato per la scelta delle fonti diventa dunque essenziale per comprendere l’intreccio tra soggettività dello storico e oggetto studiato cui si accennava prima, tenendo presente che il singolo ricercatore si muove nel contesto di senso fornito dai suoi frames esperienziali, non diversamente da chi recepisce l’informazione.
Vale la pena ricordare quello che scriveva ormai venticinque anni fa Nicola Gallerano:
«la storiografia è frutto di una ‘tensione’ continua, perennemente riproposta e perennemente irrisolta, ragione del suo fascino e insieme della sua dannazione, ‘tra storia, futuro, profezia’: è un’attività scientifica sui generis, la cui dimensione cognitiva si affianca e si mescola con quella affettiva, intrisa di valori, predilezioni, scelte non o pre-scientifiche. (…) Continuità e svolgimento vogliono dire che è il passato che ci ha fatto come siamo, qui e ora: ed è la radice dell’importanza che il potere politico ha sempre assegnato al controllo del passato come strumento privilegiato per il controllo del presente. Funzione politica della storiografia; regolazione della memoria e dell’oblio per plasmare i tratti dell’identità collettiva di una comunità e distinguerla dalle altre; costruire, attraverso il passato, un progetto e una profezia del futuro: sono i connotati visibili della impresa storiografica fino a tempi recenti e, come vedremo, mai completamente dismessi; e sono, al tempo stesso, gli elementi forti di ciò che contraddistingue, appunto, l’uso pubblico della storia. […] (…) Il paradosso consiste nel fatto che convivono nel presente due fenomeni all’apparenza contraddittori: un accentuato e diffuso sradicamento dal passato da un lato; e un’ipertrofia dei riferimenti storici nel discorso pubblico dall’altro»[12].
Un fenomeno che trova la sua concretizzazione più esemplare, forse, nell’evoluzione dei manuali scolastici, lo strumento per eccellenza dell’uso pubblico della storia. Con la rottura degli equilibri emersi dalla seconda Guerra mondiale, in seguito al crollo dell’Urss nel 1991, questo processo ha subito un’accelerazione che, pur avendo investito in misura maggiore i paesi dell’ex blocco sovietico non ha risparmiato i paesi capitalisti che avevano registrato una significativa presenza comunista. Se nell’Europa orientale le nuove élite dominanti tentano di eliminare dal passato le tracce dell’ingombrante presenza sovietica, in Occidente vittime della riscrittura della storia sono la partecipazione delle classi subalterne alla vita pubblica e, in particolare, i tentativi di emancipazione sociale. Mediante un procedimento a ritroso, cadono sotto la scure della revisione tutte le vicende che hanno caratterizzato la storia moderna e contemporanea, dalla Rivoluzione francese fino alla seconda Guerra mondiale e la Resistenza, passando per la Rivoluzione russa, la Guerra civile spagnola e via dicendo. Avvenimenti riletti con nuovi paradigmi interpretativi, funzionali alla costruzione di nuovi miti fondativi, al servizio di vecchi committenti politici. Si tratta di un passato che non può essere consegnato completamente alla storia, visto che diventa parte della lotta politica presente[13]. Per esemplificare, si consideri il tragitto di François Furet e i suoi slittamenti di paradigma, avvenuti agli inizi degli anni Sessanta, nel considerare le Rivoluzioni francese e russa, condannate dallo storico francese per i loro esiti “sanguinari”, mentre al contrario viene recuperata la Glorious Revolution del 1688 – 89 per il suo carattere “incruento”. Il messaggio è chiaro: le trasformazioni desiderabili sono opera di un’élite aristocratica, mentre l’irrompere delle masse sulla scena della storia produce solo risultati efferati[14].
Come aveva notato Jurgen Kocka, c’è una richiesta di passato capace di fornire consenso, cui la ricerca e la scuola devono adeguarsi. In questa ricostruzione del passato il manuale scolastico mantiene un ruolo privilegiato, sia per la trasmissività acritica del sapere storico, sia soprattutto perché si tratta spesso dell’unica fonte certificata di conoscenza storica cui si viene in contatto nel corso della propria vita. Nelle parole di Luciano Canfora «La riscrittura dei manuali di storia per le scuole è fenomeno costante ad ogni cambio di regime»[15], dato che ogni nuovo regime necessita di ridefinire i propri riferimenti.
Un recente studio comparativo dei manuali di storia in uso in vari sistemi scolastici, The Palgrave Handbook of Conflict and History Education in the Post-Cold War Era, evidenzia le analogie in tutti i 57 casi esaminati, dall’ Argentina allo Zimbabwe, presenti nella riscrittura dei manuali scolastici dal 1989[16]. Occorre, in breve, ridefinire il canone storiografico alla luce degli avvenimenti che hanno condotto alla fine del mondo bipolare e, in particolare in Europa, alla formazione dell’Unione europea, alla quale, peraltro, hanno aderito, sono in via di adesione o aspirano ad aderire i paesi dell’Europa orientale. Tuttavia, la crisi del 2008 ha rafforzato le spinte nazionaliste e antieuropee e il conflitto tra fedeltà nazionale e cittadinanza europea si è radicalizzato in nuovi contrasti sul modo di insegnare la storia. Queste controversie mostrano come lo studio della storia sia considerato non come una scienza, per quanto particolare, per la ricostruzione del passato, ma abbia piuttosto un carattere, talvolta esplicitamente, educativo per la cittadinanza del presente, tanto che ormai i confini tra storia ed “educazione alla cittadinanza” si fanno via via sempre più labili[17], mentre il senso di appartenenza diventa il fulcro dell’insegnamento della storia[18]. Se ai manuali è affidato questo compito privilegiato di formazione di consenso, l’intera riscrittura della storia ha spesso un carattere mitopoietico allo scopo di favorire la sedimentazione di valutazioni e rimozioni che si inseriscono nei processi di lungo periodo di formazione della coscienza collettiva. A questo scopo si rende indispensabile una selezione politica delle fonti, la decontestualizzazione degli avvenimenti o, nel caso più estremo, la vera e propria costruzione di fonti inesistenti, dando vita a quella che oggi si definisce una postverità[19].
Nata per definire le fake news diffuse in particolare via internet, soprattutto nei social, la “postverità” è stata nominata “parola dell’anno” 2016 dagli Oxford English Dictionaries. Secondo gli Oed, la postverità è un aggettivo: «relativo a, o che denota, circostanze nelle quali fatti obiettivi sono meno influenti nell’orientare la pubblica opinione che gli appelli all’emotività e le convinzioni personali»[20]
Come osserva Marco Biffi:
«Le caratteristiche e le dimensioni assunte dal fenomeno ai nostri giorni sono però diverse e ci sono alcuni fattori che in particolare devono essere sottolineati, tutti legati alla rete: la globalità, la capillarità, la velocità virale della diffusione delle varie post-verità; e poi la generalità e genericità degli attori che possono alimentarle, spesso con una propaganda nascosta e inaspettata che può provenire da pseudo-istituti di ricerca, da esperti improvvisati. E se tutto questo riguarda la produzione della post-verità, non meno preoccupante è l’analisi della sua ricezione: perché c’è una complicità molto forte da parte di chi “subisce” il dato emotivamente accattivante o di parte, visto che il dato è quasi sempre facilmente verificabile con mezzi endogeni, facilmente accessibili attraverso la stessa rete (mentre all’interno di un regime, ad esempio, non è certo facile contrastare la non veridicità dell’informazione della propaganda)»[21].
Come esempio di notizia falsa basti pensare alle campagne scatenate tra il 2013 e il 2018 contro l’allora presidente della Camera Laura Boldrini, accusata di avere parenti, una sorella (peraltro morta da vari anni) che gestiva 340 cooperative di migranti e un inesistente cugino assunto in Parlamento. Una volta entrata nel circuito della rete, la falsa notizia assume vita propria, come la calunnia del rossiniano Don Basilio. Così il falso diventa verità, o, appunto, postverità che guida le scelte di chi la subisce, diventandone complice. Eppure, la verifica del falso è perfettamente accessibile a tutti.
La costruzione del falso storico segue lo stesso percorso metodologico, come si evidenzia negli esempi di seguito trattati. E deve ricorrere a un dispositivo autoritario, visto che non sopporta la verifica fattuale: gli spacciatori dei falsi Protocolli affermano che, nonostante siano falsi, essi stabiliscono una verità consolidata; i teorici del cosiddetto “piano” Kalergi costruiscono un falso complotto sulla base di qualche citazione estrapolata da un testo degli anni Venti; il discorso revisionista sostituisce la verifica delle fonti con testimonianze personali e interpretazioni spesso senza fondamento alle quali si chiede di aderire acriticamente; infine, in alcuni casi l’orrido e il macabro, come fondatori di “verità”, prendono il posto dell’analisi storica contestualizzata.
Tuttavia, perché l’opinione pubblica sia pronta ad accettare un processo di tal genere, occorre che la verosimiglianza delle fonti così ricostruite venga accolta da un pubblico addestrato e ampiamente instradato; la fonte ricostruita dovrà dare spessore ai pregiudizi e fornire, per così dire, la “prova definitiva” di movimenti carsici che si diramano nella coscienza collettiva. Sembra dunque rasentare l’ingenuità la constatazione di Damian Tompson che «Gli storici contemporanei lavorano sodo per evitare i pregiudizi nazionalistici, etnici, politici o religiosi che hanno caratterizzato il lavoro delle generazioni precedenti»[22].
Il problema che si pone a questo punto, parafrasando Kant, è se e come sia possibile la storia come scienza, visto che, come il noumeno kantiano, il suo nucleo sembra sfuggire. A questo proposito, sembra pertinente l’osservazione di Renato Serra, secondo cui un documento non esprime altro che sé stesso e sia il fatto che cosa o chi li rappresenta sono entrambi oggetti storicamente rilevanti[23].
Ricordando il grande storico Marc Bloch, il collettivo Nicoletta Bourbaki scrive:
«Lo storico deve interrogare ogni singolo documento che ritiene utile consultare. (…) Interrogare i documenti, però non è sufficiente: occorre anche metterli a confronto tra loro e contestualizzarli, cioè chiedersi quando, da chi e perché (con che scopo) sono stati prodotti. Non si possono valutare le informazioni contenute in un documento, e spesso neppure l’autenticità dello stesso, se non mettendolo a confronto con altri e inserendolo in un preciso contesto.»[24]
Di conseguenza, il falsificazionismo della storia è parte della storia stessa che esso falsifica, e quindi oggetto dell’analisi, nel tentativo di rendere alla storia quella tensione verso la realtà che costituisce il suo statuto epistemologico. Per fare un esempio: i Protocolli dei Savi di Sion esistono effettivamente, come falso che ha contribuito a modificare la storia, così come le ricostruzioni strumentali del “piano Kalergi” o gli altri casi oggetto di questo studio.
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2. L’antisemitismo eterno: dai Protocolli dei savi di Sion al “piano Kalergi”
2.1. Protocolli: la madre di tutte le falsificazioni
Qualche anno fa, il senatore Elio Lannutti è balzato, come si suol dire, agli onori della cronaca, per una frase infelice pubblicata sul suo profilo Twitter:
«Il Gruppo dei Savi di Sion e Mayer Amschel Rothschild, l’abile fondatore della famosa dinastia che ancora oggi controlla il Sistema Bancario Internazionale, portò alla creazione di un manifesto: I Protocolli dei Savi di Sion»[25].
La frase è stata immediatamente ritirata e cancellata dal profilo del senatore, il quale ha assicurato tutti di “non essere antisemita”. La fonte da cui aveva ricavato l’infausta dichiarazione è probabilmente un noto sito spacciatore di falsi, attivo in Internet[26]. Naturalmente in questa sede non interessano tanto le maldestre dichiarazioni di un senatore, quanto capire come sia possibile che un falso dichiarato, come i Protocolli, e il mito del complotto ebraico godano ancora di così tanto credito. Come la “moneta cattiva” di Gresham, le false notizie tendono ad avere una circolazione indipendente e diventano verità ampiamente condivise nonostante la dimostrata falsità[27]. L’emancipazione degli ebrei, in epoca illuminista e come risultato della Rivoluzione francese, non aveva scardinato l’antigiudaismo di matrice religiosa, che rinasce in varie forme nel XIX secolo, particolarmente come reazione alla Rivoluzione francese e alla modernità, parallelamente all’affermarsi delle ideologie nazionaliste e razziste. L’”ebreo errante”[28], Assuero lo schernitore maledetto da Cristo, diasporico, l’eterno nomade sradicato e, quindi, infedele a re e papi, cacciato dai sovrani di mezza Europa, si trasforma nel suo corrispettivo moderno, senza patria né dio, devoto solo al denaro. Il meccanismo psicologico del capro espiatorio cambia argomento, ma si ripropone nelle nuove condizioni storiche: non è più l’untore della peste, ma l’infido che complotta per la rovina delle nazioni. Rifacendosi a Lavater e Herder, l’antisemitismo moderno elabora una propria weltanschauung che coniuga lingua, caratteristiche nazionali, religione e caratteristiche biologiche. Anche se sul piano della mitopoietica il concetto di blut und boten si diffonde soprattutto nelle aree rurali del vecchio continente, l’idea che gli ebrei siano in fin dei conti un’entità estranea agli interessi nazionali, che approfitta, a proprio vantaggio, di ogni difficoltà e di ogni crisi della nazione che “li ospita” è ampiamente condivisa da filosofi e intellettuali romantici, o, più spesso, da semplici mediocri propagandisti. L’antisemitismo non risparmia neppure settori della classe operaia influenzati dal socialismo, che identificano tout court il capitalista e l’ebreo, tanto da far dichiarare al leader socialista tedesco August Bebel che «l’antisemitismo è il socialismo degli imbecilli»[29]. Se il termine “antisemitismo” è attribuibile all’agitatore tedesco Whilelm Marr[30], dall’Inghilterra liberale alla Russia autocratica, passando per la Francia e la Germania, nessuna delle nazioni del vecchio continente è risparmiata da questa ondata[31]. La Russia zarista è al centro del falso che, nascendo in questo terreno fertile, è diventato il manuale degli antisemiti del ‘900.
Per gli ebrei russi il 1881 fu un anno terribile. Il 1° marzo venne assassinato lo zar Alessandro II, ad opera di un gruppo populista, la Narodnaja volja (Volontà del popolo). Tra gli arrestati si trovava un’operaia anarchica, Gesja Gel’fman, figlia di ebrei ortodossi. Questo servì da pretesto per scatenare violenti pogrom antisemiti, organizzati dai circoli vicini al nuovo imperatore e dagli esponenti della Chiesa ortodossa[32], che culminarono nel massacro di centinaia di ebrei e nelle leggi promulgate da Alessandro III, nel 1882, le «leggi di maggio», che contribuirono a peggiorare le già precarie condizioni dei quattro milioni e mezzo di ebrei russi, tanto a costringerli all’emigrazione negli Stati uniti, in Canada, America del sud e nell’Europa occidentale. Questa prima ondata di pogrom legali terminò nel 1882 e, fino al massacro di Kišinëv nel 1903, che inaugurò un altro biennio di persecuzioni antiebraiche, se ne contarono solo una decina in tutto l’impero[33]. Il pogrom di Kišinëv, che causò oltre 70 morti e centinaia di feriti tra la comunità ebraica locale nella primavera del 1903,[34] ha una stretta relazione con l’origine dei Protocolli dei savi di Sion: esso venne organizzato da un piccolo ufficiale d’origine moldava, Pavolakij Alexandrovič Kruševan, membro di vari gruppi antisemiti locali e direttore di due giornali di destra, il «Bessarabec» a Kišinëv e la «Znamja» di San Pietroburgo, largamente finanziati dai circoli zaristi[35]. La prima edizione dei Protocolli vide la luce nel settembre dello stesso anno 1903 sulla «Znamja» (Bandiera), in nove puntate, col titolo Programma della conquista del mondo da parte degli ebrei[36]. Il testo ebbe un’ampia diffusione in Russia e, in seguito, nell’Europa occidentale e negli Stati uniti[37], in particolare dalla quarta edizione curata da un sedicente mistico credente ortodosso, Sergej Aleksandrovič Nilus. Tanto che per lungo tempo venne creduto realmente l’autore del falso. Varie sono le ipotesi sull’origine reale del documento; per parecchio tempo si pensò che fosse stato stilato in Francia immediatamente dopo l’affare Dreyfus, intorno al 1897, all’epoca del primo congresso sionista di Basilea, dalla polizia segreta zarista, su direttive del suo capo a Parigi, Pëtr Ivanovich Ratčkovskij, e diffuso inizialmente in Francia e poi in Russia, come si è visto[38]. Una versione, tuttavia, smentita da Cesare De Michelis, che ne sostiene la genesi in Russia tra il 1902 e 1904, non imputabile comunque all’Okhrana[39]. Recentemente, è stata avanzata un’altra ipotesi dallo storico russo Mikhail Lepekin, ovvero che la confezione del falso sia stata opera dell’aristocratico Matvej Golovinksij[40]. Non ci sono dubbi, tuttavia, che la massima diffusione la si debba al mistico Sergej Nilus. Come ha notato De Michelis:
«Tra i testi che hanno fornito il quadro di riferimento dei PSM [Protocolli] vi sono certamente i grandi “falsi storici”; accanto ai Monita secreta o al Testamento di Pietro il Grande, retrocedendo nel tempo porrei anche il Constitutum Constantini o le Decretales pseudo-Isidorianae; mentre, venendo al XX secolo, non va dimenticata la fortuna russa della Storia del giacobinismo dell’abate Barruel, del falso commento di Napoleone al Principe di Machiavelli, o il Polskij katexizis (Catechismo polacco)»[41]
Nel sottotesto, si intrecciano elementi di romanzi, pamphlet, opere di fantasia e parti di dichiarazioni politiche di esponenti sionisti, pur restando centrale il plagio del Dialogo agli inferi tra Machiavelli e Montesquieu, di Maurice Joly: dal Biarritz di Hermann Goedsche, all’Ebreo errante di Eugene Sue[42]. Il vantaggio di un’operazione simile consiste nel costruire un falso su elementi che già circolavano nell’opinione pubblica.
Lo scopo del falso consisteva, probabilmente, nel tentativo di influenzare la politica del nuovo zar Nicola II, e orientarla in senso più decisamente antisemita, oltre a convincerlo che l’apertura all’Occidente avrebbe significato svendere la Russia al complotto giudaico – massone[43]. L’antisemitismo si fondeva con l’antimodernismo, e non è un caso che la Chiesa ortodossa sia stata l’istituzione più attiva nella divulgazione del falso. L’opera venne ampiamente diffusa dopo la “domenica di sangue” del 1905, che inaugurò la prima rivoluzione russa, tanto che il metropolita di Mosca ne ordinò la lettura in tutte le chiese della città[44]. La cospicua partecipazione di operai e artigiani ebrei al movimento rivoluzionario in Russia e in Polonia fece degli ebrei i «capibanda della rivoluzione»[45]. Nicola II annotava sulla sua copia: «Il nostro 1905 è proprio come sotto la direzione dei Savi. Non ci può essere dubbio sulla loro autenticità. Ovunque si vede la mano direttrice e distruttrice dell’ebraismo»[46]
Per un certo periodo di tempo la circolazione dei Protocolli rallentò, per riprendere nel 1917, in coincidenza con la rivoluzione bolscevica, portati in Occidente da esuli russi. Che i Protocolli fossero sostanzialmente un plagio del pamphlet di Joly, e quindi un falso, venne svelato dal «Times» di Londra in tre numeri del 16, 17 e 18 agosto 1921, lo stesso giornale che, un anno prima, ne aveva avallato l’autenticità[47]. La scoperta si deve al corrispondente da Istanbul, Philip Graves, che venne in possesso di una copia del Dialogo, accorgendosi che interi passi erano stati plagiati nei Protocolli[48].
Benché fossero uno scritto d’occasione, fabbricati come si è visto dalla polizia segreta russa a Parigi o San Pietroburgo, diffusi da circoli aristocratici e propagati dalla Chiesa ortodossa per influenzare lo zar Nicola II, i Protocolli divennero ben presto la Bibbia dell’antisemitismo internazionale e negli anni del primo dopoguerra circolarono in milioni di copie. Qualsiasi avvenimento storico, che in qualche modo avesse contrastato lo stato di cose esistenti veniva trattato alla luce dei Protocolli, come un complotto giudeo – massonico; dopo la rivoluzione del 1917, anche bolscevico. Il discorso antisemita è semplice quanto efficace: se dall’età dell’Illuminismo, dalle rivoluzioni americana e francese, dalla rivoluzione russa e dalla repubblica di Weimar gli ebrei avevano tratto dei vantaggi, è chiaro che tutti questi avvenimenti non potevano che essere il frutto di una cospirazione ebraica per distruggere le nazioni, in nome di un’internazionale del denaro e delle banche. Perfino la breccia di Porta Pia venne ascritto al complotto giudaico – massonico, da circoli cattolici reazionari. In fondo, a dare l’ordine di aprire il fuoco che causò la breccia era stato il giovane capitano ebreo, Giacomo Segre[49].
In breve, i Protocolli stabiliscono una postverità, dando voce a credenze diffuse, circolate per secoli nell’Europa cristiana e penetrate nel razzismo imperialista del XIX secolo. I Protocolli “dimostrano” ciò che si è voluto credere, ovvero che la modernità, includendo in essa l’Illuminismo, le rivoluzioni borghesi e la rivoluzione proletaria in Russia, sia il risultato di un complotto, a prescindere dalla sua verificabilità storica.
Nell’immediato primo dopoguerra, il risultato forse più eloquente dell’influenza dei Protocolli sono una serie di articoli, poi raccolti nell’opuscolo The International Jew, the World’s Foremost Problem, a firma di Henry Ford, tra il maggio e l’ottobre 1920.
Secondo Ford, nessun governo, più di quello degli Stati uniti, obbediva agli ordini degli ebrei, ormai da sei anni, ovvero dall’inizio della Prima guerra mondiale; la Francia era caduta in mano agli ebrei fin dalla rivoluzione del 1789, l’Inghilterra era diretta da un “governo occulto” di Israele, mentre la Germania doveva la sua sconfitta alla coalizione degli Stati governati dagli ebrei. Ma dove il piano dei Protocolli si era concretizzato magistralmente era nella Rivoluzione russa, questa “colossale rivincita” degli ebrei. Scrive Ford: «Il programma dei Protocolli è destinato al successo? Questo programma ha già avuto successo!»[50]. Alcuni anni dopo, nel 1927, l’industriale statunitense sconfessò completamente il contenuto dell’opuscolo, attribuendone la paternità a due suoi collaboratori, il tedesco Auguste Müller e il russo Boris Brasol, ritirò tutte le copie in circolazione, chiedendo scusa alla comunità ebraica per il contenuto[51].
Pur riconoscendone la provenienza dubbia, «L’Osservatore Romano» ne garantiva l’aderenza ai “fatti”:
«A nostro avviso la loro provenienza ebraica resta dubbia, non appoggiandosi essa che sulla testimonianza di Sergio Nilus […] Può anche darsi che costui [li] abbia inventati: ma ciò che resta fuor di dubbio è che le idee sovversive che esprimono, sono proprio le stesse che animarono gli ebrei di Russia […] Il pericolo ebraico, non è davvero una parola vana»[52]
Lo stesso Nilus, in seguito, dovette riconoscere la falsità del testo che aveva contribuito ampiamente a diffondere, dichiarando
«Ci rendiamo conto che i protocolli sono spurie [sic]. Ma Dio non li può utilizzare per esporre iniquità in fase di preparazione? Non profetizzò l’asina di Balaam? Non può Dio, per il bene della nostra fede, trasformare in ossa di cane reliquie miracolose? Dunque si può anche mettere la rivelazione della verità in una bocca menzognera!»[53]
Ora, che il padreterno in persona si sia dato la pena di fabbricare un falso storico è poco probabile. Eppure gli antisemiti si ritengono delegati dall’onnipotente a diffondere il loro veleno, tanto che questo mantra viene ripetuto da Julius Evola, nella sua introduzione all’edizione italiana del 1938[54] e dai vari epigoni che hanno ripreso il falso di Nilus.
Scrive Evola:
«Si può infatti negare senz’altro l’esistenza di una direzione segreta degli avvenimenti storici. […] nessuna organizzazione veramente segreta, quale sia la sua natura, lascia dietro di sé dei “documenti” scritti. Sol un procedimento “induttivo” può dunque precisare la portata di “testi”, come i “Protocolli”. Il che significa che il problema della loro “autenticità” è secondario e da sostituirsi con quello, ben più serio ed essenziale, della loro “veridicità”. […] quand’anche (cioè: dato e non concesso) i “Protocolli” non fossero “autentici” nel senso più ristretto, è come se essi lo fossero, per due ragioni capitali e decisive:
-
- Perché i fatti ne dimostrano le verità;
- Perché la loro corrispondenza con le idee-madre dell’Ebraismo tradizionale e moderno è incontestabile»[55]
L’esempio forse più chiaro è fornito dalla scrittrice antisemita Nesta Webster: «I Protocolli possono benissimo essere dei falsi, ma dicono esattamente quello che pensano gli ebrei, di conseguenza devono essere considerati come autentici»[56]
E le citazioni potrebbero continuare.
Il ragionamento è semplice: i Protocolli sono un falso, ma, poiché l’antisemitismo afferma che gli ebrei si comportano davvero come descritti da questo falso, allora sono veri. Si tratta di un evidente rovesciamento logico: non sono le fonti a confermare le affermazioni, ma si afferma qualcosa e poi si costruiscono le fonti che lo “dimostrino”. E la postverità dei Protocolli non ha smesso di circolare fino a innervare il Mein Kampf, con le conseguenze ampiamente conosciute[57], che esulano dal presente saggio.
Ha osservato Michel Bounan:
«I Protocolli non sono stati forgiati nel calderone diabolico della ‘paranoia collettiva’, ma dietro le quinte poliziesche di uno Stato autocratico. E non sono stati inizialmente diffusi dalla voce pubblica, ma dai buoni uffici del metropolita di Mosca e da due poliziotti-editori; il Partito nazionalsocialista tedesco, che si è ispirato ad essi, non è stato portato al potere da folli sommosse, ma dagli industriali tedeschi che l’hanno finanziato; l’opera di Henri Rollin che rivelava l’origine dei Protocolli non è stata distrutta dalla ‘paranoia collettiva’, ma sequestrata e distrutta da una polizia di Stato; i Protocolli non sono stati diffusi negli Stati Uniti da una folle diceria, ma dall’industriale Henri Ford, che sapeva far lavorare a suo profitto altri infermi; che, infine, questo libro non è un ‘miserabile falso grossolano’, ma una manovra poliziesca razionale, la punta di lancia di una guerra controrivoluzionaria.»[58]
Anche se in particolare nel mondo arabo e in Iran[59] si continua a dar credito e continuano a circolare, i Protocolli hanno perso il carattere dirompente che avevano avuto tra le due guerre. Se ci si è soffermati sulla genesi e l’uso dei protocolli, è essenzialmente per due ragioni: perché in epoca contemporanea hanno costituito l’archetipo della costruzione del falso ad uso politico e perché il mito del complotto giudaico – massonico per dominare il mondo ha attraversato le fasi cruciali del ventesimo secolo per riapparire, all’inizio del ventunesimo, sotto altre forme.
2.2. L’antisemitismo come consolazione assassina: il “piano Kalergi”
Il 15 marzo 2019, a Christchurch in Nuova Zelanda, Brenton Tarrant, bianco ventottenne, uccise 50 persone di religione musulmana nel corso di due attentati, alla moschea di Al Noor e al Centro islamico. In un documento diffuso come rivendicazione del gesto terrorista, The Great Replacement, cita tra i suoi ispiratori, l’italiano Luca Traini, Anders Breivik, Anton Lundin Pettersson, Darren Osbourne[60]. Il titolo del documento di Tarrant riprende alla lettera un testo dello scrittore francese Renaud Camus, Le grand Remplacement[61].
La “grande sostituzione” è diventata il topos del populismo sovranista per indicare i processi migratori che interessano in particolare il vecchio continente e gli Stati uniti, e implica due aspetti interconnessi che hanno entrambi come obiettivo la distruzione dello Stato nazionale: l’emigrazione di massa e la volontà delle élite “mondialiste” di abbattere le nazioni per sostituirne la popolazione con un “meticciato” indistinto che serva da schiavo ai “poteri forti”. C’è appena da notare che la “nazione” di cui parla il discorso sovranista si fonda su concetti di razza, popolo e cultura direttamente mutuati dall’ideologia postnazista; la nazione, di cui si parla, non è un’entità politica caratterizzata quantitativamente e definita storicamente e geograficamente, ma si confonde con il “popolo”, un’entità impolitica e astorica, caratterizzata qualitativamente e definita dall’appartenenza a un’unica omogenea entità culturale, religiosa, linguistica, una comunità escludente, in fin dei conti definita razzialmente: riemerge in nuovi contesti, come ad esempio nel dibattito sullo ius soli, il vecchio concetto nazista di blut und boden. Al razzismo classico si aggiunge un razzismo economico, in modo da formare un senso comune identitario indistinto. Una costruzione che procede di pari passo con l’atomizzazione sociale. Il “popolo” si identifica con un leader, che ne interpreta l’anima e le elezioni “democratiche” servono solo a investire plebiscitariamente il leader. Se, come osservava Marx, la storia si ripete come farsa, il “sovranismo” del ventunesimo secolo costituisce la farsa dello “stato etico”. Questo “popolo” atomizzato, reso precario dalla crisi economica, ed escluso da ogni reale decisione politica, trova la sua consolazione nell’adesione a miti extrastorici che illusoriamente sostituiscono la difesa delle “radici” metastoriche all’effettivo sradicamento sociale. Ma si tratta di una consolazione distruttrice, dato che si realizza nella continua ricerca del nemico da annientare in quanto minaccia all’identità così percepita. E meno si fa sentire la presenza delle “masse popolari” protagoniste della storia, più l’atomizzazione sociale si coalizza attorno a un’ideologia così definita. Mi sembra anzi di poter affermare che spesso la costruzione del falso, come vedremo anche in seguito, sia funzionale a quest’espulsione delle classi subalterne come protagoniste del cambiamento sociale.
Parlando di “fascismo eterno”, Umberto Eco scriveva:
«A coloro che sono privi di una qualunque identità sociale, l’Ur-Fascismo dice che il loro unico privilegio è il più comune di tutti, quello di essere nati nello stesso paese. È questa l’origine del “nazionalismo”. Inoltre, gli unici che possono fornire una identità alla nazione sono i nemici. Così, alla radice della psicologia Ur-Fascista vi è l’ossessione del complotto, possibilmente internazionale. I seguaci debbono sentirsi assediati. Il modo più facile per far emergere un complotto è quello di fare appello alla xenofobia. Ma il complotto deve venire anche dall’interno: gli ebrei sono di solito l’obiettivo migliore, in quanto presentano il vantaggio di essere al tempo stesso dentro e fuori.»[62]
Non sono più il partito o la classe che definiscono l’identità, ma la nazione, la famiglia, la religione, che i diversi leader politici sbandierano in maniera più o meno esplicita ad ogni occasione (per quanto incoerentemente con le loro scelte personali). Di conseguenza, l’emigrazione in cerca di un futuro migliore, la libertà di circolazione delle persone, le diverse scelte sessuali, l’emancipazione femminile, persino i diritti civili frutto di conquiste decennali, come il divorzio e l’aborto, gli stessi diritti dei lavoratori, non vengono visti come legittimi diritti da difendere ed estendere, ma come un complotto che minaccia l’identità e le “radici”, spesso definite religiosamente. A livello della psicologia di massa si induce la stessa reazione innescata dai falsi Protocolli: la modernità è frutto di un complotto per distruggere i popoli. Lo dimostra il World Congress of Families (Wcf) convegno tenutosi a Verona nel marzo 2019, organizzato dall’internazionale “pro famiglia”, che riunisce accanto alle più integraliste Chiese del mondo, vari partiti d’estrema destra, e al quale hanno partecipato i leader “sovranisti” italiani Matteo Salvini, segretario della Lega all’epoca vicepresidente del Consiglio, e Giorgia Meloni, presidente di Fratelli d’Italia, oltre a ministri leghisti del governo e al senatore Pillon, famoso per aver (letteralmente) lanciato la caccia alle streghe in alcuni istituti di Brescia[63]. Il Wcf, che attribuisce il crollo dell’Occidente all’emancipazione femminile e ai diritti omosessuali, è stato recentemente definito un gruppo votato all’odio anti-Lgbt dall’organizzazione di difesa dei diritti umani Southern Poverty Law Center[64].
In un’epoca di debunking e fact-checking è praticamente impossibile fabbricare da zero falsi come I protocolli; tuttavia un complotto deve avere un suo piano.
A partire dal 2005, per quanto è dato ricostruire, i “sovranisti” hanno trovato finalmente i loro Protocolli nel cosiddetto Piano Kalergi, un piano di “sostituzione etnica”, il cui ideatore sarebbe il politico austriaco Richard Nikolaus Eijiro, figlio di una coppia austro – giapponese, meglio conosciuto come conte di Coudenhove-Kalergi.
Nel 1922, in seguito alla Prima guerra mondiale che aveva sconvolto l’Europa, Kalergi lanciò un appello per l’unione del Vecchio continente: «La questione europea sarà risolta solo con l’unione dei popoli d’Europa, unione che o si farà volontariamente, con la costituzione di una federazione pan-europea, o forzata da una conquista russa.»[65]
Da idealista pacifista, pensava che la nuova Europa dovesse fondarsi su un’identità spirituale più che materiale. Nel 1923 scrisse il testo fondamentale del suo pensiero Paneuropa, che attirò l’attenzione, tra le due guerre, di varie personalità[66]. Convintamente antirazzista e antifascista, oltre che anticomunista, Kalergi non poteva non attirare l’ostilità del nazismo tanto da essere costretto a rifugiarsi in Svizzera dopo l’Anschluss dell’Austria nel 1938, e da qui fuggire negli Stati Uniti, da cui sarebbe rientrato in Europa nel secondo dopoguerra. Kalergi è considerato uno dei padri fondatori dell’Europa e dal 1978 una Fondazione a lui intitolata premia gli esponenti politici che si sono maggiormente distinti[67] nel progetto europeista.
Nel 2005, un testo del neonazista austriaco, Gerd Honsik, Rassismus legal? (anche conosciuto come Addio Europa), indica nel fondatore del movimento paneuropeo l’ideatore del complotto per distruggere l’Europa, parlando di un vero e proprio genocidio dei popoli europei come risultato dell’applicazione di questo piano.
Honsik fa sue le argomentazioni contenute in un libretto di Arthur Rogers[68], Warburg and the Kalergi Plan, nel quale si spiega come in realtà la rivoluzione russa, la nascita dell’Ue, la fine dell’apartheid in Sudafrica, le lotte per i diritti civili dei neri negli Usa, ecc., sono tutti parte dello stesso piano di governo mondiale di imbastardimento delle razze, finanziato dal magnate Max Warburg ed espresso nelle opere di Kalergi[69].
Tutta la costruzione di Arthur Rogers, Gerd Honsik, Renaud Camus, e altri[70] si basa su alcune frasi malinterpretate e fuori contesto del testo Praktischer Idealismus, nel quale Kalergi loda la “razza ebraica” per il suo carattere sovranazionale e condanna il nazionalismo foriero di guerre, prevedendo per l’Europa un meticciato razziale. Da qui, la conclusione che l’Europa unita non è altro che il risultato di un complotto giudaico – massonico, orchestrato dal capitalismo “anglofono” che troverebbe nei testi di Kalergi il suo terreno d’incontro. Il dominio della plutocrazia giudaico – massonica troverebbe il suo coronamento nella “sostituzione etnica” finalizzata a imbastardire la razza europea, in modo da renderla più facilmente schiavizzabile e manovrabile. Per alcuni, in particolare per il clero anticonciliarista, lo stesso papa Francesco sarebbe uno strumento nelle mani di questo complotto. Come avvenne coi Protocolli, si estraggono alcune frasi dal loro contesto per costruire una teoria del complotto, che unisce gli avvenimenti più disparati facendoli confluire in un unico piano diabolico di conquista del mondo.
Claudio Gatti rilevava:
«Nel suo Origini del totalitarismo, Hannah Arendt scrive che “a convincere le masse non sono i fatti – neppure quelli inventati – bensì la robustezza dello schema in cui i fatti vengono inseriti”.
Ecco perché nel pensiero e nei piani postnazisti la teoria del complotto svolge due funzioni fondamentali. Consente di armonizzare le contraddizioni, conciliando la paura con l’illusione, l’odio con il miraggio, e permette di rafforzare le contrapposizioni: noi contro loro. Di fronte a fenomeni che spaventano, per quanto sono complessi e incontrollabili, la teoria del complotto offre una chiave di lettura semplice in cui ogni dettaglio combacia, ogni pezzo del puzzle si adatta perfettamente all’altro, tutto acquisisce forma, sostanza e colore. Insomma, una visione del mondo tanto gratificante quanto rassicurante. Senza zone oscure o aree grigie. La teoria del complotto spiega inoltre che dietro a ogni male del mondo c’è sempre la stessa causa, chiara e ben definita: la macchinazione di un manipolo di cospiratori esterni. Niente intricate analisi socioeconomiche o dubbi interpretativi, nessuna situazione incontrollabile, e soprattutto nessuna responsabilità della comunità interessata: il male è il prodotto di individui malefici, che sono pochi e diversi da noi. Il che, allo stesso tempo, ci libera da ogni responsabilità e genera fiducia perché, essendo pochi, i nemici sono chiaramente sgominabili. Basta individuarli e perseguirli. In un clima di sfiducia, ansia e sospetto, la naturale tendenza umana a cercare soluzioni lineari e colpevoli esterni rende il terreno particolarmente fertile per i venditori di complotti. È accaduto negli anni Venti in Italia e nel decennio successivo in Germania. I postnazisti vogliono la terza replica. Come? Diffondendo teorie che delegittimano le istituzioni democratiche e i garanti della qualità del dibattito politico, cioè i mass media.»[71]
Del resto, come aveva notato Popper, teorie del complotto sono sempre esistite:
«Questa concezione dei fini delle scienze sociali deriva, naturalmente, dall’erronea teoria che, qualunque cosa avvenga nella società – specialmente avvenimenti come la guerra, la disoccupazione, la povertà, le carestie, che la gente di solito detesta – è il risultato di diretti interventi di alcuni individui e gruppi potenti. il tipico risultato della secolarizzazione di una credenza religiosa.»[72]
Il legame tra il piano Kalergi e i falsi Protocolli è istituito dallo stesso Honsik: «Il piano Kalergi completo, e la sua realizzazione silenziosa, così come il suo simile Protocolli dei Savi di Sion, considerato un falso antisemita, è rimasto finora nascosto»[73]
Ancora più esplicito un leader dell’estrema destra francese Yvan Benedetti, all’epoca deputato del Front national, nel 2010 scriveva: «Esattamente come l’eliminazione delle frontiere e delle monete nazionali, l’immigrazione di massa e il meticciato sono stati annunciati in un libro premonitorio pubblicato nel 1905, i Protocolli dei saggi di Sion”[74]
Il fantomatico piano Kalergi sarebbe restato confinato ad ambienti neofascisti e marginali, sia per l’inconsistenza storiografica delle tesi, sia perché spesso si collega ad altre e più bizzarre teorie complottiste, sui vaccini o altro.
Il suo uso pubblico, tuttavia, gli conferisce il framing che lo fa evadere dal ghetto postnazista per renderlo esperienza politica condivisa da ampi strati della popolazione, privi di un riferimento sociale o politico ma spaventati dalla crisi economica e dalla precarietà. Diventa la cornice storico – ideologica della menzogna “sostituzionista” diffusa ampiamente dai leader sovranisti, da Trump a Salvini, da Orban a Le Pen, da Farage a Bannon, da Bolsonaro a Meloni. Si tratta di uno schema elementare, i cui attori sono la finanza internazionale, la massoneria, la sinistra liberale, i comunisti (quale che sia il significato di questo termine) e perfino il Papa, le lobbies omosessuali e femministe, gli scafisti libici e i terroristi dell’Isis, senza dimenticare qualche banchiere ebreo. Al di là dell’evidente assurdità di una coalizione di questo tipo, nella logica complottista ciò che importa è definire il nemico, non fornire di logica o dimostrazioni le trame. Tanto più credibile quanto invisibile, visto che, per sua natura, un complotto deve celarsi. E, chiunque lo neghi, è ovviamente un complice del complotto stesso, o un ingenuo. Gatti ricostruisce in che modo la Lega sia stata infiltrata, fisicamente e ideologicamente, e come idee che nel 1999 venivano condannate in tribunale per violazione della legge Mancino siano invece diventate il patrimonio ideologico dei “sovranisti”: il 7 maggio 1999 42 appartenenti al Fronte nazionale di Franco Freda vennero condannati in via definitiva a vari anni di carcere, anche per aver diffuso un programma che prevedeva la chiusura delle frontiere all’immigrazione extraeuropea, l’espulsione degli immigrati illegali e l’abrogazione delle leggi che governavano, consentendola, l’immigrazione extraeuropea, con l’assunto che «L’immigrazione di africani e asiatici sta moltiplicando in Italia le tensioni sociali, […] alimentata dalla sinistra, alla ricerca di qualsiasi nuovo proletariato, e dalla Chiesa, alla ricerca di qualsiasi nuova fede»[75]. Frasi incriminate e condannate, che oggi vengono ampiamente diffuse in tutti i media.
In Italia, i riferimenti al piano Kalergi nei media mainstream, per quanto si è potuto ricostruire, appaiono tra il 2014 e il 2015. Nel novembre 2014, il neosegretario della Lega nord, Matteo Salvini, twittava: «La sinistra, a livello mondiale, ha pianificato un’invasione, una sostituzione di popoli. Io non mi arrendo, io non ci sto»[76]. Nel febbraio 2015: «È in corso un’operazione di sostituzione etnica coordinata dall’Europa»[77], il 16 marzo 2016, La gabbia, diretto da Giancarlo Paragone, ospitava un servizio nel quale si parlava della grande sostituzione, «messa nero su bianco da Kalergi»[78]. Frequente ospite della Gabbia è anche Claudio Messora, videoblogger di Byoblu ed ex responsabile della comunicazione dei 5 Stelle. Da Magdi Allam a Diego Fusaro, da Giorgia Meloni a Matteo Salvini, al clero tradizionalista antibergogliano, che considera Francesco I un “anticristo”, la postverità della “grande sostituzione” è diventata la menzogna ufficiale diffusa in decine di migliaia di post, interventi in trasmissioni televisive, comizi, e interviste. Definito il piano Kalergi come il “grande complotto”, è conseguenziale il linciaggio mediatico degli oppositori, in particolare mediante un uso cinico e spregiudicato dei social[79]. Come si è detto, presa particolarmente di mira è stata l’ex presidente della Camera Laura Boldrini[80] in decine di migliaia di attacchi tra il politico e il sessista.
Non poteva mancare, in questa nuova teoria del complotto, la finanza ebraica, rappresentata in quest’occasione dal magnate George Soros, e dalla sua Open Society Foundation. La storia di Soros è stata ben ricostruita da Hannes Grasseger e vale solo la pena accennarvi[81]: la sua attività filantropica, che lo ha portato a finanziare varie Ong, lo ha reso il nemico perfetto[82] da dare in pasto a un’opinione pubblica frustrata e spaventata dalla crisi economica, il cui senso comune è già avvelenato dall’antisemitismo e dalla paura dell’altro, nella quale monta l’idea che l’Europa sia assediata da Ong le cui navi cariche di migranti siano pronte ad invaderci per procedere a quella “sostituzione etnica” che prevedeva Kalergi. Per la sua attività filantropica, il miliardario George Soros, già resosi colpevole di attacchi speculativi alla lira e alla sterlina, è indicato come il “grande burattinaio” dei processi migratori.
Non c’è neppure bisogno di nominare la parola “ebreo”, basta qualificare il miliardario ungherese con gli epiteti classici usati per stigmatizzare gli ebrei, da “usuraio” a “circonciso” a tutti i più consueti luoghi comuni[83] antisemiti per attivare la cornice nella quale inserire questi stereotipi.
Secondo la narrazione della destra, Soros è l’emblema del capitalista “mondialista”, e quindi di sinistra, che manovra i fili della sostituzione etnica.
L’allora ministro Salvini, nel 2018 dichiarava:
«Come mi dicono i militari italiani e persino quelli libici – spiega il ministro – le navi delle Ong aiutano gli scafisti, consapevolmente o meno: la loro presenza è un pericolo per chi parte e un invito a nozze per gli scafisti. Chi finanzia le Ong? C’è l’Open Society Foundations di Soros che ha un chiaro disegno, quello di un’immigrazione di massa per cancellare quella che è un’identità che può piacere o meno ma che mi dispiacerebbe venisse distrutta.»[84].
Gli fa eco Giorgia Meloni, che in un’intervista rilasciata a radio Cusano Campus indica in Soros il “grande vecchio” della sostituzione etnica:
«C’è anche un disegno di destrutturazione della società, che mira a privarci della nostra identità, costruendo una società multiculturale senza identità, radici, consapevolezza, in modo che le persone diventino consumatori tutti uguali in balia del capitale».[85]
C’è appena da osservare che non occorre essere multietnici per diventare consumatori in balia del capitale. Come non ricordare tuttavia il Manifesto degli scienziati razzisti, che, al punto 10 recita:
«I caratteri fisici e psicologici puramente europei degli Italiani non devono essere alterati in nessun modo. L’unione è ammissibile solo nell’ambito delle razze europee, nel quale caso non si deve parlare di vero e proprio ibridismo, dato che queste razze appartengono ad un ceppo comune e differiscono solo per alcuni caratteri, mentre sono uguali per moltissimi altri. Il carattere puramente europeo degli Italiani viene alterato dall’incrocio con qualsiasi razza extra-europea e portatrice di una civiltà diversa dalla millenaria civiltà degli ariani.»[86]
La stessa presidente di Fratelli d’Italia ha dichiarato, ispirandosi all’aspirante dittatore ungherese Orbàn, di essere pronta a presentare una “legge anti-Soros”[87].
Parole che, come si è visto, alcuni anni fa avrebbero procurato il carcere per “istigazione all’odio razziale” e frasi isolate tratte da uno scritto degli anni Venti, ripetute migliaia di volte costruiscono un discorso pubblico e producono un senso comune ampiamente diffuso in settori frustrati della società; in certi casi con esiti drammatici. Brenton Tarrant non è stato un caso isolato. Nell’ottobre del 2018, sedici pacchi bomba vennero inviati a Soros e ad altri quindici esponenti democratici negli Usa, da parte di Cesar Sayoc, un estremista di destra infiammato dai discorsi di Trump, che diffondeva sui suoi profili social le varie teorie cospirazioniste antiimmigrati[88]. Qualche settimana dopo, un altro suprematista bianco, Robert Bowers, attaccava a colpi di Kalshnikov una sinagoga a Pittsburgh, causando undici vittime, al grido «Gli ebrei sono figli di Satana»[89]. Il titolo di uno dei libri di Don Curzio Nitoglia è Per padre il diavolo. Un’introduzione al problema ebraico secondo la tradizione cattolica[90]. Padre Nitoglia è oggi uno dei più attivi diffusori in Italia della bufala del Piano Kalergi. Si tratta solo di alcuni esempi di come un falso storico possa armare mani omicide: tra il 2014 e il 2018 gli attacchi terroristici imputabili ad ambienti neofascisti e “sovranisti” sono aumentati del 320%. Nei primi mesi del 2019, le vittime di questi attentati sono state 77[91].
Non è possibile imputare questo fenomeno semplicemente a qualche forma di follia individuale, ma come conseguenza dell’appello dei leader “sovranisti” alle classi medie frustrate, spaventate dalla pressione dei gruppi sociali subalterni di fronte a fenomeni complessi come l’emigrazione e le conseguenti trasformazioni sociali e culturali. Come scriveva Umberto Eco: «il fascismo troverà in questa nuova maggioranza il suo uditorio»[92].
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3. Pulp History: ovvero la vittimizzazione dei carnefici
3.1. La Resistenza sotto accusa
Il 1992 è un anno importante: è l’anno di “mani pulite”, che segna la fine del sistema di partiti che avevano governato l’Italia nel dopoguerra, mentre il 3 febbraio dell’anno prima il Pci si era sciolto dando vita al Pds e dichiarando quindi ufficialmente l’abbandono del comunismo. Dei vecchi partiti del dopoguerra, restava solo il neofascista Movimento sociale, che alle elezioni del 1994, per la prima volta entrava al governo trascinato dal successo di Forza Italia, in una coalizione di destra che comprendeva anche la secessionista Lega nord. Lo stesso Berlusconi ha recentemente rivendicato il merito di aver portato i fascisti al governo nel 1994, interrompendo l’isolamento loro imposto dall’“arco costituzionale”[93].
Il primo governo Berlusconi segnò la nascita ufficiale della cosiddetta “seconda repubblica” e, benché fosse presentato come un semplice avvicendamento governativo, la sua formazione ha costituito un epifenomeno di un lungo processo culturale che in campo storiografico ha provocato quello che Nicola Gallerano avrebbe chiamato la “crisi del paradigma antifascista”[94].
Gustavo Corni così riassume questo mutamento di paradigma:
«Il ruolo storico della Resistenza iniziò ad essere messo in discussione. (…) La critica si articolò seguendo tre filoni: da un lato si sottolineò che la guerra partigiana era stata condotta da una ristretta minoranza di persone, mentre la grande massa del popolo era rimasta nella “zona grigia” (…) Dall’altro – e conseguentemente – è stato proposto di reinterpretare la guerra di liberazione come una “guerra civile”. Il termine, coniato a suo tempo dalla letteratura neofascista, era rimasto ai margini del discorso pubblico. Una guerra civile in cui entrambe le parti erano poste sul medesimo piano, politico e morale. (…) In sovrappiù, i motivi dei partigiani vennero criticati: il loro obiettivo era di soppiantare una dittatura, fascista, con un’altra dittatura, comunista, che avrebbe portato violenze e repressione – come dimostravano (secondo i sostenitori di questa tesi) le violenze compiute dai partigiani a guerra finita nelle regioni “rosse”. Venne chiamato in causa anche il tema delle cosiddette “foibe”, ovvero dei massacri di civili italiani da parte dei partigiani comunisti jugoslavi nel 1943 – 1945»[95].
L’esigenza di legittimazione del Movimento sociale e del nuovo blocco di potere raccolto attorno a Berlusconi, estraneo alla tradizione antifascista, richiedeva anche il superamento della contrapposizione fascismo/antifascismo e la ricerca di un nuovo fondamento, che non fosse la Resistenza, della Repubblica. Di conseguenza, superare l’antifascismo significava anche l’equiparazione morale e politica tra il movimento partigiano e i combattenti della repubblica di Salò.
A partire dal 1995, in occasione del cinquantenario della Resistenza, si scatena quella che Filippo Focardi chiama “guerra della memoria”[96], che coinvolge anzitutto dichiarazioni ufficiali di esponenti politici e istituzionali, senza escludere le alte cariche dello Stato, come il Presidente Carlo Azeglio Ciampi.
La rilettura revisionista della storia d’Italia e in particolare del Ventennio mussoliniano si è compiuta soprattutto nei lavori di Renzo De Felice, in particolare nella sua debordante biografia di Mussolini, oltre che in altri storici di minore rilevanza accademica, spesso giornalisti di indubbio impatto mediatico[97]. In estrema sintesi, le tesi di De Felice mirano a relativizzare l’impatto del regime fascista sulla società italiana e scinderne le responsabilità dal regime nazista. L’opera dello storico reatino si presenta come una monumentale scrittura “interna” del fascismo: le vicende del regime vengono raccontate dal punto di vista dei suoi protagonisti e delle fonti che ha prodotto. In particolare per ciò che riguarda la Resistenza, lo storico si sforza di sminuirne l’importanza e dipingere l’8 settembre 1943, data dell’armistizio, come “morte della patria”, un’espressione popolare negli ambienti neofascisti, che volentieri identificano la “patria” col fascismo.
Osservava Rochat:
«Chi studia con attenzione questi anni difficili arriva a conclusioni diverse […] la patria senza aggettivi continuerà a vivere tra i militari che non si arrendono ai tedeschi nei Balcani, i giovani che salgono in montagna per la guerra partigiana, i militari che nei lager tedeschi rifiutano a caro prezzo la guerra nazifascista»[98].
L’identificazione tra “patria” e regime costituisce lo scarto ideologico di De Felice, che considera l’8 settembre la fine di un processo storico, e si collega alla svalutazione del ruolo dei comunisti nella Resistenza, i quali avrebbero agito seguendo le precise indicazioni di Stalin e non per “patriottismo” o spirito democratico. A questo si accompagna la lettura della guerra di liberazione come scontro armato tra due eserciti rivali, quello di Salò e le formazioni partigiane, nell’indifferenza di un’enorme “zona grigia”. Lo stesso De Felice, che raccomanda di non limitare lo studio della Resistenza alla semplice storia dei combattenti, ma indagare in quella che chiama “zona grigia”, omette tuttavia di riconoscere che, al di là delle formazioni combattentistiche, la Resistenza coinvolse ampi settori di popolazione in attività di sostegno alle azioni dei combattenti, quanto non si realizzò in aperte azioni insurrezionali come nelle quattro giornate di Napoli[99], il cui rione Ponticelli diede vita alla prima insurrezione popolare antifascista in Europa.
Le considerazioni di De Felice, riassunte nell’intervista Rosso e nero, concessa a Pasquale Chessa nel 1995[100], riemergono in un testo postumo e destinato al grande pubblico, a cura di Claudio Siniscalchi, nel 2001, nel quale si assolve il regime fascista da ogni responsabilità, dalla guerra d’Etiopia, all’intervento nella guerra civile spagnola, dalla partecipazione alla seconda Guerra mondiale alla formazione della repubblica di Salò[101], presentata come una necessità per impedire rappresaglie naziste. Si tratta della relativizzazione del fascismo, della banalizzazione dei suoi aspetti criminogeni e, per converso, della negazione della rottura rappresentata dalla Resistenza. Questa tesi, di un fascismo sostanzialmente subordinato all’alleato tedesco, sul quale invece ricadono tutte le responsabilità delle atrocità commesse in particolare nel biennio nero della repubblica di Salò, è stata ampiamente smentita dalla storiografia specialistica, e non è il caso qui di tornarci.
Ci si può affidare alle parole di Avagliano e Palmieri:
«A ben vedere, però, in tema di violenza esiste un asse ben delineato tra il fascismo squadristico delle origini, la spietata repressione degli oppositori durante il Ventennio, le pratiche criminali messe in atto nelle guerre combattute e nei territori occupati, come in Etiopia e nei Balcani, e infine l’esperienza di Salò. L’immagine dell’ultimo fascismo tutto sommato bonario o meramente subalterno alle politiche belliche naziste, infatti, è smentita dai fatti e dalle fonti, che invece raccontano di una capacità di iniziativa violenta spietata, anche autonoma o comunque capace di volgere a proprio vantaggio le strategie e le prassi criminali dell’alleato-occupante. Peraltro, l’esistenza di diversi centri armati a vario titolo responsabili dell’ordine e della forza pubblica (esercito, polizia, bande autonome, Gnr, Brigate nere), favorì la proliferazione indiscriminata e fuori controllo (ammesso che si volesse controllarli) dei comportamenti violenti. Ne è un esempio lampante il telegramma del 25 giugno 1944 col quale Mussolini chiese ai capi delle province lumi sulle esecuzioni degli oppositori e favoreggiatori per poter controbattere alle accuse di scarsa fermezza nella lotta ai ribelli da parte di “taluni leoni vegetariani – si legge nel testo – [che] continuano a parlare di una eccessiva indulgenza del Governo della Repubblica”»[102]
Eppure, nonostante le evidenze storiografiche[103], nel discorso pubblico che emerge nei primi anni Novanta si forma l’idea di un fascismo bonario. Dietro agli appelli alla “riconciliazione” e alla “memoria condivisa”, come ha sottolineato Focardi, non è difficile intravedere il desiderio di rivincita delle forze neofasciste che tentano di imporre la propria egemonia culturale all’intero blocco di destra. Le tesi di De Felice diventano il punto di partenza della riabilitazione del fascismo perfino nei suoi aspetti più crudeli rappresentati dalla Repubblica di Salò:
«la Repubblica sociale esaltata nella sua funzione di «scudo» protettivo, per evitare che l’Italia fosse trasformata dalla Wehrmacht in una «seconda Polonia»; Mussolini «buon italiano» che “accettò l’umiliazione di governare” perché comprese che le “sole difese” rimaste all’Italia erano “l’amicizia e il riguardo” nutriti nei suoi confronti da Hitler; l’azione nefasta dei comunisti che imposero al paese “una privata guerra civile” che si sovrappose e cancellò la ‘resistenza’ dinastica e democratica e, soprattutto, fece naufragare l’opera di salvataggio nazionale della Rsi; l’inconsistenza militare della Resistenza, le cui azioni sarebbero anzi da stigmatizzare in quanto avrebbero prodotto le rappresaglie tedesche e reso “tremendo il contributo di sangue innocente” pagato dal paese; l’attribuzione della vittoria esclusivamente agli Alleati, cui spetterebbe il merito altrettanto esclusivo della “presente democrazia”; il ricordo della “brutale occupazione” di Trieste e della Venezia Giulia operata nella primavera del 1945 dai “banditi di Tito”; infine, la “strage dei vinti”, compiuta in Italia dopo il 25 aprile dai comunisti, “convinti di aprirsi, con tale ‘pulizia’ sociale e politica, la via al potere”»[104]
Per quanto inconsistente sul piano storiografico, questo giustificazionismo si fa strada nel discorso pubblico, non trovando in pratica nessun argine; anzi, a parte qualche vuoto discorso di retorico omaggio alla Resistenza, sono gli stessi esponenti postcomunisti ad avallare la lettura revisionista del passato, in cerca di una nuova legittimità, preoccupati di difendersi dall’accusa di essere stati agenti di un’ideologia “anti-nazionale”, lasciando alla narrazione neofascista campo libero nell’identificazione con gli interessi “nazionali”. È solo il caso di menzionare l’ormai famoso (o famigerato) discorso di insediamento come presidente della Camera di Luciano Violante, il 9 maggio 1996 sulle ragioni dei “ragazzi di Salò”.
Ha sostenuto convincentemente Luzzatto:
«l’antifascismo sta attraversando una crisi profonda; eventualmente una crisi irreversibile. E non soltanto a causa della legge generale per cui l’impatto di ogni fenomeno storico è destinato comunque a diminuire nel tempo, ma anche a causa di una particolare svolta epocale: la svolta del 1989. Perché è vero che in Italia come in Europa, non vi è stato antifascismo senza il contributo decisivo del comunismo; ed è vero che il comunismo è finito male. Come stupirsi – prosegue Luzzato – se la fine dell’uno ha accelerato l’agonia dell’altro? Le mort saisit le vif: marxianamente parlando, riesce naturale ipotizzare che la fine del comunismo possa trascinare nella tomba anche l’antifascismo, incapace una volta di più di sottrarsi dell’abbraccio fatale»[105]
Nel momento in cui l’antifascismo viene associato al comunismo, la nuova vulgata anticomunista mira a sostituire al fondamento antifascista della prima Repubblica il fondamento antiantifascista della seconda. Si cerca la delegittimazione dell’avversario politico attraverso la revisione del passato. In questo l’offensiva della destra ha avuto man forte dagli stessi eredi della tradizione comunista in Italia, che hanno abbandonato esplicitamente ogni riferimento a quell’esperienza, da Veltroni fino a Bersani. Una volta derubricata la Resistenza in quanto fondamento della Repubblica ed elemento divisivo, quale memoria si chiede di “condividere”? Se si stabilisce un’equivalenza sul piano morale e storico tra Resistenza e Repubblica di Salò, e si accetta il concetto di “morte della patria” ecco che riemerge il nazionalismo italiano di fine Ottocento, che allunga le sue ombre fino alla conquista dell’Impero e alla disastrosa Seconda guerra mondiale, riemergendo in tempi recenti, come si vedrà, fino alla questione del Confine orientale e del giorno del ricordo[106]. In breve, quello che possiamo chiamare “patriottismo costituzionale” è divorato dal nazionalismo imperialista e revanscista.
La destra non vuole accettare l’idea che con l’8 settembre è morto il concetto di patria di matrice nazionalista, né ammettere il carattere fallimentare di questo nazionalismo come fondante l’identità nazionale. Viene riproposta anzi, nel mondo multipolare, una reviviscenza di tale progetto.
Conclude Focardi:
«Un progetto identitario di questo genere è favorito, in ultima analisi, dalla scarsa consapevolezza del paese – potremmo dire dalla sua diffusa amnesia – circa la realtà storica del fascismo, declassato da moderno esperimento totalitario a una «dittatura benigna », a un regime in fin dei conti benevolo, consono all’indole degli italiani e non privo di presunti meriti storici (dal ristabilimento della «legge e dell’ordine» dopo gli scombussolamenti sociali del primo dopoguerra, alla modernizzazione del paese finalmente dotato di treni in orario e paludi bonificate). È questo processo, che Emilio Gentile ha chiamato di “defascistizzazione retroattiva” del regime»[107]
La falsa retorica delle “cose buone” fatte dal regime, nonostante la vasta bibliografia[108] che la smentisce, alimenta un senso comune assolutorio e in definitiva benevolo sulla più feroce dittatura di cui è stata vittima l’Italia. L’amnesia è stata irrobustita dall’assenza di un equivalente del “processo di Norimberga” per i crimini compiuti dal fascismo in Italia e all’estero, che anzi in gran parte vennero amnistiati dall’allora Guardasigilli Palmiro Togliatti nel 1946[109].
Più che una “revisione” del passato, si opera un vero e proprio rovesciamento nei valori che istituiscono l’identità nazionale. È lo stesso De Felice a spiegare come il revisionismo sia il fondamento di un rovesciamento valoriale, dichiarando nel 1987 a Giuliano Ferrara: «Un discorso di innovazione del sistema politico incontra naturalmente il discorso del revisionismo storico. Se si deve passare a una nuova Repubblica, è ovvio che si debba liberare dei pregiudizi su cui è fondata la vecchia»[110]
La cifra importata direttamente dal lessico neofascista è quella della patria umiliata e offesa da interessi stranieri. Se nel caso delle migrazioni si parla di invasione da parte di orde di barbari, pagata da un’élite economica mondialista, nel caso del recupero delle tradizioni fondanti la nazione si ricorre al mito della “vittoria mutilata” e al suo omologo del secondo dopoguerra, ovvero il trattato di pace del 1947, al quale è dedicato il “giorno del ricordo” di cui parleremo in seguito. La Resistenza, che spezza la continuità dello Stato, viene vista quindi come uno dei tasselli del progetto di annientamento della nazione italiana da parte di una potenza straniera.
Come ha osservato Francesco Germinario «Se a custodire il senso della patria e l’onore della nazione, con tutti i valori che ne discendono, è la Rsi, dall’altra parte, necessariamente, non possono che concentrarsi che i disvalori»[111]
Di pari passo col taglio dei fondi alle associazioni partigiane, in particolare all’Anpi, questa convinzione alimenta un alacre lavorìo culturale teso a colonizzare i mezzi d’informazione di massa, dalla grande editoria ai giornali alle televisioni ai social. Ma anzitutto occorre demolire quel presidio di democrazia che ancora resta la scuola. Il controllo dei manuali e dei programmi è un tassello essenziale dell’opera di smantellamento della libertà d’insegnamento e di formazione di una coscienza collettiva.
I tentativi posti in opera dai vari governi di destra e dalle sue articolazioni locali inizialmente riguardarono la messa sotto accusa dei manuali ritenuti troppo “di sinistra”. Nel dicembre del 2000, sotto la presidenza dell’allora governatore Francesco Storace, una risoluzione della Regione Lazio, a firma del postfascista Rampelli, all’epoca membro di An, caldeggiava la censura di Stato contro i libri di testo ritenuti troppo “di sinistra”, giungendo a proporre la redazione di manuali di regime, che avrebbero dovuto avallare una verità ufficiale sulla storia d’Italia, condivisa da destra[112]. Fu il primo tentativo di esplicita rivendicazione della volontà egemonica della destra sulla didattica della storia. Seguì una vera e propria campagna volta a controllare l’insegnamento della Storia e renderla, per così dire, “ancella della politica”. Mentre Ferdinando Casini[113] strillava «Basta con l’arco costituzionale» e l’intero centrodestra approvava mozioni per il controllo dei manuali, Silvio Berlusconi dichiarava «i nostri figli non dovranno ad esempio più studiare su testi di storia con deviazioni marxiste»[114]. Alla fine, il governo Berlusconi, nel 2002 approvava una mozione del forzista Fabio Garagnani che impegnava il Ministero dell’Istruzione a controllare i libri di testo e l’insegnamento della storia contemporanea[115], sostituendo il paradigma culturale antifascista con un’ideologia identitaria postfascista. Tale offensiva istituzionale si accompagnava con frasi e dichiarazioni tutte tese a banalizzare, giustificare o, talvolta, esaltare la dittatura di Mussolini, dall’infausta traccia di storia alla Maturità del 2003 che assolveva il fascismo da qualsiasi crimine[116], alle dichiarazioni di Berlusconi dello stesso anno, secondo cui «Mussolini mandava la gente a fare la vacanza al confino»[117], fino alle dichiarazioni della nipote del duce, Alessandra, che rivendicava i meriti del colonialismo genocida italiano in Libia. Ma il culmine è giunto con la distribuzione gratuita a 2500 dirigenti scolastici del libro Breve corso di storia patria (ad uso dei non politicamente corretti), a cura di Sergio Ricossa. Il testo di Ricossa aveva l’obiettivo di diffondere le tesi defeliciane e renderle vulgata scolastica[118]. Queste vicende, che si concentrano tra il 2000 e il 2005, sono significative del mutamento di prospettiva culturale che si preparava in Italia[119]. Purtroppo, come sosteneva Tranfaglia, in un articolo dell’«Unità», la nuova storia d’Italia non è appannaggio solo della destra: dalla comprensione delle ragioni dei “ragazzi di Salò” (Violante) alla definizione del comunismo come “maggior sciagura del Novecento” (Veltroni), la revisione del fascismo e della Resistenza è diventata parte integrante di un pensiero unico bipartisan, teso a escludere il protagonismo delle classi subalterne dalla storia d’Italia, con l’assunto che ogni rivoluzione produce mostri sanguinari. Se il tentativo di riscrittura dei testi e del controllo sull’insegnamento della storia è nella sostanza fallito, è dovuto in particolare all’opposizione degli operatori scolastici e degli insegnanti, ma anche perché la manualistica di destra non ha prodotto alcun testo storiograficamente significativo. D’altro canto sono penetrati nei libri di testo dell’ultimo ventennio luoghi comuni e categorie storiografiche, come la categoria di “totalitarismo”, che mirano a ridurre l’insegnamento critico del passato e a destoricizzare fenomeni assai differenti mediante l’utilizzo di una categoria fondamentalmente morale e non storica[120], o la vulgata inconsistente sulle foibe, di cui si parlerà più avanti.
Tuttavia, il processo di “rovescismo” del significato della Resistenza, come lo chiamerà Angelo D’Orsi[121], mancava ancora di un tassello: bisognava non solo svuotare la Resistenza del suo carattere storico fondamentale di liberazione del nazifascismo, non solo equiparare i combattenti per la libertà, inquadrati nelle formazioni partigiane, e l’esercito di Salò, che combatteva per il mantenimento del tallone di ferro della dittatura di Mussolini e Hitler ma, infine, dimostrare che la Resistenza, postasi al servizio delle potenze straniere nemiche dell’Italia (l’Urss e in misura minore della Jugoslavia), è stata perfino più crudele degli stessi repubblichini. Anzi, che la Resistenza porta sulle sue spalle l’intera responsabilità della “guerra civile”[122]. C’è soltanto da notare che riemerge la stessa idea della Resistenza che gli occupanti nazisti diffondevano in Italia nel tragico biennio 1943 – 45: i partigiani sono “banditi” sanguinari, al soldo di una potenza straniera.
Il passo successivo alla riscrittura della storia postfascista consiste nella vittimizzazione dei carnefici. Quest’operazione era stata già tentata dalla pubblicistica neofascista nel dopoguerra, in particolare ad opera di una sterminata quanto giustificazionista memorialista dei reduci di Salò, o di opere di dubbio valore storiografico come quelle di Giorgio Pisanò o di Antonio Serena[123], che però non avevano trovato la strada verso il grande pubblico, in particolare per la loro inconsistenza scientifica. Occorreva un nuovo clima politico perché si facesse strada il paradigma vittimario dei carnefici: i combattenti di Salò, i torturatori, i massacratori repubblichini, i rastrellatori di ebrei, i fucilatori di partigiani, devono essere ritratti come vittime, mediante un rovesciamento valoriale e una manipolazione lessicale che ne fa semplicemente dei “vinti”, con una retorica letteraria che evoca le opere di Giovanni Verga o Nuto Revelli e induce immediatamente a pietà nascondendo il loro passato. Anche qui, come poi si vedrà per la questione delle “foibe” si compie un’operazione di framing, che consiste nell’inquadrare i torturatori di Salò e i gerarchi del regime mussoliniano con un aggettivo che, decontestualizzato, immediatamente suscita empatia. A questo scopo, bisogna obliterare il ruolo che hanno avuto per un ventennio torturatori, assassini di Regime e responsabili del massacro e a volte di progetti genocidi e indicarli semplicemente come “vinti”.
Nel gennaio 1997 Radiorai mandava in onda una trasmissione che raccoglieva, per cinque giorni la settimana, testimonianze di ottanta reduci di Salò, dal titolo La voce dei vinti, commentata da Giano Accame e Claudio Pavone, che ancora una volta richiamava evocativamente il titolo di un documentario dedicato alla vicenda biografica e letteraria di Carlo Alianello, per il quale i “vinti” erano invece le plebi meridionali costrette a subire il processo di unificazione d’Italia al quale si sentivano estranee. Nello stesso periodo, a cura di Sergio Tau e Sabino Acquaviva, andava in onda la trasmissione I vinti: tra le testimonianze si annoverava anche quella di Luciano Luberti, “il boia di Albenga” (sic!).
Collocate in questo filone narrativo, le opere di Giampaolo Pansa suggellano il discorso rovescista. A partire dai primi anni 2000, il giornalista casalasco dà vita a una serie di volumi, che qualche giornalista particolarmente disinvolto chiamerà verghianamente “ciclo dei vinti”. Accompagnato da una fama di “giornalista di sinistra” e dietro i rituali quanto ipocriti omaggi alla Resistenza, Pansa in realtà costruisce una narrazione antiresistenziale basata su elementi emotivi e biografici, decontestualizzati dalla cornice storica. Nessuna citazione delle fonti, mentre le opinioni dello scrittore sostituiscono ampiamente e disinvoltamente le prove a sostegno delle proprie tesi: i “si dice”, “non ci sono le prove, ma sono convinto”, “qualcuno sostiene” ecc. servono a riempire i vuoti di una descrizione inconsistente e spesso fantasiosa[124], Si tratta di una chiara operazione di storiografia autoritaria: al lettore viene chiesto di fidarsi dei “si dice” dell’autore. Pansa si sofferma su quegli aspetti che già aveva individuato Nicola Gallerano come fondanti il paradigma assolutorio del fascismo, nel notare la necessità che le caratteristiche storico-politiche lascino spazio all’approccio «biografico, alla personalizzazione della vicenda storica e all’apertura indiscriminata verso il privato e lo psicologico»[125]. Esemplare è il racconto della vicenda del federale di Torino, Giuseppe Solaro, organizzatore della brigata nera “Ather Cappelli”, responsabile dell’assalto armato agli operai che parteciparono allo sciopero di Chieri del 1945 e del processo a carico del Comando militare piemontese, che si concluse con otto condanne a morte e conseguenti fucilazioni[126]. La vicenda del federale di Torino, nel Sangue dei vinti, apparso nel 2003, viene invece descritta riferendo, come unica fonte, le figlie del federale, Franca e Gabriella; viene citata una straziante lettera alla moglie Tina, senza alcun riferimento alle vicende che lo videro coinvolto come uno dei più efferati torturatori della Rsi. Segue una macabra descrizione del funerale, esplicitamente ricavata dal romanzo di Marcello Randaccio, Le finestre buie del ’43[127].
Si tratta di un espediente letterario che spinge il lettore all’empatia con il federale, obliterando il suo ruolo di torturatore, rastrellatore e fucilatore di partigiani.
Stereotipi che si ripetono decine se non centinaia di volte[128]; in breve per ogni episodio descritto. Per ogni esecuzione, per ogni operazione partigiana, per ogni azione di guerriglia, Pansa non risparmia i dettagli più raccapriccianti. Come in un film di Quentin Tarantino, le pagine dei suoi romanzi (perché di questo si tratta) grondano sangue. Termini come “orrendo”, “trucidare”, “mattatoio”, “carnaio”, popolano la galleria degli orrori del giornalista piemontese. Come osservava D’Orsi: il pubblico «viene convogliato verso il misterioso, verso il segreto, verso il maligno, verso l’erotico, verso il sadico, verso il macabro»[129]. Quella di Pansa è una storiografia per orrori, peraltro con un esplicito rifiuto del ricorso alle fonti e quindi un’implicita sfiducia nelle capacità critiche del suo lettore.
Per il lavoro storico, indicare i riferimenti è essenziale; serve a indicare al lettore da dove provengono le informazioni e porlo nella condizione di controllarne il discorso. L’utilizzo critico delle fonti è inoltre fondamentale nel dibattito scientifico e costituisce la condizione che permette la trasparenza delle tesi esposte. In assenza di esposizione delle fonti non esiste lavoro storico.
La pulp history per affermarsi deve invece rinunciare ai riferimenti e presentarsi come novità assoluta[130]: il meccanismo rivelatorio necessita di fedeli e non di critica. Intervengono gli stessi meccanismi psicologici che permettono le narrazioni complottistiche, naturalmente ostacolate dai “poteri forti”.
Sia De Felice che Pansa si presentano come vittime di un sistema di potere, politico e culturale, che vorrebbe metterli a tacere per le verità scomode che finalmente sono pronti a rivelare. Eppure Renzo De Felice, i cui volumi sono stati stampati dai maggiori editori italiani, è stato un affermato “barone” universitario, ha occupato la cattedra di Storia della Sapienza di Roma, probabilmente la più prestigiosa d’Italia, ha collocato in cattedra una trentina di suoi allievi, mentre Pansa ha venduto i suoi libri in centinaia di migliaia di copie ed è stato osannato da stampa, tv, radio e social media. Di nuovo in Pansa c’è la disinvoltura nell’utilizzo delle informazioni che diffonde ai suoi lettori, che oggi verrebbero catalogate come fake news.
Come nota Santo Peli:
«Ciò che è propagandisticamente efficace, e nella sostanza scarsamente sostenibile, è però che l’argomento scottante sia ora, per la prima volta, finalmente, affrontato senza remore. A dimostrazione della precaria attendibilità di queste affermazioni, che hanno primeggiato nella campagna mediatica di lancio del libro di Pansa, basta la constatazione che nulla di originale, di inedito, vi è nel libro, frutto di un collage di studi precedenti. Collage a volte frettoloso, ma in ogni caso reso possibile proprio dal fatto che questo scabroso tema di ricerca è già stato investigato con una certa ampiezza. Da almeno un ventennio, nessuno storico che si sia occupato di questi temi è stato colpito da anatema o accusato di lesa Resistenza, se ha fatto seriamente il suo lavoro. La novità del libro consiste, e non è un progresso, nel modo in cui l’argomento viene affrontato, e nel tono impressionistico, più utile ad emozionare che a comprendere, che è la cifra stilistica della scrittura, altre volte incisiva ed accattivante, dell’ultimo Pansa. Il risultato è un continuo ondeggiamento fra la nausea, l’orrore del sangue e la constatazione della ferocia di “entrambi i campi”. La novità del libro consiste, e non è un progresso, nel modo in cui l’argomento viene affrontato, e nel tono impressionistico, più utile ad emozionare che a comprendere, che è la cifra stilistica della scrittura, altre volte incisiva ed accattivante, dell’ultimo Pansa. Il risultato è un continuo ondeggiamento fra la nausea, l’orrore del sangue e la constatazione della ferocia di “entrambi i campi”, come se la guerra civile fosse stata tutta una tremenda iattura, una cieca mattanza, invece che una conseguenza di una precisa scelta, compiuta dalla RSI, di schierare l’Italia dalla parte degli occupanti tedeschi e di dare la caccia ai renitenti alla leva, ormai divenuti “antiitaliani”. »[131]
Penetrato nel grande pubblico attraverso i media che gli hanno fatto da megafono e avallato da esponenti politici in cerca di legittimazione, in una lettura bipartisan, il ribaltismo pansiano tende a costruire un senso comune il cui scopo è considerare il biennio della Liberazione un’anomalia politica che ha interrotto la continuità dello Stato fascista e postfascista, rappresentata dall’anticomunismo e dalla ripresa di un nazionalismo revanscista, per quanto anacronistico. Un fenomeno che tende a diventare “verità di Stato” a proposito del cosiddetto “giorno del ricordo”.
https://www.asterios.it/catalogo/jasenovac-e-altri-lager
3.2. Foibe: la storia pulp diventa verità di Stato
Fin dai primi decenni dell’epoca postunitaria, in periodo liberale e fascista l’espansione coloniale è stata considerata il naturale compimento dell’Unità: la retorica delle “terre irredente”, del “posto al sole” della “quarta sponda” o dell’impero che “risorge sui colli fatali di Roma”, “le nostre terre” (riferito all’Istria e alla Dalmazia) stanno a indicare un concetto di “patria” che si estende geograficamente ben oltre i confini naturali della Penisola, e sfocia nel mito della pretesa che le sponde del Mediterraneo meridionale e orientale appartengano di diritto all’Italia. «Il passato coloniale italiano – sostiene Nicola Labanca – non è un’appendice esterna e trascurabile della storia italiana»[132]
Da Nizza, Savoia e Corsica, al Quarnaro, a Malta, alla Libia e alla Tunisia, come nella canzone Mediterraneo. Riassunta nelle parole dello stesso capo del fascismo: «Fa’, o gioventù italiana di tutte le scuole e di tutti i cantieri, che la Patria non manchi al suo radioso avvenire; fa’ che il XX secolo veda Roma, centro della civiltà latina, dominatrice del Mediterraneo, faro di luce per tutte le genti.»[133]
Ernesto Bignami in un saggio per le scuole, pubblicato nel 1935 e premiato dal Regime, parla di ingiustizia storica consumata a Versailles contro i diritti italiani nel Mediterraneo orientale[134] e conclude:
«L’ espansione mediterranea, è per l’Italia necessità di vita: popolo eccezionalmente prolifico e migratorio, e pur nello stesso tempo cosi povero di materie prime e di risorse naturali, ha pure il diritto di vedersi garantito uno sfogo su terre che offrano la duplice possibilità di un ampio popolamento e di ricche materie prime. Terre, naturalmente, appartenenti alla zona mediterranea: perché qui convergono da secoli i massimi interessi della Nazione.»[135]
A questa pretesa di diritto naturale si è accompagnata, nel corso dei decenni, il mito del “buon italiano”, suffragato da un’ampia letteratura nazionalpopolare, da Pascoli a De Amicis a Salgari[136] e alimentato in epoca fascista, come nel testo di Renato Micheli della canzone Faccetta nera: l’Italia che andava in Africa non era l’Italia dei carri armati e dell’iprite, ma l’Italia proletaria, che esportava lavoro e civiltà, emancipando gli schiavi africani. A tale scopo, per lungo tempo si è cercato di nascondere o semplicemente negare i massacri, le deportazioni di popolazione, le stragi, quando non i veri e propri genocidi compiuti ai danni delle popolazioni sottomesse: dalla Libia all’Etiopia[137], dalla Grecia[138] all’Albania alla ex Jugoslavia, di cui si dirà in seguito. Dei criminali di guerra italiani di cui si è chiesta l’estradizione, ai termini dell’articolo 45 del Trattato di pace, nessuno è stato estradato nei paesi nei quali si è reso responsabile di questi delitti[139]. L’amnistia Togliatti e i processi successivi, tutti rigorosamente celebrati in Italia e non per i crimini commessi all’estero, posero la pietra tombale sulla possibilità di punire i responsabili delle avventure coloniali e dei crimini di guerra. Ne uscì rafforzata l’idea del “buon italiano” e delle aggressioni coloniali come missioni di civiltà.
Che questo mito sia duro a tramontare, del resto, lo confermano anche vicende recenti. Come ha notato Angelo Del Boca, quando il 10 novembre del 2003 i guerriglieri di Abu Omar al-Kurdi, facendo esplodere un camion imbottito di esplosivo, causarono la morte di 21 militari del contingente italiano a Nassirya, in Italia si ebbe una reazione mista di dolore e stupore, increduli che i nostri soldati in Iraq potessero essere in qualche modo considerati truppe straniere d’occupazione e non un contingente “di pace”[140].
E che la mentalità colonialista non sia un semplice retaggio del passato, lo mostra la vicenda di Indro Montanelli, che, ancora nel 2000 dichiarava, quasi divertito, da maschio coloniale bianco, di aver “comprato” una bambina dodicenne in Etiopia, spiegando questo gesto con la semplice differenza culturale con il paese africano: «Lei era un animalino docile; ogni 15 giorni mi raggiungeva ovunque fossi insieme alle mogli degli altri.»[141].
Nonostante la ricerca abbia compiuto notevoli progressi rompendo l’egemonia di una memoria consegnata in gran parte ai vecchi funzionari coloniali e rappresentata nella monumentale, quanto incerta dal punto di vista scientifico, opera L’Italia in Africa[142], dedicata essenzialmente a dimostrare i meriti della colonizzazione e a imporre il mito degli “italiani, brava gente”, questa narrazione delle nostre imprese coloniali sopravvive tutt’oggi. I lavori attinenti a quest’opera sono durati per oltre un trentennio, fino allo scioglimento, nel 1984, del comitato che ne aveva assunto il compito. Tuttavia, che l’idea che sorreggeva quest’opera sia dura a morire è dimostrato dalla pubblicazione, meno di dieci anni fa, del volume di Federica Saini Fasanotti, Etiopia 1936 – 1940. Le operazioni di polizia coloniale nelle fonti dell’esercito italiano[143], a cura dell’Ufficio storico dello Stato maggiore dell’esercito, che ripropone l’ideologia di un “colonialismo buono” perfino in quella che è stata la più brutale e spietata operazione coloniale dell’imperialismo italiano, l’occupazione dell’Etiopia. Oltre che alle rimozioni e alle amnesie, a inibire la formazione di una coscienza critica del colonialismo italiano, si è anche ricorso a una vera e propria censura su opere cinematografiche come Il leone del deserto[144], che narra le vicende del dirigente della Resistenza libica Omar al-Mukhtar oppure il documentario di Ken Kirby e Michael Palumbo Fascist Legacy[145]. Si può senz’altro concordare con quanto osserva Patrizia Palumbo, che nel dopoguerra il discorso culturale in Italia non ha attraversato il processo di decolonizzazione che hanno sperimentato altre nazioni, come la Francia, tanto che «Il discorso coloniale è parte integrante della cultura italiana»[146]. Conclude Labanca: «Il colonialismo, pur finito nella storia politica, continua (ovviamente trasformandosi e adattandosi ai tempi nuovi) nelle menti degli italiani»[147].
Una mentalità che emerge a ogni contingenza politica che in qualche modo abbia attinenza con il passato coloniale e i presunti interessi dell’Italia all’estero. Ma che è esplosa in tutta la sua potenzialità tra la fine del ventesimo e l’inizio del ventunesimo secolo sulla questione del confine orientale.
Il 14 giugno 1992, poco dopo la dissoluzione della Jugoslavia, l’allora Movimento sociale – Destra nazionale organizzò, sotto la presidenza di Maurizio Gasparri, un convegno dal titolo Dalla fine della Jugoslavia al ritorno dell’Italia in Istria, Fiume e Dalmazia. Il giorno dopo era previsto il riconoscimento delle neonate repubbliche di Slovenia e Croazia da parte del governo italiano.
Nell’intervento iniziale, rivolgendosi ai suoi “camerati”, Maurizio Gasparri invitava il governo a “”rimettere in discussione” i trattati internazionali (dal “dictat” del Trattato di pace del 1947 a quello di Osimo del 1975), «imposti dalla defunta Jugoslavia che hanno decurtato l’Italia di terre, di storie e di tradizioni»[148]. Al convegno sfilava una vera e propria galleria degli orrori del reducismo, da ex repubblichini di Salò a partecipanti alla guerra di Spagna, a esponenti neofascisti che troveremo in seguito arruolati nei vari governi Berlusconi. Il senso del convegno era che con il trattato di pace l’Italia sarebbe stata vittima di un’ingiustizia storica consumatasi sul confine orientale: un’ingiustizia alla quale occorre porre termine col ritorno in Istria e Dalmazia. Si tratta di una lettura del trattato di pace che mostra la difficoltà ad accettare la sconfitta nella Seconda guerra mondiale, ma è anche indicativa della coscienza collettiva di una nazione che non ha mai fatto i conti con il proprio passato coloniale e le conseguenti atrocità commesse nei territori occupati, in Africa come nei Balcani.
Mentre per ciò che riguarda le ex colonie africane, di cui peraltro in sede di revisione del Trattato di pace si fece fatica a rinunciare (in particolare alla Libia e alla Somalia) non c’è stata nel dopoguerra una massiccia campagna di riacquisizione territoriale, non si sono mai smorzate del tutto le aspirazioni sulle terre di confine con la Jugoslavia, considerate “italiane” a tutte gli effetti. Gli equilibri emersi dal secondo conflitto mondiale e la particolare collocazione della Jugoslavia nel contesto della guerra fredda tuttavia impedirono, fino al crollo della federazione jugoslava, un chiaro programma irredentista da parte italiana. Per l’Italia, nel 1991 sembrò arrivato il momento di riaprire il contenzioso di frontiera con le nuove repubbliche sorte dalla dissoluzione del paese balcanico. Secondo un lungo e argomentato articolo di «Limes», l’allora segretario del Movimento sociale – Destra nazionale, Gianfranco Fini, trattò con la leadership serba sulla spartizione della Croazia tra Italia e Serbia, e la revisione dei confini con la Slovenia[149].
Il convegno del 14 giugno 1992, cui si è accennato poco sopra, è il corollario di questi avvenimenti. In virtù di questi riallineamenti internazionali, il primo governo di centro – destra, nel 1994, si oppose all’ingresso della Slovenia in Europa[150].
Seppure originato dalla contingenza geopolitica degli inizi degli anni Novanta, il revisionismo dei confini orientali era indice di un più profondo fiume carsico che pervadeva la coscienza storica nazionale e riemergeva a ridefinire i riferimenti e i miti della nazione. Come si è accennato, l’integrazione del Movimento sociale nell’area di governo aveva fatto cadere la pregiudiziale antifascista e messo in crisi la retorica dell’“arco costituzionale”; d’altro canto, l’abbandono ad ogni riferimento, seppure formale, al comunismo da parte del Pci e la trasformazione in un partito democratico di centro comportava il riconoscimento reciproco dei due ex avversari. L’incontro a Trieste tra Gianfranco Fini e Luciano Violante, nel 1998, organizzato da Giampaolo Valdevit, importante esponente dell’Istituto per la storia del Movimento di liberazione del Friuli Venezia – Giulia, stava a suggello della nuova svolta, che verrà formalizzata con la legge del 30 marzo 2004, approvata dall’intero Parlamento con la sola eccezione di Rifondazione comunista e dei Comunisti italiani, istitutiva del “giorno del ricordo”, da celebrare il 10 febbraio, data della firma del trattato di pace del 1947. Era il punto di arrivo di un iter parlamentare durato circa dieci anni (la prima proposta era stata presentata nel 1995 da un gruppo di deputati dell’allora neonata Alleanza nazionale[151]), che aveva visto confrontarsi iniziative parlamentari di vari schieramenti. Nel corso del dibattito, l’unica fonte citata, da parte neofascista, è Luigi Papo di Montona, autore di un Albo d’Oro. La Venezia Giulia e la Dalmazia nell’ultimo conflitto[152], che elenca circa ventimila vittime “giuliano-dalmate” della seconda Guerra mondiale, in un periodo che va dal 16 ottobre 1940 al 1993 (sic!)[153]. Del resto Luigi Papo stesso dichiarava: «La storia, quando serve alla propaganda, può benignamente essere falsata»[154].
Infine la legge istitutiva recitava:
«La Repubblica riconosce il 10 febbraio quale “giorno del ricordo” al fine di conservare e rinnovare la memoria della tragedia degli italiani e di tutte le vittime delle foibe, dell’esodo dalle loro terre degli istriani, fiumani e dalmati nel secondo dopoguerra e della più complessa vicenda del confine orientale»
L’istituzione del “giorno del ricordo” è stata preceduta dalla ripresa del dibattito nazionale sulle vicende di confine tra Italia e Slovenia. Prima di questa decisione del Parlamento, si è tentata la strada della collaborazione tra storici, culminata nel 1993 nella formazione di una Commissione storico culturale italo – slovena, che affrontasse le relazioni storiche tra i due Stati, nel periodo 1880 – 1956 (un’analoga commissione italo – croata non vide mai la luce, benché formalmente istituita). Dopo sette anni di lavoro, la Commissione di storici giunse alla formulazione di una relazione comune e ne raccomandava una
«presentazione pubblica ufficiale della relazione nelle due capitali, possibilmente in sede universitaria, come segno di stabile riconciliazione tra i due popoli; pubblicazione del testo nelle versioni italiana e slovena; • raccolta e pubblicazione degli studi di base; diffusione della relazione nelle scuole secondarie.»[155]
Nel licenziare la versione definitiva del rapporto, l’allora ministro degli Esteri sloveno, Dimitrij Rupel dichiarava, con eccessivo ottimismo visti gli sviluppi successivi:
«Il Rapporto sloveno-italiano relativo al passato è un documento destinato al futuro. Nel suo messaggio vi è la consapevolezza che i contrasti avuti nella storia non devono trasformarsi in discordie del presente e oberare le relazioni del futuro. Se saremo in grado di accettare la storia, le nostre relazioni saranno maggiormente improntate alla spontaneità e all’amicizia. La storia non può venire conformata o assoggettata alla volontà degli attuali governanti. Il Rapporto comune italo-sloveno raccoglie dati che a molti non piaceranno. I contenuti del documento in Slovenia non vengono respinti, li accettiamo in quanto relativi a fatti storici. »[156]
Da parte slovena venne data la massima diffusione alla relazione comune, mentre in Italia non c’è stata alcuna divulgazione, se non su qualche rivista locale, e nessuna delle misure di pubblicazione venne adottata. La propaganda neoirredentista, divenuta ideologia di Stato, non poteva tollerare una valutazione equilibrata come quella emersa dalla commissione di storici.
Vedremo che, nel corso degli ultimi 15 anni, questa vicenda da complessa viene notevolmente semplificata, dato che agli storici verrà progressivamente impedito di intervenire sulla questione. Con l’istituzione della legge del ricordo, sono stati anche stanziati fondi per le associazioni degli esuli, oltre che per i familiari delle vittime.
Oltre a un programma apertamente revanscista, l’istituzione del “giorno del ricordo” costituisce un tassello fondamentale nel cambio di paradigma storico dell’Italia del dopoguerra, a causa di un discorso pubblico pervicacemente egemonizzato da una destra, non più in cerca di legittimità ma aggressivamente protesa a imporre una narrazione postfascista della storia d’Italia mediante il ricatto morale, la censura e il controllo sui testi.
Posto a ridosso del 27 gennaio, “giorno della memoria” delle vittime della Shoah, il “giorno del ricordo” suggerisce artatamente un paragone con la tragedia che ha sterminato sei milioni di ebrei, vittime del Nazismo e del Fascismo. Come ha dichiarato, parlando delle “foibe”, Maurizio Gasparri: «Sono grandi tragedie, come quelle dell’Olocausto o di Anna Frank»[157]. Allo scopo di questa olocaustizzazione non si fa riferimento ad alcuna storiografia o ricerca sostenuta da fonti e dati certi, ma a una malastoriografia[158] incerta, confusa e contraddittoria, dal citato Luigi Papo a padre Flaminio Rocchi, da Marco Pirina a Giorgio Rustia da Ugo Fabbri a Augusto Sinagra ad Antonio Serena[159], tutti personaggi di estrema destra, in transito tra formazioni fasciste e lega Nord, che hanno prodotto lavori confusi e pervasi da un comune furore ideologico antislavo.
A seconda delle interpretazioni, assolutamente arbitrarie, gli stessi numeri di “infoibati” passano da alcune centinaia a decine di migliaia se non centinaia di migliaia di vittime. L’allora presidente della Camera Ferdinando Casini, in sede di discussione, parlò di “centinaia di migliaia di italiani” oggetto di persecuzione[160]. L’oscar dell’abominio però spetta a Maurizio Gasparri, uno dei “foibologi” più impegnati nella diffusione di false notizie su questo avvenimento. In un intervento alla trasmissione 3131 di Rai 2, nel febbraio del 2004, l’allora ministro delle Comunicazioni dichiarò all’intervistatore Pierluigi Diaco che «Milioni di italiani furono gettati vivi solo per essere italiani»[161]. Basti ricordare che l’intera popolazione italofona in Istria e Dalmazia non raggiungeva le cinquecentomila unità.
Ai fini di questa ricostruzione che di storico ha ben poco, occorre semplificare, come si diceva prima, le vicende delle terre dell’Alto Adriatico e confinarle nel periodo 1943 – 45. Eppure la loro storia non inizia nel 1943. Senza addentrarci nelle vicende delle origini della formazione delle ideologie nazionali nell’Impero asburgico[162], basti ricordare che negli anni del primo dopoguerra l’irredentismo italiano in Istria e in Dalmazia si salda col mito della “vittoria mutilata” e vede nell’impresa fiumana di D’Annunzio il momento del riscatto nazionale.
Come ha osservato Brunello Mantelli, un ruolo importante fu giocato dall’antislavismo radicale costitutivo del nazionalismo espansionistico italiano di fine Ottocento, uno dei principali filoni confluiti nel movimento interventista che nel 1914 si agitò per spingere l’Italia nella prima guerra mondiale; nei confronti degli slavi, vissuti come ostacolo da quelle correnti irredentistiche che, nel primo scorcio del secolo XX, avevano ormai trasformato l’aspirazione al completamento dell’unità nazionale in slancio imperialistico verso la sponda orientale del mare Adriatico, iniziarono allora a risuonare accenti razzisti; nelle parole scritte immediatamente prima dello scoppio della Grande guerra dall’esponente nazionalista Ruggero Fauro (più noto con lo pseudonimo di Timeus, con cui era solito firmare i suoi scritti)[163]: «Nell’Istria la lotta nazionale è una fatalità che non può avere il suo compimento se non nella sparizione completa di una delle due razze che si combattono…»[164].
Questo progetto diventa concreto con l’irrompere del fascismo sulla scena politica; la situazione dei territori dell’Alto Adriatico muta radicalmente. Il 13 luglio 1920 veniva dato alle fiamme dai fascisti agli ordini di Francesco Giunta il Narodni Dom di Trieste, che ospitava l’hotel Balkan e simbolo della presenza slava in città, sede di associazioni culturali serbe, croate e slovene, ma anche ceche. Seguì l’incendio della Casa del popolo di Pola e, nel corso di queste violenze, vennero incendiati 134 edifici, tra cui 100 circoli di cultura, case del popolo, camere del lavoro e cooperative. In seguito alla resistenza operaia dei minatori dell’Arsa, i fascisti incendiarono interi villaggi[165]. Negli anni a seguire, la violenza nazionalista italiana si scatenò non solo contro gli oppositori politici, socialisti, comunisti, liberali e tutto ciò che era in odore di “antifascismo”, ma soprattutto contro sloveni e croati, non risparmiando neppure i preti che si opponevano a quell’orgia di brutalità, tanto da suscitare anche la reazione del papa Benedetto XV che deplorava la ferocia sui sacerdoti[166]. Il 3 marzo 1922 nella città libera di Fiume un colpo di stato fascista con l’attivo sostegno dei carabinieri, dell’esercito e della marina italiani, depose il governo locale, costringendo all’esilio Riccardo Zanella, presidente della giunta autonomista fiumana[167]. Lo stesso capo del fascismo, del resto, dichiarava il 20 settembre 1920 in un discorso al teatro Cescutti di Pola:
«Di fronte a una razza come la slava, inferiore e barbara, non si deve seguire la politica che dà lo zuccherino, ma quella del bastone. I confini italiani devono essere il Brennero, il Nevoso e le (Alpi) Dinariche. Dinariche, sì, le Dinariche della Dalmazia dimenticata! … Il nostro imperialismo vuole raggiungere i giusti confini segnati da Dio e dalla natura, e vuole espandersi nel Mediterraneo. Basta con le poesie. Basta con le minchionerie evangeliche»[168].
Non si trattava solo di un piano di espansione geopolitica, ma della definizione di un nuovo concetto di italianità, che univa lingua, nazione e razza. Lo strumento per la sua affermazione era la “bonificazione etnica” degli “allogeni”, come venivano chiamate le popolazioni slave. Riferendosi al programma fascista, Enzo Collotti ha parlato dell’«italianità di frontiera come quintessenza e distillato allo stato della massima purezza dell’italianità»[169].
Gli anni dal 1922 al 1941, data dell’invasione della Slovenia, furono anni terribili per le popolazioni sottomesse al governo di Roma. Il fascismo procedette a tappe forzate a un programma di italianizzazione e fascistizzazione delle istituzioni, mediante la distruzione della cultura e delle istituzioni slave; venne proibito l’uso delle lingue locali, italianizzati i cognomi e, come si è visto, perfino il clero non fu risparmiato da questo processo. L’intero sistema creditizio venne italianizzato, privando in questo modo le cooperative rurali dei fondi necessari al loro sviluppo. Entro il 1928 oltre 300 tra cooperative e istituti finanziari passarono in mani italiane. Mediante questi strumenti economici si provvide a colpire la proprietà slava a favore di una borghesia italiana, agraria e industriale, che fin dall’inizio aveva sostenuto il fascismo, convinta di trarre notevoli benefici economici. Nel 1931, lo stesso Mussolini inviava una circolare ai prefetti nei quali proponeva di espropriare «le proprietà terriere … che si trovano oggi in possesso di allogeni»[170]
Ha notato Raoul Pupo:
«In cima all’Adriatico, la politica del regime fascista si è distinta per la radicalità dei propositi, consistenti nella “bonifica nazionale” delle terre appena redente, cioè nella distruzione dell’identità nazionale slovena e croata. L’impegno in tal senso del fascismo, che ne ha menato gran vanto, e stato notevole e le popolazioni hanno per la prima volta sperimentato che cosa significhi la forza di uno Stato moderno le cui istituzioni vengono mobilitate su richiesta di una delle componenti nazionali in conflitto per distruggere l’altra.»[171]
La seconda Guerra mondiale costituì una brutale accelerazione di questo processo. È sufficiente ricordare sinteticamente l’aggressione fascista alla Jugoslavia e il vero e proprio massacro, al limite del genocidio, che subirono le popolazioni slave.
Senza neppure una dichiarazione di guerra, nel 1941 l’Italia, insieme con i suoi alleati tedeschi, iniziò l’occupazione della Jugoslavia, spartita tra Germania, Bulgaria, Ungheria e Italia, alla quale toccarono Montenegro, parte del Kosovo e della Macedonia, parte della Dalmazia e la Slovenia[172]. Il 3 maggio iniziò la fascistizzazione e la snazionalizzazione delle zone occupate, che ripercorreva lo schema già visto per i territori sotto giurisdizione italiana. A eseguire queste misure è chiamato il generale Grazioli. La stessa Lubiana, divenuta italiana, fu interamente circondata da filo spinato per la repressione antislava.
Nell’occupazione dei Balcani, dove la condotta militare fu estremamente brutale, vennero impiegati, in totale, circa 600.000 uomini[173].
Nel 1942 – 43 si organizzò la resistenza: il Fronte di Liberazione slavo univa comunisti, cristiano-sociali e liberali. Per fronteggiare la Resistenza, gli occupanti promossero lo stato di “guerra totale”. Il generale Mario Roatta, al comando della II armata, assunse il controllo politico della regione. Nella sua circolare 3C ordinava di uccidere gli ostaggi, incendiare i villaggi, deportare gli abitanti infedeli: «Il trattamento da fare ai ribelli non deve essere sintetizzato nella formula dente per dente, bensì in quella testa per dente». Il generale di corpo d’armata Mario Robotti, parte di quel cerchio magico di guerrieri dal volto umano, scriveva: «Si ammazza troppo poco!» Il generale d’armata Alessandro Pirzio Biroli, governatore del Montenegro, è anche lui di quella feroce partita: lamenta l’eccessiva mitezza verso i rivoltosi «selvaggi» e conclude così un suo proclama: «La favola del “bono italiano” deve cessare!»[174].
Ai proclami seguirono i fatti. Naturalmente è impossibile in questa sede esporre tutti i crimini di guerra dei quali gli eserciti occupanti si resero responsabili nei paesi balcanici, per i quali si rimanda alla bibliografia in nota. È però utile fornire un paio di esempi come indicativi del metodo utilizzato dagli invasori nazifascisti.
Tra il 21 e il 23 ottobre 1941, a Kragujevac, nel corso di un rastrellamento, furono massacrate settemila persone, tra cui intere classi di scolari, e oltre duemila operai nel distretto industriale di Kraljevo[175].
Alle ore 8 del 12 luglio, domenica, 250 militari appartenenti al XI Corpo d’Armata del gen. Robotti penetrarono nel paese di Podhum e vi bloccarono tutta la popolazione, all’epoca di circa mille abitanti: nel corso del successivo rastrellamento, casa per casa, vennero catturati tutti gli uomini di età compresa tra i 16 e i 64 anni (120 individui) di cui 108 (alcuni erano riusciti a scappare) furono subito condotti a una vicina cava e, in un avvallamento ai suoi piedi, vennero immediatamente uccisi con raffiche di mitragliatrici e i loro corpi gettati nella cava. Ne seguì la razzia e il saccheggio dell’intero villaggio[176].
Vennero istituiti decine di campi di concentramento per slavi, in Italia e in Jugoslavia, dove trovarono la morte migliaia di donne, uomini, vecchi e bambini, spesso evacuati dai villaggi dati alle fiamme, al fine di eliminare ogni sostegno popolare alla resistenza[177]. Centinaia di processi sommari, sfociati in condanne a morte e migliaia di condannati all’ergastolo o a pene di 30 anni. E’ molto difficile un censimento preciso: Kraljevica, Lopud, Kupari, Korica, Brac, Hvar, Melada, Mamula, Prevlaka, Zlarino, Janesovac, Sajmiste e nell’isola di Arbe, in Jugoslavia (ad Arbe la letalità fu superiore di quella del tristemente noto campo nazista di Dachau), Risiera di San Sabba a Trieste, Gonars, Visco, Chiesanuova, Monigo, Casoli, Agnone, Colfiorito di Foligno, Renicci di Anghiari, Fraschette di Alatri, in Italia, sono alcuni dei campi nei quali vennero rinchiusi complessivamente circa 500.000 individui, dei quali oltre 115.000 morirono per stenti, malattie, fucilazioni, freddo, sevizie. Ma occorre ricordare anche il campo di Jasenovac, nella Croazia di Ante Pavelic, infeudata al fascismo di Mussolini.
Quasi tutte le fonti concordano che le vittime jugoslave dell’occupazione italiana abbiano raggiunto la cifra di circa 250.000[178].
Dopo l’8 settembre, scoppiarono insurrezioni contadine in Slovenia e Istria, a carattere sociale contro l’élite economica, in particolare per la riappropriazione dei campi concessi dal fascismo a nuovi proprietari italiani. Nel tipico stile delle jacqueries vennero incendiati i catasti e distrutti documenti che riconoscevano i privilegi dell’élite coloniale italiana sulla popolazione slava. Se per la classe dominante italiana, intrisa di razzismo antislavo, questi episodi hanno richiamato alla mente i peggiori incubi dell’incombenza della rivolta di una classe operaia e contadina a lungo tenuta soggiogata e per questo temuta, per la popolazione slava dell’Istria ha rappresentato la fine dell’oppressione e il risveglio di una coscienza nazionale soffocata da vent’anni di fascismo[179].
In quest’occasione qualche centinaio di persone, fascisti o collaborazionisti, vennero gettate nelle foibe, tra tedeschi, italiani, sloveni e altri[180]. Le cifre stimate variano dalle due alle quattrocento persone.
Involontariamente, il carattere di classe dell’insurrezione del settembre 1943 è riconosciuto dagli stessi nazisti che, in un opuscolo di inizio 1944, denunciano il tentativo di liquidazione
«dei possidenti, dei capitalisti, degli industriali, dei contadini benestanti, dei dirigenti dei partiti borghesi, delle Guardie Bianca e Azzurra, dei componenti delle S.S. e della Ghestapò, degli intellettuali, degli studenti, dei “politici da caffè”, dei sacerdoti nemici del proletariato e, in genere, di tutte le persone contrarie alla “lotta bolscevica di liberazione”»[181]
Nel frattempo, il 10 settembre 1943, due giorni dopo l’armistizio, venne istituita l’ Operationszone Adriatisches Küstenland (Zona d’operazione dell’alto Adriatico, Ozak), per ordine di Hitler e il 29 settembre partì una vasta operazione antipartigiana tesa a riconquistare le zone insorte dell’Istria e la Slovenia. Si trattò, come ricorda il collettivo Nicoletta Bourbaki, «del più brutale atto di guerra che abbia interessato l’Istria in tutta l’età moderna»[182]. Le truppe di occupazione naziste erano affiancate dalla Milizia di difesa territoriale, combattenti volontari fascisti che operavano sotto comando tedesco. Oggetto della repressione non furono solo i combattenti, ma interi villaggi rastrellati e dati alle fiamme. Spesso la popolazione veniva radunata e, su delazione dei fascisti, si decideva chi passare per le armi. Alla fine dell’operazione tedeschi rivendicarono circa 5000 “banditi” uccisi e 7000 prigionieri[183].
La seconda ondata di “infoibamenti” avvenne nel maggio del 1945, dopo la liberazione di Trieste e dell’intera Jugoslavia da parte dell’Esercito popolare di liberazione (Epl) di Tito. Ricordiamo che la Resistenza jugoslavia è stata l’unica a liberare il paese dal nazifascismo senza aiuti esterni. Nei giorni confusi che seguirono la liberazione di Trieste si verificarono processi sommari, vendette personali, rastrellamenti “privati” che talvolta si conclusero con l’occultamento dei cadaveri nelle foibe del Carso.
Al di là dei numeri fantasiosi e delle interpretazioni soggettive del fenomeno[184], è molto difficile una contabilità precisa delle vittime: anche se è ormai quasi certo che gli scomparsi accertati nelle foibe nel 1943 furono alcune centinaia[185], più difficile è la contabilità dei morti del maggio – giugno 1945 per la mancanza di elenchi ufficiali e fonti certe; nella provincia di Trieste, ad esempio, i morti accertati furono 498[186], altri 1500 furono i fiumani, gli istriani e i goriziani, nel complesso, scomparsi nello stesso periodo[187]. E tuttavia, anche questa cifra è incerta, in quanto nelle foibe non finirono solo fascisti e collaborazionisti, italiani e tedeschi, ma anche slavi e partigiani jugoslavi “infoibati” dalle truppe di occupazione, oltre a un numero indefinito di persone scomparse nel corso dei decenni precedenti la seconda Guerra mondiale. La cifra lievita, e di molto, se tra gli “infoibati” vengono contati tutti coloro, italiani e sloveni, che, in un modo nell’altro furono oggetto della repressione nella Jugoslavia del secondo dopoguerra. Come ha sottolineato Claudia Cernigoi, la più attenta e informata studiosa degli avvenimenti ai quali ci riferiamo
«Non ha senso parlare di un fenomeno delle foibe quando in realtà si tratta di una serie di fenomeni del tutto distinti tra loro e che hanno come elemento accomunante semplicemente il fatto che si sono svolti nel corso o in conseguenza della seconda guerra mondiale»[188]
Neppure le motivazioni, come si è visto, possono essere ricondotte a un’unica causa. Nelle insurrezioni del 1943 e nella lotta di liberazione jugoslava si unirono motivazioni di classe, istanze di liberazione nazionale e dalla barbarie nazifascista. Parlare di “pulizia etnica”, oltre ad essere storicamente inaccurato e senza nessun fondamento, costituisce una riabilitazione di ciò che è stato il vero tentativo di mettere in opera la “bonifica nazionale” dell’Istria e della Slovenia nel ventennio.
Tuttavia qui occorre una precisazione; a questi episodi l’Epl jugoslavo tentò di porre un freno e spesso condannò a pene severissime, talvolta alla pena capitale, chi si rendeva colpevole di questi crimini[189]. Per due fondamentali ragioni: da una parte l’Esercito popolare era parte integrante degli eserciti alleati e non l’unico presente a Trieste e, in secondo luogo, aveva tutto l’interesse a presentarsi come garante della sicurezza e della pace della città di cui cercava l’annessione alla Jugoslavia[190]. La grande e media borghesia triestina e istriana, come si è visto in gran parte italiana, che negli anni del fascismo e dell’occupazione aveva sostenuto il regime, improvvisamente si scopre “antifascista” e chiede al governo Bonomi una maggiore presenza militare alleata a Trieste. Mentre la classe operaia e i contadini della Venezia Giulia considerarono l’esercito di Tito non solo lo strumento della sconfitta del nazifascismo, ma una speranza per la trasformazione socialista dei Balcani.
Che sia gli insorti istriani che i partigiani dell’Epl fossero ben lontani dall’idea di una “pulizia etnica” nei confronti degli “italiani in quanto tali”, come pretende la propaganda nazifascista è mostrato da alcuni episodi significativi: almeno 20.000 militari italiani, ex truppe di occupazione, vennero accolti fraternamente tra le formazioni partigiane jugoslave[191]; i partigiani slavi salvarono anche tremila marinai italiani, destinati alla deportazione in Germania, dopo l’8 settembre[192]. Il rapporto dei partigiani slavi con gli italiani fu in genere di fraternizzazione militare, persino con quei militari che avevano partecipato alla repressione delle stesse popolazioni balcaniche, come mostrato da diverse testimonianze. Come osserva Pupo «è il disordine della storia nel momento della rivoluzione»[193].
La campagna antislava e anticomunista sulla questione delle “foibe” iniziò già nei primi giorni dopo la liberazione, con toni e argomenti ripresi dalla propaganda nazista del novembre 1943, di cui si è detto sopra. Nell’immediato dopoguerra fu la stampa neoirredentista e i neofascisti già volontari nell’esercito nazista, riciclati in “difensori dell’italianità” dell’intero Alto Adriatico, gli iniziatori della campagna sulle cosiddette “foibe”. Il più attivo è stato, fino in epoca recente, Luigi Papo de Montona (Paolo De Francesco), autore di un libro Foibe, del 1949, ex comandante della formazione del fascio, repubblichino e fiancheggiatore dei nazisti, dirigeva i servizi di informazione della Rsi nel litorale, ricercato dalle autorità jugoslave per crimini di guerra e mai estradato; si aggiunge padre Flaminio Rocchi, autore di un libro sull’esodo giuliano – dalmata, inventa relazioni inesistenti, si fa testimone di fatti ai quali non ha mai assistito e spesso smentito; Marco Pirina, figlio di un ufficiale della Guardia nazionale repubblicana, giustiziato dai partigiani nel 1944, ex dirigente del Fuan, transitato da tutti i partiti della destra parlamentare; Ugo Fabbri, l'(ex?) esponente di Forza Nuova Giorgio Rustia, Augusto Sinagra, Maria Pasquinelli, convinta fascista e collaboratrice della Germania nazista durante l’occupazione dell‘Adriatisches Kustenland[194].
L’operazione falsificazionista consiste nel trasformare i liberatori jugoslavi in aggressori dell’italianità dell’Istria e della Venezia Giulia, mediante la manipolazione delle cifre, in particolare degli “infoibati”, la martirizzazione degli oppressori fascisti, la disumanizzazione razzista degli slavi, la spettacolarizzazione degli avvenimenti in modo da coprire con effetti speciali l’inconsistenza storiografica. Esponenti del neofascismo triestino, alcuni dei quali si erano macchiati direttamente dei crimini di guerra, i collaborazionisti delle stragi di Kragujevac e Pudhum, in questo modo cercano di riabilitarsi in quanto difensori dell’”italianità” della Venezia Giulia.
E ovviamente, tutti questi avvenimenti vengono espunti dal contesto della criminale e tragica occupazione italiana della Jugoslavia e delle vicende belliche, in modo da rendere volutamente un effetto estraniante e deformato, allo scopo di disorientare, come se la storia del confine orientale iniziasse nel 1943, con l’insurrezione dei contadini istriani che, all’improvviso, hanno deciso di farla finita con la civiltà italiana. La reazione popolare all’oppressione nazifascista viene stravolta e ridotta a uno scontro interetnico tra la civiltà italiana, ovviamente superiore, e quella barbara degli slavi, connotati con termini razzisti.
Si costruiscono vere e proprie manipolazioni storiche, di cui la cosiddetta “foiba” (in realtà un pozzo minerario) di Basovizza[195] rappresenta forse l’esempio più evidente; si alimenta il mito dei “sopravvissuti”[196], si fa lievitare il numero delle vittime, spesso senza alcun senso del ridicolo, se non si trattasse di una tragedia, si fornisce una narrazione nazionalista che sfocia nel razzismo.
Il piranese Diego De Castro, che pure partecipò alle campagne propagandistiche sulle “foibe”, dovette riconoscere, in vari interventi, che le narrazioni dell’immediato dopoguerra sono state artatamente falsate a fini propagandistici, allo scopo di poter influire sugli alleati perché intervenissero in funzione antijugoslava nella Venezia Giulia e in Istria[197]. Un’operazione durata fino al 1954, con la definizione della questione di Trieste.
Nel periodo della guerra fredda la vicenda restò sottotraccia per vari motivi, sia per l’inconsistenza della letteratura prodotta dall’estrema destra giuliana, sia per la situazione politica interna all’Italia, sia per l’esistenza della nazione jugoslava che avrebbe potuto far valere le ragioni dello Stato balcanico di fronte al neoirredentismo dell’estrema destra triestina.
Eppure non mancarono studi seri sulla questione che, senza nascondere il problema delle “foibe”, affrontavano le vicende del confine orientale italiano collocandole nel loro contesto storico, come, per fare qualche esempio, il citato testo di Mario Pacor, Confine orientale, pubblicato nel 1964, o Storia di un esodo. Istria 1945 – 1956[198], del 1980.
Con la fine della Jugoslavia e il crollo degli equilibri politici in Italia, la questione è riemersa nel discorso pubblico, diventando uno dei cavalli di battaglia di una destra aggressiva e avida di imporre la propria egemonia culturale e politica mediante la ridefinizione dei miti fondanti della nazione.
Come scrive Marcello Veneziani, uno degli intellettuali più ascoltati della destra, e membro del comitato per la celebrazione del 4 novembre: «La patria è e resta il nostro legame più intimo, più antico, più concreto, più alto. La patria è la nostra storia, la nostra lingua, la nostra civiltà, la terra dei nostri avi, dei nostri caduti, dei nostri cari.»[199]
Si tratta di passare da una concezione storica della democrazia, che trova il patto fondativo nella Costituzione e garantisce le libertà individuali, a un mito metastorico della Patria, come comunità di “sangue e suolo”, sancita dal culto dei morti, forgiata dalla religione cattolica, garantita dall’appartenenza alla stirpe, la cui unità è cementata dal culto di un leader che esprime lo spirito del popolo[200]. Lo stesso Veneziani, in un opuscolo del 2002 indica nel mito prepolitico l’ubi consistam della cultura di destra[201]. Non è un caso che lo slogan della “nazione cattolica”, declinato in decine di varianti, sia diventato il mantra della destra da presentare ad ogni occasione con sfoggi di rosari, madonne, invocazioni di santi e proclami di appartenenza alla nazione e alla religione, ribadito in decine di convegni e seminari[202]. Le vicende che hanno interessato l’Alto Adriatico devono essere quindi semplificate e banalizzate, in modo da espellere dall’analisi qualsiasi elemento che contrasti con questo mito unificante, a un tempo consolatorio e aggressivo, della “storia patria”. Ne emerge uno schema di lettura secondo cui la “sacra italianità” di Istria, Venezia Giulia e Dalmazia, è stata violentemente recisa dalla furia barbara di slavi strumenti di una potenza straniera, infiammati da un’ideologia comunista naturalmente atea, dediti alla “pulizia etnica” e all’uccisione degli italiani in quanto tali. Non solo il regime fascista è assolto da ogni crimine commesso nei Balcani, ma coloro che hanno massacrato donne vecchi e bambini, rastrellato, dato alle fiamme interi villaggi, deportato la popolazione civile poi perita nei campi di concentramento, sono trasformati in vittime delle loro vittime: chi ha cercato di imporre la “bonifica etnica” è presentato oggi come vittima della “pulizia etnica” slava. Luigi Cajani ha osservato che questo è possibile solo data la diffusa inconsapevolezza delle violenze commesse dagli italiani in Jugoslavia, riflesso di una più ampia rimozione delle atrocità del colonialismo italiano[203].
E se l’analisi storica non certifica questo racconto, vittimista quanto assolutorio, allora occorre che venga piegata a questa narrazione, ormai bipartisan, e diffusa ampiamente nei media e quindi divenuta dominante, tanto che negli ultimi anni è imposta come verità di Stato.
È ancora Marcello Veneziani ad indicare il programma,
«Dove invece la cultura della destra può animare un progetto pubblico e alimentare una cultura civica dell’agire pratico, è nei luoghi in cui si esprime e si forma la coscienza pubblica, in cui la comunità cresce e assume consapevolezza di sé. Il riferimento specifico è ai territori della scuola e dell’educazione, dei beni artistici, culturali e storici, della comunicazione e dei suoi orientamenti pubblici»[204]
Si progetta una scuola e in genere una comunicazione storica piegata alle esigenze ideologiche e politiche di una cultura di destra, quando non chiaramente neofascista.
È impossibile citare tutti i casi di tentativo di colonizzazione della scuola. Basti qualche esempio: nel 2004, l’Assessorato all’Istruzione della Provincia di Milano, in un opuscolo sul confine orientale diffuso gratuitamente alle scuole in migliaia di copie, significativamente titolato Là dove nacque l’Italia[205], nella cronologia omette completamente il ventennio dal 1920 al 1943, mentre nel periodo 1943 – 45 si concentra semplicemente sui «massacri contro le popolazioni italiane». Una tendenza che ha interessato diffusamente le amministrazioni di destra, ex Alleanza nazionale, leghiste o di coalizione, le quali non hanno lesinato sui fondi pubblici da destinare all’acquisto di opuscoli spesso pubblicati da case editrici neofasciste, di nessun valore scientifico, da destinare alla distribuzione gratuita nelle scuole. Un processo che ha subito un’accelerazione nell’ultimo decennio.
Nel 2010, il 23 febbraio, si teneva alla sede del Ministero dell’Istruzione a Roma, un convegno dal titolo Le vicende del confine orientale e il mondo della scuola, a cui seguì la pubblicazione degli atti[206]. La prima parte del volume è dedicata all’inquadramento storico delle vicende dell’Alto Adriatico: dopo il contributo di Raoul Pupo, che affronta il periodo Dal trattato di Campoformio alla grande guerra, si passa direttamente al 1943 e, infine, al dopoguerra, senza alcuna menzione del periodo che va dal 1920 al 1943. Dal 2010 ad oggi, le iniziative del Miur attorno al confine orientale sono state praticamente appaltate alle associazioni degli Esuli[207], fornendo delle “complesse” vicende del confine orientale una lettura estremamente riduttiva, secondo lo schema manicheo dell’italiano portatore di civiltà vittima del barbaro sanguinario slavocomunista in cerca di pulizia etnica. Ultimo, in ordine di tempo, il Convegno, patrocinato dal Miur, tenutosi a Trieste nel novembre del 2019 e conclusosi con la proiezione del film Rosso Istria. Con Rosso Istria (Red Land) si è cercato di mettere in piedi la stessa operazione tentata un quindicennio prima con la fiction Il cuore nel pozzo, per la regia di Alberto Negrin. L’allora ministro delle Comunicazioni Maurizio Gasparri, licenziò il film in tempi brevissimi per poter essere proiettato in occasione della celebrazione della prima “giornata del ricordo”, nel 2005. Si trattò, come lo definì la «Frankfurter Allgemeine Zeitung» di un Massaker-Kitsch[208]: il protagonista, un truce slavocomunista di nome Novak, è impegnato a percorrere in lungo e in largo l’Istria per rapire il figlio che fugge protetto dalla madre, da un sacerdote cattolico e da un volontario della Rsi pacifista (naturalmente il bambino è figlio dello stupro di Novak) allo scopo di “eliminarlo”. Nel frattempo, a capo di una banda partigiana, giusto per non stare con le mani in mano, incendia qualche asilo e saccheggia qualche villaggio.
Vale la pena fare un passo indietro di ottant’anni e riportare ciò che scriveva il «Corriere della sera» del 19 gennaio 1944, preannunciando quella che a tutti gli effetti è il primo “giorno del ricordo”:
«Per disposizione del Duce il 30 gennaio le Federazioni fasciste repubblicane promoveranno la celebrazione dei nostri Caduti in Istria e Dalmazia nella lotta contro il comunismo partigiano. … le bande bolsceviche si sono gettate con furia sulle popolazioni inermi trucidando e saccheggiando. … Quattrocentosettantun persone … pagarono con la vita, dopo inenarrabili torture, le colpe di essere semplicemente degli italiani. Ma l’elenco di questi martiri non è certo completo, poiché non ancora le “foibe” hanno finito di restituire le spoglie mutilate ed orribilmente sfregiate di molti patrioti … Donne e bimbi figurano tra i massacrati. La fede politica delle vittime importava fino a un certo punto ai feroci carnefici. Essi facevano obiettivo della più raffinata tortura o dell’omicidio chi portava nome italiano, o chi era italiano. … Dalle tragiche foibe si leva un monito: impugnare le armi per difendere la nostra casa, la nostra famiglia, i nostri figli, la stessa civiltà europea dagli orrori del bolscevismo che ora cerca di aprirsi un varco verso occidente con la complicità delle plutocrazie alleate contro il sacrosanto diritto delle genti povere propugnato dall’Italia e dalla Germania».
Come si vede, la trama del Cuore nel pozzo era già pronta. Lo stesso Leo Gullotta, che nel film interpreta il sacerdote Don Bruno, deve essersi accorto della strumentalizzazione della quale era stato vittima se ha abbandonato la sala dell’anteprima, proiettata in occasione del decennale della nascita di Alleanza nazionale, l’8 febbraio 2005.
Con Red Land[209] si è andato, se possibile, addirittura oltre. Il film, sulla vicenda dell’assassinio di Norma Cossetto, pieno di marchiani errori storiografici, gronda sangue ad ogni sequenza. Violenze, indiscutibilmente “titine” (anche se nel ’43, epoca di ambientazione del film nessuno chiamava così gli insorti istriani), stupri, assassini ecc.; tutto l’orrido armamentario cui ci ha abituati la filmografia neofascista. Lo schema è quello del film western degli anni Quaranta e Cinquanta, da Ombre rosse a Sentieri selvaggi, quando i nativi (gli “indiani”) erano immancabilmente dipinti come primitivi selvaggi ostinatamente impenetrabili alla civiltà dell’uomo bianco. Stessa è la reazione di orrore per i selvaggi che si cerca nel pubblico. Un orrore che si tramuta, come sappiamo, in progetti genocidi.
Se sul piano estetico si tratta di pessimi b-movie, Il cuore nel pozzo e Red Land agiscono entrambi sul piano prepolitico e metastorico, delle emozioni e dei sentimenti, agitando il terrore ancestrale dell’altro, che si infila nelle “nostre” case a stuprare le “nostre” donne e rapire i “nostri” bambini. La foiba non è più la cavità carsica, ma il luogo nascosto della nostra rabbia e delle nostre paure[210]; una sepoltura senza celebrazione funeraria che non permette neppure l’elaborazione del lutto, così che i morti e i vivi condividano un’unica “patria”, che per questo sarà eterna. Si tratta della riproposizione della lugubre retorica fascista del martirologio patriottico.
Ai film si affianca il fumetto su Norma, Foiba rossa[211], edito dalla casa editrice neofascista Ferrogallico, disegnato da Beniamino Delvecchio e sceneggiato da Emanuele Merlino (figlio del noto neofascista Mario Merlino), che ripete schemi già descritti per le fiction di cui abbiamo detto.
Liberamente ispirato al libro di Frediano Sessi, Foibe rosse, in realtà il fumetto costituisce una drammatizzazione arbitraria degli avvenimenti. Lo stesso Frediano Sessi ammette, nella ricostruzione delle vicende che condussero alla morte della ragazza, di non avere elementi certi per la ricostruzione completa della storia:
«Quello che si sa di Norma Cossetto e del suo dramma, a tutt’oggi, sta racchiuso in poco più di due pagine. Qualcuno parla in proposito di falso storico e di mito, qualcun altro all’opposto di verità taciuta. Questa ricostruzione sceglie di privilegiare quel che resta della memoria del dolore, e di dare voce a una morte che in ogni caso, quale ne sia l’interpretazione che si vuole autentica, fu atroce e ingiustificata.»[212]
Nel descrivere la vicenda di Norma, figlia del podestà di Visinada, Giuseppe, aggregato al 134° battaglione camicie nere, probabilmente ucciso in combattimento nelle operazioni di repressione del movimento partigiano slavo cui si è accennato prima, Frediano Sessi, forse ispirato dalla “storiografia” di Pansa, ricorre spesso ai “si dice” e la sua versione è contestata da altre ricostruzioni che, sul piano storiografico, risultano più accurate[213]. Qui non è il luogo, ovviamente, per dirimere la questione, della quale occorre dire che non conosciamo abbastanza. In questa sede occorre tuttavia ricordare che Norma Cossetto venne uccisa nella notte tra il 4 e 5 ottobre 1943, in una zona che, proprio il 5, cadeva sotto controllo nazista, che nella foiba di villa Surani dalla quale fu estratto il suo povero corpo, insieme con altri venticinque, vennero trovati 17 berretti con la stella rossa, probabilmente appartenenti a partigiani gettati dai nazisti nella voragine, e che la sorella di Norma, Licia, venne arrestata dai partigiani qualche giorno dopo e rilasciata poco dopo, e non è chiaro il motivo della diversa sorte che questi terribili “titini” avrebbero riservato alla sorella. Questi sono fatti accertati[214]. Quindi le circostanze nelle quali è stata uccisa Norma Cossetto vengono ricostruite in maniera completamente arbitraria e accolta una versione solo per scopi ideologici.
Sia il Cuore nel pozzo che Red Land riprendono i temi della kampfpropaganda, orchestrata da Karl Lapper nell’Alto Adriatico sotto occupazione nazista, secondo cui le “foibe” costituivano un massacro etnico organizzato e pianificato dall’alto dalle orde barbare dello slavobolscevismo. Le ragioni della propaganda nazista erano essenzialmente due: da una parte obliterare le ragioni storiche e sociali della rivolta istriana, addebitandola alla particolare crudeltà della “razza slava”, dall’altra giustificare la spietata repressione e il massacro della popolazione civile da parte dell’occupante nazista.
Parte della propaganda degli occupanti era la riesumazione dei cadaveri, operati dai Vigili del fuoco, alla quale veniva invitata o costretta, a seconda dei casi, ad assistere la popolazione civile, sotto lo stretto controllo delle Camicie nere e di militi tedeschi. Lo scopo era dare vita alla trasmissione orale dei particolari più raccapriccianti e macabri dei ritrovamenti, in modo da scavare un solco tra la popolazione locale e il movimento partigiano. Ed è in questo contesto che maturano i racconti e le dicerie sulla fine di Norma Cossetto, con particolari sullo stupro e sevizie sul corpo, che il rapporto del comandante dei Vigili del fuoco che ne ha operato il recupero della salma, il maresciallo Arnaldo Harzarich esclude[215]. Ma è lo stesso Frediano Sessi ad ammettere la ricostruzione romanzata della vicenda:
«In questa ricostruzione, realtà storica e immaginazione convergono nel tentativo di restituire corposità ai fatti e ai pensieri. Un metodo che si giustifica, almeno in parte, con la scarsa documentazione disponibile a fronte della ricchezza di particolari, spesso coincidenti, emersi dai racconti dei testimoni. Un azzardo storico? In fondo, tutte le storie fanno i conti con la finzione perché arrivano a noi solo attraverso il linguaggio e la scrittura. Una vita quando si avvera sulla pagina non è altro che una trama di parole. Tutto, proprio tutto è parola.»[216]
Anche qui si tratta del tipico metodo di fabbricazione di una postverità che, senza prove e documentazione certe, dà voce a testimonianze selettive allo scopo di costruire una storia mitica soffermandosi su aspetti drammatici e macabri riempiendo il vuoto delle fonti con le congetture dell’autore.
Naturalmente, non si tratta di sottoporre ad analisi storiografica la subcultura neofascista che produce b-movie e fumetti splatter. Giova invece osservare che, questa subcultura, generosamente finanziata mediante l’acquisto di migliaia di copie di Foiba rossa da distribuire alle scuole e la diffusione di Red Land con il patrocinio del Miur rende la scuola da agenzia democratica di formazione della coscienza storica e di studio critico del passato, dispositivo totalitario di diffusione di un’ideologia neoirredentista. Invece di essere problematizzate, le vicende delle terre dell’Alto Adriatico sono oggetto di una reductio ad unum. Finora, in generale, la manualistica non è stata disposta ad accettare tale lettura banalizzante, preferendo un approccio più equilibrato, in particolare inquadrando gli avvenimenti del 1943 – 45 nel contesto del secondo conflitto mondiale e dell’occupazione nazifascista della Jugoslavia, con tutte le tragiche conseguenze di cui si è detto.
Nel frattempo si continuano a dare riconoscimenti agli ex combattenti di Salò, e perfino ai torturatori e criminali di guerra.
La legge istitutiva del “giorno del ricordo” prevede anche che ai superstiti e ai congiunti “fino al sesto grado” degli scomparsi in vario modo (nelle foibe, vittime di attentati, massacri, annegamento, ecc.) dal 1943 al 1947 venga consegnata una medaglietta e un diploma con la scritta “La Repubblica italiana ricorda”.
Secondo la legge istituiva, dal riconoscimento sono esclusi i caduti in combattimento e coloro che «facevano volontariamente parte di formazioni non a servizio dell’Italia»[217]. E visto che nel periodo 1943 – 1947 l’Italia era alleata dell’Unione sovietica, degli Stati uniti e dell’Inghilterra, e che i battaglioni di Ss italiane, come i membri della Milizia di difesa territoriale fascista, combattevano volontariamente sotto il comando nazista in una zona di fatto annessa al Terzo Reich, contro cui l’Italia era in guerra, sembrerebbe evidente che i loro congiunti “fino al sesto grado” non possano aspirare a questo riconoscimento. Tuttavia, come spesso accade quando si parla di fascismo in Italia, ciò che appare evidente scompare nel fumo della mistificazione.
Un articolo del «Corriere della sera» del 2015, rilevava che, tra i gli oltre trecento “premiati” dalla Repubblica, si trovavano anche cinque criminali di guerra:
«Il carabiniere Bergognini – era l’8 agosto 1942 – partecipò a un raid nell’abitato di Ustje, in Slovenia. Case incendiate, famiglie radunate nel cimitero, picchiate. Sino a che 8 uomini «vennero presi, torturati di fronte a tutti e uccisi con il coltello o con il fucile». Il finanziere Cucè spedì nei lager e fece fucilare «diversi patrioti antifascisti» torturando gente così come fecero l’agente Luciani e i militi Privileggi e Stefanutti. Testimonianze (che sono riferite ai loro reparti) raccontano di «occhi cavati, orecchie tagliate, corpi martoriati, saccheggi nelle case». Serrentino, tenente nella Grande guerra, fiumano con D’Annunzio, fece fucilare decine di persone nella città di Zara, di cui era prefetto. »[218]
A scorrere inoltre l’elenco completo dei beneficiari del provvedimento, che il ricercatore triestino Sandi Volk aggiorna annualmente, 381 in totale nel periodo che va dal 2006 al 2019, ultima data disponibile, ci si accorge che nella stragrande maggioranza, oltre il 95%, sono ex appartenenti alla Rsi[219] e trovano il loro riconoscimento negli albi ufficiali dei caduti e dispersi degli istituti storici repubblichini.
Se praticamente tutti i premiati della Repubblica appartenevano alle formazioni armate di Salò, cade anche la menzogna che l’Esercito di liberazione e i partigiani jugoslavi infoibassero gli italiani “solo in quanto italiani” e non in quanto fascisti o collaborazionisti.
Nonostante sia smentita dalle vicende storiche, dalle ricerche, e dalle testimonianze e non ci sia nessuna prova a sostegno, quella della “pulizia etnica” è diventata verità ufficiale ripetuta a più riprese persino dalle alte cariche dello Stato.
Benché brevemente, è interessante notare come il significato di questo concetto sia mutato nel corso degli anni nei discorsi dei Presidenti.
Nel 2006 il presidente Ciampi, in occasione della ricorrenza dichiarava che «L’odio e la pulizia etnica sono stati l’abominevole corollario dell’Europa tragica del Novecento, squassata da una lotta senza quartiere fra nazionalismi esasperati.»[220]
Una frase che, posta su un monumento di Monfalcone, venne violentemente contestata[221] dalle Associazioni degli esuli giuliano – dalmati, tanto da venire oscurata. Così che, l’anno successivo, Giorgio Napolitano, il primo ex comunista ad occupare la più alta carica dello Stato, correggeva il tiro, attribuendo questa sete di vendetta esclusivamente agli Slavi, provocando anche la protesta ufficiale della diplomazia slovena: «Vi fu dunque un moto di odio e di furia sanguinaria, e un disegno annessionistico slavo, che prevalse innanzitutto nel trattato di pace del 1947 e che assunse i sinistri contorni di una pulizia etnica»[222]
Nella ricorrenza del 2020, il Capo dello Stato non solo ha ripreso il concetto di “pulizia etnica” antiitaliana, ma è andato oltre, stigmatizzando le «sacche di negazionismo militante» e indicando la strada per la censura ai danni della ricerca indipendente[223]. Nel frattempo, una proposta di legge di Fratelli d’Italia, vorrebbe consegnare in via esclusiva alle associazioni degli esuli la facoltà di concedere spazi pubblici le quali, inoltre, dovrebbero essere «le sole coinvolte nell’elaborazione dei piani di formazione ed insegnamento nelle scuole, per garantire una testimonianza autentica di quegli accadimenti per troppo tempo occultati»[224].
A queste parole, che invitano alla censura e al controllo di Stato sulla ricerca storica, tanto da mettere in pericolo uno dei principi della Costituzione, che garantisce la libertà d’insegnamento e di ricerca, seguono gli attacchi politici e non solo. Se le amministrazioni di destra negano gli spazi pubblici agli storici che dissentono dal discorso martirologico sulle foibe, gruppi esplicitamente neofascisti si sentono legittimati a intervenire con la violenza per impedire gli interventi di ricercatori che non si adeguano alla vulgata neoirredentista.
Come denuncia l’Istituto Nazionale Ferruccio Parri:
«È in corso una indegna gazzarra da parte di elementi di destra e di estrema destra che prende a spunto le celebrazioni del giorno del ricordo. Queste persone attaccano qualsiasi interpretazione che non accetti una vulgata che si rifiuta di prendere in considerazione la politica di snazionalizzazione portata avanti durante il ventennio nelle zone del confine orientale non per giustificare, ma per spiegare quanto successo dopo la caduta del fascismo e durante la costruzione dello stato comunista jugoslavo. Si vuole imporre una versione ufficiale della tragedia delle foibe e di quella successiva dell’esodo dei giuliano fiumano dalmati sotto forma di genocidio degli italiani e con impropri e assurdi confronti con la Shoah. Chiunque operi la necessaria contestualizzaione di quanto successo sa che gli italiani furono perseguitati o in quanto ex fascisti, o perché identificati con le classi egemoni, o in quanto si opponevano alla costruzione dello Stato comunista, e non in quanto italiani.»[225]
Quanto il discorso neoirredentista sulle “foibe” sia strumentale alla contingenza politica è dimostrato da quanto segue: il sito specializzato pagellapolitica.it ha esaminato gli interventi dei maggiori esponenti politici italiani in occasione delle due giornate del 27 gennaio (giorno della memoria delle vittime della Shoah) e del 10 febbraio 2020, osservando che «oltre l’80 per cento dei contenuti social è dedicato alle foibe». In particolare, Matteo Salvini su 42 post in totale, ha dedicato 39 alle “foibe” e 3 alla Shoah; Giorgia Meloni rispettivamente 16 e 3; Silvio Berlusconi un solo post per le “foibe” e nulla sulla Shoah; Luigi Di Maio uno e uno; l’unico a dedicare più post alla Shoah (sette a quattro) è stato Nicola Zingaretti. I post di Salvini e Meloni seguono tutti lo stesso cliché, quello della “pulizia etnica” e l’attacco alla storiografia “negazionista”[226]. L’indifferenza della destra estrema al dramma dei sei milioni di ebrei e delle altre vittime della violenza nazista e l’utilizzo strumentale delle tragedie del Novecento, non potrebbe essere espressa in maniera più lampante.
Ha osservato Stuart Woolf, intervistato da Simonetta Fiori:
«Un uso pubblico della storia caratterizzato da «rozzezza», «superficialità» e «spregiudicatezza» non riscontrabili da altre parti. Severo dunque il giudizio sul neorevisionismo che assolve Mussolini o annacqua le differenze tra resistenti e repubblichini. Ma la sua «risonanza nel grande pubblico» non è fattore irrilevante; al contrario, è la spia di un qualcosa che già esisteva nel senso comune degli italiani, «un pensiero a lungo tenuto privato e comunque ignorato da politici e storici». è anche questa, secondo Woolf, «una conseguenza inavvertita della narrazione egemonica dell’antifascismo», ingenuamente fondata su una netta distinzione tra regime fascista e popolo italiano».[227]
Mentre per la destra politica le “foibe” sono parte dell’eterna campagna elettorale per attaccare e delegittimare l’avversario, con gli strumenti della censura, delle intimidazioni, fino all’aggressione fisica, non si nota finora una reazione da parte del mondo della scuola e dell’Università all’altezza della pesante e grossolana aggressione alla libertà di ricerca e di insegnamento, che proviene anche dalle alte cariche dello Stato.
Leggere Luigi Candreva su acro-polis:
4. Diritto alla verità
Falsificazione della storia e costruzione della postverità seguono identici percorsi metodologici, che si possono riassumere come segue.
Anzitutto, il falso deve agire su un piano prepolitico e metastorico in modo da prevenire qualsiasi disanima fattuale e fare leva su emozioni e sentimenti, che sostituiscono e impediscono un’analisi storica critica: i falsi Protocolli ebbero tanto successo perché si inserirono in un contesto culturale avvelenato da secoli di antisemitismo e sembravano la prova definitiva di ciò che l’opinione pubblica già “sapeva” inconsciamente; il falso “piano Kalergi” può avere qualche successo in un’opinione pubblica già preparata in decenni di stigmatizzazione dei migranti e di campagne di odio antislamico, oltre che nel sempre presente antisemitismo nelle società capitaliste avanzate; la demonizzazione della Resistenza e la questione delle “foibe” sono state preparate dal crollo del “comunismo” così come inteso nel Novecento, ovvero legato all’esperienza sovietica e della guerra fredda.
In secondo luogo, al posto delle fonti, che ovviamente un falso storico non può esibire, si sostituisce l’affermazione acritica e spesso il principio di autorità, nel migliore dei casi rappresentato dai testimoni, la cui memoria selettiva, quando non volutamente contraffatta, è garantita come documento incontestabile (è il caso dei libri di Pansa, di Frediano Sessi, o di tante narrazioni sulle “foibe”), nel peggiore il principio di autorità è fondato esplicitamente dal potere politico che tenta di imporre la propria verità, mediante la persecuzione di ogni voce dissenziente.
In terzo luogo agisce la decontestualizzazione e la personalizzazione, nella quale sono maestri i “rovescisti”, secondo la su ricordata espressione di Angelo D’Orsi: gli episodi vengono esposti al di fuori del contesto storico nel quale originano, in modo da privarli di senso. Se non si definisce il quadro storico di oltre vent’anni di oppressione nazionale nel quale matura l’insurrezione istriana del 1943, ad esempio, la violenza rivoluzionaria degli operai e dei contadini che si ribellano non si spiega se non con una furia cieca antiitaliana di una razza barbara. Il carnefice viene quindi trasformato in vittima. A questo fa da corollario il falso sillogismo induttivo, mediante il quale si punta la lente d’ingrandimento su un episodio particolarmente odioso ad esempio della Resistenza, per condannare l’intero fenomeno resistenziale. Gli episodi sono innumerevoli, dal “triangolo rosso” a Norma Cossetto. Decontestualizzata, la storia diventa cronaca nera.
La quarta caratteristica del falsificazionismo è la maggior riduzione possibile della complessità dei fenomeni, al fine da evitare la possibile decostruzione critica del mito: la storia è letta mediante un consolidato lessico sedimentato in altri ambiti, ricorrendo alla cifra del martirio, della sacralità, della fedeltà, dell’onore, facendo leva su paure ancestrali fomentatrici di odio e risentimenti.
Infine, bisogna ovviamente presentare il falso come la rivelazione di qualcosa che un non meglio precisato “potere”, tanto più indefinito quanto minaccioso, ha interesse a nascondere. I falsificatori non si arrendono all’evidenza che gli argomenti e le vicende che presentano come novità assolute siano stati già oggetto di una ampia storiografia precedente. Si oppongono a un vago “potere” perché intendono imporre il loro dominio, molto poco vago. Esigono che le loro affermazioni, come la stessa pretesa di una novità, siano accolte acriticamente, portando l’attacco ai loro critici non sul piano delle argomentazioni e del confronto democratico, che non riescono a sostenere, ma cercando di delegittimarli con gli attacchi “ad personam”[228]. Il verbo più usato, a questo proposito è “rivelare”, talvolta intercambiato con “svelare”. I Protocolli “svelano” il complotto ebraico, gli scopritori del “piano Kalergi” “svelano” le mire dei “poteri forti”, i libri di Pansa “rivelano” le verità scomode della Resistenza, a lungo tenute nascoste e la narrazione foibologica finalmente “illumina” dei fenomeni a lungo celati. In questo modo, la verità è sostituita da una narrazione postfattuale, che prescinde da qualsiasi esame scientifico. Tutte “rivelazioni” impenetrabili a una verifica critica.
Nel 1996, nel suo rapporto finale alla Commissione dei diritti dell’uomo, il relatore Louis Joinet, scriveva:
«Ogni popolo ha il diritto inalienabile di conoscere la verità sugli avvenimenti passati, così come sulle circostanze e le ragioni che hanno condotto, con la violazione massiccia o sistematica dei diritti dell’uomo, a perpetuare dei crimini aberranti. L’esercizio pieno ed effettivo del diritto alla verità è essenziale per evitare che in avvenire si riproducano questi atti. »[229]
Ne consegue il diritto alla memoria delle vittime e dei soprusi passati e il dovere dello Stato di permettere che questa memoria venga mantenuta in ossequio al diritto alla verità. La ricerca storica deve colmare le amnesie che l’uso politico del passato intende alimentare. Oltre che inalienabile, questo diritto è universale, ovvero riguarda tutti i popoli ed è complessivo e reciproco. Ma la ricerca della verità è un processo trasparente di confronto tra storici, che rendono esplicite le loro fonti e le sottopongono al giudizio del lettore e non ha nulla a che vedere con l’imposizione di una verità dall’alto, finalizzata all’affermazione di un sistema di dominio o alla ricerca di semplici e contingenti vantaggi elettorali.
Nelle parole di Rodotà:
«il risultato di un processo aperto di conoscenza, che lo allontana radicalmente da quella produzione di verità ufficiali tipica dell’assolutismo politico, che vuole proprio escludere la discussione, il confronto, l’espressione di opinioni divergenti, le posizioni minoritarie. La pienezza della conoscenza per tutti fonda la verità “democratica”. Ed è certo pessima per l’interesse generale una deliberazione fondata su informazioni ingannevoli o false. In democrazia la verità è figlia della trasparenza […] Le critiche degli storici non sono soltanto opportune nel segnalare i rischi per tutti di una “verità di Stato”, che può divenire strumento per la legittimazione di un’etica di Stato, e altro ancora.»[230]
La storia non giustifica né insegna né condanna. Il suo statuto epistemologico consiste nella ricostruzione del passato con la maggior esattezza possibile, in un processo di avvicinamento alla verità. Nella contestualizzazione storica degli episodi controversi ai quali si è fatto cenno non si intende giustificare nulla: la storia non impartisce insegnamenti morali né serve all’azione politica, ma consiste piuttosto in una ricostruzione dei fatti collocati nel quadro degli avvenimenti precedenti e coevi.
Il lavoro storico costituisce anche una palestra di democrazia perché «insegna a coltivare il dubbio e a verificare ogni affermazione sulla base di dati di fatto prima di prestarvi credito»[231].
«La verità – osserva Tzvetan Todorov, riprendendo Condorcet[232] – è al contempo nemica del potere e di coloro che lo esercitano» e prosegue:
«Il potere pubblico non deve trasmettere le proprie scelte camuffandole come verità. “Il suo compito è quello di proteggere tutta la forza della verità dall’errore, che è sempre un male pubblico; ma non ha il diritto di decidere in che cosa consista la verità, dove si trovi l’errore”. Esso deve rendere materialmente possibile il progresso della conoscenza, senza tuttavia metterlo in atto. Non spetta al popolo pronunciarsi su ciò che sia vero o falso, né al parlamento deliberare sul significato degli avvenimenti del passato, né al governo decidere che cosa bisogna insegnare a scuola.»[233]
Il senso dell’uso pubblico della storia dovrebbe dunque essere la massima diffusione del confronto democratico sulla ricostruzione, il più obiettiva possibile, del passato, senza implicazioni strumentali. E a questo proposito la politica dovrebbe favorire il processo della conoscenza. A chi usa la storia per fomentare odi e divisioni, Plutarco replicava: «la politica è ciò che toglie all’odio il suo carattere eterno»[234].
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Note
** G. Piovene, Prefazione a F. Dostoevskij, Romanzi e taccuini, Sansoni, Firenze, 1958, p. XX
[1] Su questo v. Luciano Canfora, Tucidide. La menzogna, la colpa, l’esilio, Laterza, Bari – Roma, 2016.
[2] E. H. Carr, Sei lezioni sulla storia, Einaudi, Torino, 1966, p. 12.
[3] B. Croce: «Il bisogno pratico, che è nel fondo di ogni giudizio storico, conferisce a ogni storia il carattere di “storia contemporanea”», in La storia come pensiero e azione, Laterza, Bari, 1938, p. 5.
[4] Cfr. R. G. Collingwood, The idea of History, Oxford University Press, Usa, 1994.
[5] F. Nietzsche, Frammenti postumi. 1885 – 1887, Adelphi, Milano 1975, p. 299 – 300.
[6] L’écume des jours , New Orleans, 1947.
[7] Per una sintetica carrellata, v. E. H. Carr, Sei lezioni sulla storia, cit.
[8] C. Ginzburg, Il filo e le tracce. Vero, falso, finto, Feltrinelli, Milano, 2006, p. 223.
[9] R. Bodei, Fine delle filosofie della storia?, in N. Gallerano (a cura), L’uso pubblico della storia, FrancoAngeli, Milano, 1995, p. 33 – 34.
[10] Qui si fa riferimento agli studi di E. Goffman, in particolare al fondamentale Frame Analysis, Northeastern Univeristy Prass, Boston, 1986. Si veda anche M. Cerulo, Sociologia delle cornici. Il concetto di frame nella teoria sociale di Erving Goffman, Luigi Pellegrino Editore, Cosenza, 2005. Per il concetto di frame applicato al discorso pubblico, v. G. Lakoff, Non pensare all’elefante. Come riprendersi il discorso politico, Chiarelettere, Milano, 2019.
[11] M. Fisher, Realismo capitalista, Nero, Roma, 2017, p. 37.
[12] N. Gallerano, Storia e uso pubblico della storia, introduzione a idem, p. 20 – 25.
[13] Cfr. L. Canfora, L’uso politico dei paradigmi storici, Laterza, Roma – Bari, 2014 (epub). Per le edizioni digitali in formato “epub” non è sempre possibile indicare la pagina, in quanto la numerazione dipende dai programmi di lettura e dalla formattazione dei caratteri adottati.
[14] Qui ci si riferisce alle due opere di Furet Critica della Rivoluzione Francese, Laterza, Roma – Bari, 1981 e Il passato di un’illusione. L’idea comunista nel XX secolo, Mondadori, Milano, 1995.
[15] L. Canfora, L’uso politico dei paradigmi storici, cit.
[16] L. Cajani, S. Lässig e M. Repoussi, The Palgrave Handbook of Conflict and History Education in the Post-Cold War Era, Palgrave Macmillan, 2019.
[17] A questi aspetti aveva dedicato un documentato saggio, nel 2005, G. Procacci, Carte d’identità. Revisionismi, nazionalismi e fondamentalismi nei manuali di storia, Carocci, Roma, 2005.
[18] Si veda, tra gli altri, anche il saggio di V. Gallina Il sapere storico come strumento didattico: processi di costruzione di identità a scuola, in N. Gallerano (a cura), L’uso pubbico … , cit.
[19] Il primo a coniare il termine post-truth è stato lo sceneggiatore serbo-americano Steve Tesich, in un articolo di «The Nation» nel gennaio 1992, a proposito della prima Guerra del golfo.
[20] M. Biffi, Viviamo nell’epoca della post-verità?, «Italiano digitale» 2017, 2, (luglio-settembre), pp. 72- 75, cui si rimanda anche per un’analisi lessicologica.
[21] Ibidem.
[22] D. Thompson, Counterknowledge. How we surrendered to conspiracy theories, quack medicine, bogus science and fake history, W. W. Norton & Company New York • London, 2008 (epub).
[23] Cfr. C. Ginzburg, Il filo e le tracce, cit. p. 223.
[24] N. Bourbaki, Questo chi lo dice? E perché?, 2018 (edizione digitale pdf, senza indicazione di pagine).
[25]https://www.repubblica.it/politica/2019/01/21/news/antisemitismo_il_senatore_m5s_lannutti_i_rothschild_dietro_i_protocolli_dei_savi_di_sion_-217129478/ (tutti i siti citati risultavano visibili l’11 luglio, tranne diversa indicazione).
[26] http://antimassoneria.altervista.org/wp-content/uploads/2015/09/Non-sai-nulla-e-cio-che-credi-di-sapere-e-falso.pdf (visitato il 30 aprile 2020, risulta oggi archiviato, il pdf è in possesso dell’autore).
[27] Va sottolineato che il senatore Lannutti non è un esponente dell’estrema destra, ma ha una storia di militanza nell’Italia dei Valori e nella federazione dei Verdi, prima di approdare al movimento 5 Stelle.
[28] V. R. Calimani, Storia dell’ebreo errante. Dalla distruzione del tempio di Gerusalemme al Novecento, Mondadori, Milano, 1987; in letteratura il mito dell’ebreo errante è stato affrontato in diversi contesti, a partire dal famoso romanzo di Eugene Sue, del 1844. Recentemente, Simonetta Falchi ha dedicato un saggio che analizza il mito nella letteratura, L’ebreo errante: gli infiniti percorsi di un mito letterario, FrancoAngeli, Milano, 2018.
[29] v. anche M. Battini, Il socialismo degli imbecilli. Propaganda, falsificazione, persecuzione degli ebrei, Bollati Boringhieri, Torino, 2010.
[30] W. Marr, Der sieg das Judenthum uber das Germanthum, Berna, 1879.
[31] Sarebbe impossibile ed esula dagli scopi del presente saggio citare la sterminata bibliografia sull’antisemtismo: si fornisce qualche titolo solo in via orientativa. Per l’antisemitismo in Inghilterra, v. A. Julius, Trials of the Diaspora. A History of Antisemitism in England, Oxford University Press, 2010; sulla Francia, v. Z. Sternhell, La destra rivoluzionaria, Corbaccio, Milano, 1997; sulla Russia e la Polonia, v. la monumentale opera pubblicata tra il 1918 e il 1920 da S. M. Dubnow (Simon Dubnow), History of the Jews in Russia and Poland,ed. Varda, New York; sull’antisemitismo tedesco v. P. Sorlin, L’antisemitismo tedesco, Mursia, Milano, 1970; L. Poliakov, Storia dell’antisemitismo in 4 volumi; sull’antisemitismo in Francia prima dell’affaire Dreyfus, v. anche B. Lazare, L’antisémistisme, son histoire et ses causes, Parigi, 1894.
[32] «Il procuratore del Santo Sinodo, Pobiedonostzev, tutore del nuovo zar e suo principale consigliere, dichiarò con cinismo che il problema ebraico poteva essere così risolto: un terzo degli ebrei si sarebbe convertito, un terzo sarebbe stato espulso, un terzo sterminato. Gli ebrei diventarono dunque un capro espiatorio per le difficoltà del regime. Agenti provocatori sobillarono la popolazione e la polizia assistette alle violenze senza reagire.», in R. Calimani, cit., p. 545.
[33] Su questa vicenda v. S. M. Dubnow, cit., vol. II, p. 430.
[34] Oggi Chișinău, capitale della Moldavia. Sul pogrom di Kišinëv, v. Semen. M. Dubnow, cit.,vol. III, p. 72 ss. Dubnow ricostruisce con dovizia di particolari il pogrom, sottolineando il ruolo dell’esercito e della locale Chiesa ortodossa.
[35] Ibidem.
[36] C. G. De Michelis, Il manoscritto inesistente. I «Protocolli dei savi di Sion», Marsilio, Padova, 2004, p. 18.
[37] Idem, pp. 15 – 26, anche pp. 300 – 302; anche N. Cohn, Licenza per un genocidio, Einaudi, Torino, 1969.
[38] H. Rollin, L’apocalypse de notre temps, Allia, Paris, 2005 p. 247 e 394; v. anche C. G. de Michelis, cit., p. 55. Altre date vengono fornite da Rollin. De Michelis procede ad un’accurata analisi filologica del testo, riprodotto in appendice del suo lavoro.
[39] C. G. De Michelis, cit., p. 63; sulle varie attribuzioni v. anche idem, pp. 99 – 115.
[40] U. Eco, Introduzione a Will Eisner, The Plot: The Secret Story of The Protocols of the Elders of Zion, Norton, New York, 2005, p. 2 , v. anche https://ricerca.repubblica.it/repubblica/archivio/repubblica/1999/11/20/il-falso-protocollo-di-sion-autore.html (visitato il 3 giugno 2020).
[41] Idem, p. 45.
[42] Per questa vicenda v. anche U. Eco, Sei passeggiate nei boschi narrativi, Bompiani, Milano, 1994 p. 169
[43] V. J. S. Waggoner, Introduzione a M. Joly, The Dialogue in Hell between Machiavelli and Montesquieu, Lexington Books, 2003, p. ix.
[44] M. Bounan, Lo Stato ritorto, in http://www.abbastanzanormale.it/materiali/BounanJoly.pdf , (visitato il 19 gennaio 2020). Questo testo è stato posto a prefazione del libro di Marcel Joly, Dialogue aux infers entre Machiavel et Montesquieu, Paris, 1991.
[45] S. M. Dubnow, cit. vol. III, p. 107.
[46] C. G. De Michelis, cit., p. 60.
[47] L’intera vicenda è ricostruita in H. Rollin, cit., p. 255 – 256: tra i contatti di Graves, corrispondente del «Times» da Istanbul, nel 1917 si trovava un vecchio aristocratico russo che si interessava della questione ebraica. Costui, colpito dai Protocolli, si pose alla ricerca di una qualche setta segreta ebraica che, nella Russia del sud, possieda le caratteristiche descritte nell’opera. “La ricerca è stata vana”, ibidem.
[48] Per una analisi comparativa dei testi di Joly e di Nilus, idem, p. 257 – 300. C’è da dire che Rollin lavora sul testo francese, mentre nel suo libro C. De Michelis ricostruisce il testo originale russo, pur giungendo alle stesse conclusioni. V. anche Carlo Ginzburg, Rappresentare il nemico. Sulla preistoria francese dei Protocolli, in Il filo e le tracce. Vero, falso, finto, Feltrinelli, Milano, p. 185 ss.
[49] Per questi aspetti v. A. Di Fant, La polemica antiebraica nella stampa cattolica romana dopo la breccia di porta pia in «Mondo contemporaneo», n. 1, 2007, pp. 87-118.
[50] H. Ford, The International Jew, Global Publishers, Johannesburg, 1947 p. 48.
[51] H. Rollin, cit. p. 654; Brasol è stato anche il primo editore americano dei Protocolli (1920).
[52] Citato in Cesare G. De Michelis, Il manoscritto inesistente …, cit. p. 163.
[53] http://www.reteccp.org/biblioteca/disponibili/guerraepace/potere/sion/sion67.html (visitato il 3 maggio 2020).
[54] I “protocolli” dei “savi anziani” di Sion, La vita italiana, Roma, 1938, p. VIII.
[55] Idem, p. VIII – IX, sottolineato nell’originale.
[56] N. Webster, Secret Societies and Subversive Movements, II parte, London, Boswell, 1924, p. 408 – 409.
[57] Per questi aspetti v. N. Levin, The Holocaust: The Destruction of European Jewry 1933-1945, Crowell, New York, 1968, oltre al classico e in qualche modo definitivo R. Hilberg, La distruzione degli Ebrei d’Europa, Einaudi, Torino, 1995.
[58] Michel Bounan, Lo Stato ritorto, cit.
[59] E. Webman, The Global Impact of the Protocols of the Elders of Sion, Routledge, New York and London, 2011; per l’impatto dei Protocolli v. anche M. Battini, Il socialismo degli imbecilli … cit.
[60] Luca Traini, ex candidato leghista nel 2017, sparò il 3 febbraio 2018 su un gruppo di africani a Macerata, ferendo 6 persone; Anders Breivik, con cui Tarrant dice di avere avuto dei contatti, il 22 luglio 2011 assaltò a colpi di mitra un meeting della gioventù socialdemocratica uccidendo 77 persone; Anton Lundin Pettersson, il 22 ottobre 2015, attaccò a colpi di spada una scuola a Trollhattan, in Svezia, uccidendo uno studente e un isegnante, prima di restare ucciso nel conflitto a fuoco che ne seguì con la polizia; Darren Osbourne è l’autore dell’uccisione di una persone e del ferimento di altri nove vicino alla moschea di Finsbury Park a Londra, il 19 giugno 2017.
[61] ed. D. Reinharc, Neuilly-Sur-Seine, 2011; a questo, tra gli altri testi di questo autore, segue un invito alla rivolta contro “la grande sostituzione”, Révoltez-vous. Nel gennaio 2020 Camus è stato condannato per istigazione all’odio razziale.
[62] U. Eco, Il fascismo eterno, La nave di Teseo, Milano, 2018 (epub).
[63] «Nelle scuole della mia Brescia, dopo il Gender, sono arrivati a imporre la stregoneria, ovviamente all’insaputa dei genitori. Appena insediato farò una interrogazione parlamentare su questa vergognosa vicenda», https://espresso.repubblica.it/attualita/2018/03/14/news/dopo-il-gender-e-allarme-streghe-la-battaglia-del-neosenatore-leghista-nelle-scuole-1.319535.
[64] https://www.splcenter.org/hatewatch/2019/03/27/anti-lgbt-hate-group-world-congress-families-convene-verona.
[65] R. Coudenhove – Kalergi, Pan-Europa. Un grande progetto per l’Europa unita, Il cerchio, Rimini, 1997, p. 19.
[66] Tra gli aderenti al movimento furono Albert Einstein, Sigmund Freud, Rainer Maria Rilke, Miguel de Unamuno, Salvador de Madariaga, Ortega y Gasset, Denis de Rougemont. Nel secondo dopoguerra, si annoverano personalità come Konrad Adenauer, Robert Schuman, Alcide De Gasperi e Winston Churchill.
[67] Per ogni ulteriore informazione http://www.coudenhove-kalergi-society.eu/.
[68] Arthur Rogers fu un militare inglese filonazista operativo tra le due guerre: v. M. Connolly, Hitler Munich Man, Pen&Sword Military, Barnsley, 2017, p. 46, ma anche N. Toczek, Haters Baiters and Would-be Dictators. Anti-Semitism and the UK Far Right, Routledge, London – New York, 2016 (epub).
[69] A. Rogers, Warburg and the Kalergi Plan, Steven Books, 2010. Originariamente pubblicato col titolo Power-crazy one wolders the negro invasion dalla rivista razzista «Free Britain», n. 158, luglio 1950 – p. 2.
[70] Da Renaud Camus in Francia, cit. al prete antisemita e antibergogliano Don Curzio Nitoglia, il cui blog è consultabile qui https://doncurzionitoglia.wordpress.com/ e altri.
[71] C. Gatti, I demoni di Salvini. I postnazisti e la Lega. La più clamorosa infiltrazione politica nella storia italiana, Chiarelettere, Milano, 2019 (epub).
[72] K. Popper, La società aperta e i suoi nemici, vol. II, Armando, Roma, 1973 – 1974, p. 125.
[73] G. Honsik, Rassismus Legal? Der Juden drittes Reich? Halt dem Kalergi – Plan! Eine Bittschcrift an die deuteschen Parlamente,Bright-Rainbow-Verlag, La Mancha, 2005, p. 12; Honsik ha subito due condanne per negazionismo in Austria, nel 1992 e nel 2009.
[74]https://www.lefigaro.fr/flash-actu/2010/06/30/97001-20100630FILWWW00476–sages-de-sion-premonitoire.php.
[75] C. Gatti, cit.; v. anche https://www.questionegiustizia.it/articolo/discriminazione-odio-razziale-e-apologia-del-genocidio_04-11-2013.php.
[76] C. Gatti, cit.
[77] E. Buonanno, Sarà vero. Falsi, sospetti e bufale che hanno fatto la storia, UTET, Milano, 2019 (epub).
[78] Ibidem.
[79] Secondo uno studio di TPI, il 66% delle fake news diffuse dai social provengono da profili di fan di Salvini e Meloni https://www.tpi.it/politica/informazione-social-bufale-follower-salvini-meloni-20191112494986/.
[80] Uno dei servizi della Gabbia del 19 marzo 2016 titolava: Il piano di Boldrini per la grande invasione, a questo indirizzo: https://www.youtube.com/watch?v=GOSnzox0mEQ.
[81] H. Grassegger, Come si crea un nemico in «l’Internazionale», 14 febbraio 2020, rintracciabile qui: https://www.internazionale.it/notizie/hannes-grassegger/2020/02/14/nemico-soros ; The Unbelievable Story of the Plot against George Soros, «Buzzfed News», 20 gennaio 2020, rintracciabile qui: https://www.buzzfeednews.com/article/hnsgrassegger/george-soros-conspiracy-finkelstein-birnbaum-orban-netanyahu.
[82] Peraltro creato a tavolino da due sondaggisti dello staff di Orbàn, ibidem.
[83] https://www.ilfoglio.it/politica/2017/07/16/news/m5s-grillo-antisemitismo-144674/.
[84]https://www.repubblica.it/cronaca/2018/06/29/news/msf_dopo_queste_misure_ogni_morte_in_mare_e_sulle_spalle_dell_europa_lunedi_a_malta_il_processo_a_carico_del_capitano_de-200353774/.
[85] https://www.ilgiornale.it/news/politica/meloni-soros-complice-piano-destrutturare-societ-1713380.html.
[86] Citato in A. M. Banti, Sublime madre nostra. La nazione italiana dal Risorgimento al fascismo, Laterza Bari – Roma, 2011, p. 164.
[87] https://secolo-trentino.com/2018/06/04/meloni-presenteremo-una-legge-in-parlamento-anti-soros/.
[88]Per la storia di Sayoc v. https://en.wikipedia.org/wiki/October_2018_United_States_mail_bombing_attempts.
[89]https://www.globalist.it/world/2018/10/28/gli-ebrei-sono-figli-di-satana-i-deliri-di-robert-bowers-il-razzista-di-pittsburgh-2032872.html.
[90] Originariamente pubblicato nel 2012, dalla neofascista Società editrice Barbarossa, riedito dall’antisemita Effedieffe nel 2016.
[91] Institute for Economics and Peace, Global Terrorism Index 2019, p. 4. Disponibile in http://visionofhumanity.org/app/uploads/2019/11/GTI-2019web.pdf.
[92] U. Eco, cit.
[93] La Repubblica, 28 settembre 2019; il video delle dichiarazioni del presidente di Forza Italia è qui: https://www.youtube.com/watch?v=Xnf6eBLexYY; v. anche S. Ferrari, da Salò ad Arcore. La mappa della destra eversiva, l’Unità, Roma, 2006.
[94] N. Gallerano, Crisi e critica del paradigma antifascista in «Problemi del socialismo», n. 7, 1986 p. 106 – 133.
[95] G. Corni, Fascismo. Condanne e revisioni, Salerno Editrice, Roma, 2011, p. 74 – 75.
[96] F. Focardi, La guerra della memoria. La Resistenza nel dibattito politico italiano dal 1945 ad oggi, Laterza, Roma – Bari, 2005.
[97] Di Renzo De Felice non si può non citare la monumentale opera in 8 volumi su Mussolini e i il fascismo scritti nell’arco di un trentennio, Mussolini il rivoluzionario (1965), Mussolini il fascista. La conquista del potere (1966), Mussolini il fascista. L’organizzazione dello Stato fascista (1968), Mussolini il duce. Gli anni del consenso (1974), Mussolini il duce. Lo Stato totalitario (1981), Mussolini l’alleato. L’Italia in guerra (1990, 2 voll.), Mussolini l’alleato. La guerra civile (1997) originariamente per Einaudi, e più volte ripubblicati. Tra i più significativi defeliciani, si possono citare E. Galli Della Logga, La morte della patria. La crisi dell’idea di Nazione fra Resistenza, antifascismo e Repubblica, Laterza, Roma – Bari, 1996; ma vedi anche il libro (in realtà una raccolta di articoli) dell’allievo di De Felice, F. Perfetti, La repubblica (anti)fascista. Falsi miti, mostri sacri, cattivi maestri, Le Lettere, Firenze, 2009.
[98] G. Rochat, Prefazione a M. Avagliano, M. Palmieri, Gli internati militari italiani, Einaudi, 2009, citato in G. Corni, cit. p. 81.
[99] Sulle quattro giornate di Napoli, v. il recente libro di G. Aragno, Le quattro giornate di Napoli. Storie di antifascisti, Intra Moenia, Napoli, 2019. Oltre a un appassionato racconto della resistenza napoletana, il libro di Aragno costituisce anche un’implicita smentita metodologica dell’opera defeliciana.
[100] P. Chessa e R. De Felice: Rosso e nero, Baldini e Castoldi, Milano 1995.
[101] R. De Felice, Breve storia del fascismo, Mondadori, Milano, 2001.
[102] M. Avagliano, M. Palmieri, L’Italia di Salò. 1943 – 1945, Il Mulino, Bologna, 2017 (epub).
[103] Per una critica al metodo di De Felice, v. N. Tranfaglia, La prima guerra mondiale e il fascismo (Vol. XXII della Storia d’Italia, a cura di Giuseppe Galasso), UTET, Torino, 1995, p. 669 – 673. Sulla repubblica di Salò, tra i tanti testi, v. anche G. Bocca, La repubblica di Mussolini, Mondadori, Milano, 1994 e T. Rovatti, Leoni vegetariani. La violenza fascista durante la Rsi, Clueb, Bologna, 2011; sulla partecipazione del regime nello sterminio degli ebrei v. S. Levis Sullam, I carnefici italiani, Feltrinelli, Milano, 2017; M. Franzinelli, Rsi. La repubblica del duce, Mondadori, Milano, 2007.
[104] F. Focardi, La guerra della memoria, cit. p. 68.
[105] S. Luzzatto, La crisi dell’antifascismo, Einaudi, Torino, 2004, p. 7 – 8.
[106] Federico Romero, citato da F. Focardi in La guerra della memoria, cit. p. 113.
[107] Ibidem.
[108] Anche per la bibliografia v. F. Filippi, Mussolini ha fatto anche cose buone. Le idiozie che continuano a circolare sul fascismo, Bollati Boringhieri, Torino, 2019.
[109] Sull’amnistia del 1946 v. M. Franzinelli, L’amnistia Togliatti. 22 giugno 1946: colpo di spugna sui crimini fascisti, Mondadori, Milano, 2006, ma v. anche, dello stesso autore, Le stragi nascoste. L’armadio della vergogna: impunità e rimozioni dei crimini di guerra nazifascisti, Mondadori, Milano, 2002, in particolare le pagine 121 ss.
[110] Citato in G. De Luna, La repubblica del dolore. Le memorie di un’Italia divisa, Feltrinelli, Milano, 2011 (epub).
[111] F. Germinario, L’altra memoria. L’estrema destra, Salò e la Resistenza, Bollati Boringhieri, Torino, 1999.
[112] A. Gioia, L’insegnamento della storia tra ricerca e didattica. Contesti, programmi manuali, Rubettino, Catanzaro, 2005, p. 88; A. Cajani, La storia del confine italo – jugoslavo a scuola, in «Italia contemporanea», settembre 2013, n. 173; v. anche S. Portelli, Non bruciate i libri che non leggete, «il Manifesto», 30 dicembre 2000.
[113] Casini: una storiografia da prima repubblica, in «La stampa», 13 novembre 2000.
[114] Berlusconi sulla scuola. Non ai testi marxisti, in «La repubblica», 13 novembre 2000.
[115] La mozione Garagnani si può consultare qui: http://www.sissco.it/articoli/la-storia-contemporanea-nelle-scuole-superiori-1345/strumenti-per-la-didattica-e-indagini-sulla-scuola-1424/risoluzione-garagnani-1427/.
[116] Consultabile qui: http://www.edscuola.it/archivio/esami/mat_03.html.
[117] https://www.corriere.it/Primo_Piano/Politica/2003/09_Settembre/11/berlusconi.shtml.
[118] Cidas e S. Ricossa (a cura), Breve corso di storia patria (ad uso dei non politicamente corretti), Leonardo Facco Editore, Treviglio, 2004.
[119] L. Cajani, S. Lässig e M. Repoussi, The Palgrave Handbook, cit. p. 309.
[120] Sul concetto di “totalitarismo” utilizzato nei manuali scolastici, v. G. Candreva, Il fascino discreto del totalitarismo. Libri di testo e categorie storiografiche, in «Zapruder» n. 13, maggio – agosto 2007, p. 130 – 137; più in generale, tra i vari studi, v. V. Giacché, La fabbrica del falso, DeriveApprodi, Roma 2011, in particolare il capitolo Totalitarismo: triste storia di un non concetto; ma anche S. Žižek, Did Somebody Say Totalitarianism?, Verso, London – New York, 2002.
[121] A. D’Orsi, Dal revisionismo al rovescismo. La Resistenza (e la Costituzione) sotto attacco, in A. Del Boca (a cura) La storia negata. Il revisionismo e il suo uso politico, Neri Pozza Bloom, Vicenza, 2009, p. 329.
[122] Ibidem.
[123] G. Pisanò, Storia della guerra civile in Italia, 1943 – 1945, FPE, Milano, 1965 – 66, Sangue chiama sangue, Pidola, Milano, 1962, Il triangolo della morte. La politica della strage in Emilia durante e dopo la guerra civile, Mursia, Milano, 1992; A. Serena, I giorni di Caino. Il dramma dei vinti nei crimini ignorati dalla storia ufficiale, Panda, Castelfranco Veneto, 2007.
[124] Per questi aspetti v. I. Rossini, Il sangue dei vinti e il caso Vezzalini. Omissioni, distorsioni e uso pubblico della storia, in «Giornale di storia contemporanea», n. 2, 2008.
[125] N. Gallerano, Critica e crisi del paradigma antifascista, cit. p. 108.
[126] G. Pansa, L’esercitò di Salò, Mondadori, Milano, 1970, p. 278.
[127] G. Pansa, Il sangue dei vinti, Sperling&Kupfer, 2003, p. 96 ss.
[128] I. Rossini, cit., ha trattato il caso Vezzalini, v. anche G. Candreva, La storiografia à la carte di Giampaolo Pansa, in «Zapruder», n. 39, gennaio – aprile 2016.
[129] A. D’Orsi, cit. p. 343; per una simile sorte riservata a Mussolini, v. nello stesso volume, il saggio di M. Franzinelli, Mussolini, revisionato e pronto per l’uso, p. 203 – 235.
[130] Significativamente uno dei romanzi di Pansa è La grande bugia. Qui tuttavia interessa più che altro indagare i meccanismi divulgativi del revisionismo pansiano, non tanto smascherarne la presunta “novità”, per i quali aspetti si rimanda a M. Dondi, La lunga liberazione. Giustizia e violenza nel dopoguerra italiano, Editori Riuniti, Roma, 1999. Sulle stesse vicende, v. anche M. Storchi, Il sangue dei vincitori. Saggio sui crimini fascisti e i processi del dopoguerra (1945 – 46), Aliberti editore, Roma, 2008. Per un’estesa bibliografia degli storici che si sono occupati degli avvenimenti che nel secondo dopoguerra hanno interessato parte del nord dell’Italia, si rimanda al saggio di Ilenia Rossini, cit. p. 143n.
[131] S. Peli, Riflessioni sparse su un grande successo editoriale, «Terra d’Este», n. 25, 2003.
[132] N. Labanca, Introduzione, a A. Del Boca, I gas di Mussolini. Il fascismo e la guerra d’Etiopia, Editori Riuniti, Roma, 2007, p. 14.
[133] A. M. Banti, Sublime madre nostra, cit. p. 154.
[134] E. Bignami, Cos’è il fascismo. Saggio premiato nel decennale della rivoluzione., Milano, 1935, p. 48.
[135] Ibidem.
[136] A. Del Boca, Italiani, brava gente? Neri Pozza, Vicenza, 2010, p. 4.
[137] Secondo le stime più accurate, l’occupazione italiana in Libia ha prodotto circa 100.000 vittime, su una popolazione di 800.000 persone; in Etiopia secondo il governo etiope le vittime furono circa 500.000, anche se stime più accurate (Del Boca) ne considerano circa 300.000. Per una bibliografia non esaustiva sul colonialismo italiano, v. di G. Rochat Militari e politici nella preparazione della campagna d’Etiopia. Studio e documenti, FrancoAngeli, Milano, 1971; di A. Del Boca, si ricordano soprattutto Gli italiani in Africa orientale, in quattro volumi, che ha conosciuto diverse edizioni presso Laterza e poi Mondadori, ma anche Le guerre coloniali del fascismo, Laterza, Roma – Bari, 1991 e Gli italiani in Libia, Mondadori, Milano, 1997 Di N. Labanca si ricordano essenzialmente Oltremare. Storia dell’espansione coloniale italiana, Il Mulino, Bologna, 2002, La guerra di Libia, 1911 – 1931, Il Mulino, Bologna, 2011, La guerra d’Etiopia. 1935 – 1941 Il Mulino, Bologna, 2015; di M. Dominioni, Lo sfascio dell’impero. Gli italiani in Etiopia 1936 – 1941, Laterza, Roma – Bari, 2008; di L. Goglia, Il colonialismo italiano da Adua all’impero, Laterza, Roma – Bari, 1981; di G. P. Calchi – Novati e P. Valsecchi, Africa: la storia ritrovata. Dalle prime forme politiche alle indipendenze nazionali, Carocci, Roma, 2005, ma anche i numerosi articoli e saggi apparsi in riviste e opere collettanee, che è impossibile citare estesamente; E. Salerno, Genocidio in Libia. Le atrocità dell’avventura coloniale italiana (1911 – 1931), SugarCo, Milano, 1978; tra le varie opere di R. Rainero, v. essenzialmente Il colonialismo, Le Monnier, Firenze, 1978, Il risveglio dell’Africa nera, Laterza, Bari, 1960, Colonialismo e decolonizzazione nelle relazioni italo – francesi, Società toscana per la storia del Risorgimento, Firenze, 2001; C. Zaghi, L’Africa nella coscienza europea e l’imperialismo italiano, Guida, Napoli, 1973; Renato Mori, Mussolini e la conquista dell’Etiopia, Le Monnier, Firenze, 1978; G. Rossi, L’Africa italiana verso l’indipendenza, Giuffré, Milano, 1980; L. Ceci, Il papa non deve parlare, Laterza Roma – Bari, 2010; F. Cresti e M. Cricco, Storia della Libia contemporanea. Dal dominio ottomano alla morte di Gheddafi, Carocci, Roma, 2012.
[138] Secondo l’Unrra e la Croce rossa internazionale, le vittime dell’occupazione nazifascista della Grecia furono in totale 620.000, v. D. Conti, L’occupazione italiana dei Balcani. Crimini di guerra e mito della “brava gente”, Odradek, Roma, 2008, p. 189.
[139] Gli italiani richiesti dalla Jugoslavia, fin dal febbraio del 1945, erano circa 700. M. Palumbo, L’olocausto rimosso. I crimini di guerra italiani in Africa e nei Balcani, Rizzoli, Milano, 1992.
[140] A. Del Boca, Italiani brava gente?, cit.; secondo un’inchiesta delle Iene, militari italiani non erano estranei alle torture ai danni di prigionieri iracheni nella base militare di White Horse, http://www.rainews.it/dl/rainews/articoli/Un-militare-confessa-Gli-italiani-torturavano-a-Nassiriya-de7c29fc-6ede-4cc8-81b1-0b222ff26570.html?refresh_ce.
[141] https://it.aleteia.org/2018/08/16/indro-montanelli-elvira-banotti-violenza-bimba-12-anni-africa/; video disponibile in https://www.youtube.com/watch?v=N_2xZWu_Ak8 rispondendo a una lettrice, dalle pagine del «Corriere della sera» del 12 febbraio 2000, Montanelli dichiara anche le sue difficoltà ad «avere un rapporto sessuale», non per remore morali o d’altro tipo, ma perché la ragazza era infibulata (problema risolto dalla madre, per la gioia del tenente italiano) e «puzzava di sego di capra».
[142] Comitato per la documentazione dell’opera dell’Italia in Africa, L’Italia in Africa, Istituto Poligrafico dello Stato, Roma, 1955 – 1974. Per un’analisi critica di quest’opera, v., tra gli altri, A. M. Morone, I custodi della memoria, in «Zapruder», n. 23, settembre – dicembre 2010; sullo stesso numero della rivista, v. anche C. Ottaviano, Riprese coloniali e G. Stefani, Eroi e antieroi coloniali, ma anche G. Leoni e A. Tappi, Pagine perse, sui manuali scolastici del dopoguerra.
[143] F. Saini Fasanotti, Etiopia 1936 – 1940. Le operazioni di polizia coloniale nelle fonti dell’esercito italiano,
Stato maggiore dell’esercito – Ufficio storico, Roma, 2010: dall’introduzione del generale Montanari: “Mancò, lo si è detto, il tempo per raggiungere la pacificazione: ma – riferisce con inconsueta onestà intellettuale l’Autrice – in quello stesso periodo, ancorché breve, l’iniziativa italiana trovò il modo di realizzare in Etiopia … una rete stradale e ferroviaria di base, l’impianto urbano delle maggiori città, villaggi, ospedali, ambulatori, scuole, chiese per tutte le confessioni, la scolarizzazione dei giovani, il tentativo di modernizzare l’agricoltura.”
[144] Prodotto nel 1981, censurato perché ritenuto lesivo dell’onore dell’esercito italiano; alcune proiezioni private vennero addirittura interrotte dalla Digos, come a Trento nel 1987. Si è potuto proiettare liberamente solo dal 2009.
[145] La Rai acquistava i diritti per il filmato nel 1990, ma non l’ha mai mandato in onda. Qualche spezzone è stato trasmesso da La7, soltanto nel 2004. Oggi, una versione di History Channel è visibile qui: https://www.youtube.com/watch?v=2IlB7IP4hys (sito visitato il 24 maggio 2020).
[146] P. Palumbo, (ed.), A place in the sun. Africa in Italian Colonial culture from post – unification to the present, University of California Press, Berkeley and Los Angeles – London, 2003, p. 11; sulle nostalgie coloniali si veda anche Angelo Del Boca, Nostalgia delle colonie, Mondadori, 2001; ma anche Nicola Labanca, Perché ritorna la “brava gente, in Angelo Del Boca (a cura) La storia negata, cit., p. 76 ss.
[147] Idem, p. 94.
[148] Qui la registrazione dell’intero convegno: http://www.radioradicale.it/scheda/44063/dalla-fine-della-jugoslavia-al-ritorno-dellitalia-in-istria-fiume-e-dalmazia.
[149] Quando Fini sognava Istria e Dalmazia, «Limes» disponibile qui: https://www.limesonline.com/cartaceo/quando-fini-sognava-istria-e-dalmazia?prv=true.
[150] G. Franzinetti, La riscoperta delle foibe, in Jože Pirjevec, Foibe. Una storia d’Italia, Einaudi, Torino, 2009, p. 320.
[151] Qui il testo della proposta del 1995: https://www.camera.it/_dati/leg12/lavori/stampati/pdf/56004.pdf.
[152] Luigi Papo di Montona, Albo d’Oro. La Venezia Giulia e la Dalmazia nell’ultimo conflitto, Unione degli istriani, Udine, 1989.
[153] Citato in C. Cernigoi, Operazione “foibe” tra storia e mito, KappaVu, Udine, 2005, p. 84.
[154] Citato in Idem, p. 85.
[155]Il testo della relazione ufficiale si può leggere qui: http://aestovest.osservatoriobalcani.org/documenti/Relazione_CommMista_italo-slovena.pdf?fbclid=IwAR3WuqjervYXR8svMKtnZU-vm0TCyMcw2JYY9cavIeNl62vvQCZWj7u_ETo.
[156] Ibidem.
[157] La stampa, 18 aprile 2002.
[158] Il termine è di A. Kersevan, La malastoriografia. Esempi nella storia del confine orientale, in Cesp, Revisionismo storico e terre di confine. Atti del corso di aggiornamento. Trieste 13 -14 marzo 2006, KappaVu, Trieste 2006, p. 175 – 195.
[159] Per una attenta disanima dell’infondatezza di questa malastoriografia v., oltre a ibidem, anche C. Cernigoi, Operazione ‘foibe’… cit., p. 79 ss.; della stessa autrice Foibe, tra storia e propaganda, in Aa. Vv. Foibe. La verità contro il revisionismo storico. Atti del convegno. Sesto San Giovanni, 9 febbraio 2008, KappaVu, Udine 2008; vale la pena sottolineare che tutti i nomi citati transitano nell’area dell’estrema destra, tra formazioni neofasciste e Lega nord.
[160] Per il dibattito parlamentare v. F. Tenca Montini, Fenomenologia di un martirologio mediatico. Le foibe nella rappresentazione pubblica dagli anni Novanta ad oggi, KappaVu, Udine, 2014, p. 90 – 94.
[161]http://www1.adnkronos.com/Archivio/AdnAgenzia/2004/02/08/Politica/FOIBE-GASPARRI-RICORDARE-TUTTI-GLI-ORRORI-DELLA-STORIA_110100.php; persino il giornale ufficiale di Casapound, riprendendo Papo, è costretto ad ammettere che il numero delle vittime accertate nelle foibe carsiche nel periodo 1943 – 45 è di circa un migliaio di persone: https://www.ilprimatonazionale.it/politica/quanti-furono-i-morti-delle-foibe-5300/.
[162] Per le quali vicende si rimanda, anche per la bibliografia all’articolo di B. Gombač, La patria cercata. La nascita della coscienza nazionale negli slavi del Sud, in «Zapruder», n. 15, gennaio – aprile 2008, p. 23 – 41; per un’analisi più approfondita v. AA. VV., Dall’Impero austro-ungarico alle foibe. Conflitti nell’area alto-adriatica, Bollati Boringhieri, Torino, 2009; D. Darovec, Breve storia dell’Istria, Forum, Udine, 2010.
[163] https://anpicatania.wordpress.com/2011/02/10/brunello-mantelli-gli-italiani-nei-balcani-1941-1943/ (visitato il 1 giugno 2020).
[164] Citato in A. Kersevan, Lager italiani. Pulizia etnica e campi di concentramento fascisti per civili jugoslavi. 1941 – 1943, Nutrimenti, Roma, 2008, (epub).
[165] M. Cattaruzza, L’Italia e il confine orientale, Il Mulino, Bologna, 2007, p. 141 – 146.
[166] M. Pacor, Confine orientale. Questione nazionale e Resistenza nel Friuli Venezia Giulia, Feltrinelli, Milano 1964, p. 107.
[167] Idem, p. 167 – 168.
[168] Riportato nel «Manifesto», 5 febbraio 2014.
[169] E. Collotti, Sul razzismo antislavo, in Alberto Burgio, Nel nome della razza. Il razzismo nella storia d’Italia 1870 – 1945, Il Mulino, Bologna, 1999, p. 54.
[170] Citato in S. Bartolini, Fascismo antislavo. Il tentativo di “bonifica etnica” al confine nor orientale, I.S.R.Pt editore, Pistoia, 2006 p. 123, al quale si rimanda anche per tutta la documentazione relativa a questa questione.
[171] Raoul Pupo, Trieste ’45, Laterza, Roma – Bari, 2010, p. 9; v. anche R. Wörsdörfer, Il confine orientale. Italia e Jugoslavia dal 1915 al 1955, Il Mulino, Bologna 2009, pp. 122 – 133.
[172] Sul biennio di occupazione della Slovenia, v. anche K. Ruzicic-Kessler, Il fronte interno. L’occupazione italiana della Slovenia 1941 – 1943, in Percorsi srorici. Rivista di storia contemporanea, n. 3, 2015.
[173] G. Rochat, Le guerre italiane 1935 – 1943. Dall’impero d’Etiopia alla disfatta, Einaudi, Torino, 2005, p. 360.
[174] https://www.corriere.it/cultura/12_luglio_17/stajano-vendetta-fascista-testa-per-dente_4a076aec-d008-11e1-85ae-0ea2d62d9e6c.shtml?refresh_ce-cp; su questi episodi cfr. anche la bibliografia in nota 417.
[175] M. Pacor, Confine orientale…, cit. p. 162.
[176] G. Scotti, Quando gli italiani fucilarono tutti gli abitanti di Podhum, in «Patria indipendente», 19 febbraio 2012, p. 27 – 34.
[177] Cfr. A. Kersevan, Lager italiani… cit., per i campi fascisti v. anche G. Marchitelli, Campi fascisti. Una vergogna italiana, Jaca Book, 2020; C. Spartaco Capogreco, I campi del Duce. L’internamento civile nell’Italia fascista (1940-1943), Einaudi, 2019; per i campi di internamento in epoca fascista, ci si può anche riferire al sito: campifascisti.it, v. anche https://www.lincontro.news/crimini-fascisti-in-jugoslavia-la-strage-di-podhum/.
[178]https://anpicatania.wordpress.com/2011/02/10/brunello-mantelli-gli-italiani-nei-balcani-1941-1943/ (visitato il 26 maggio 2020); si tratta della traduzione di Die Italiener auf dem Balkan 1941-1943, pubblicato in C. Dipper, L. Klinkhammer e A. Nützenadel (a cura), Die Italiener auf dem Balkan 1941-1943, Europäische Sozialgeschichte. Festschrift für Wolfgang Schieder, Duncker & Humblot, Berlin, 2000, pp. 57 – 74. Sulla guerra di Mussolini nei Balcani, ormai esiste una storiografia consolidata e omogenea nelle vicende e nei risultati acquisiti. Senza alcuna pretesa di completezza, si citano G. Rochat, Le guerre italiane…, cit.; D. Conti, L’occupazione italiana dei Balcani, cit., G. Oliva, Si ammazza troppo poco. I crimini di guerra italiani. 1940 – 1943, Mondadori, Milano, 2006; P. Brignoli, Santa messa per i miei fucilati, Longanesi & Co., Milano 1973; C. Di Sante (a cura di), Italiani senza onore. I crimini in Jugoslavia e i processi negati (1941-1951), Ombre Corte, Verona 2005; T. Ferenc «Si ammazza troppo poco». Condannati a morte, ostaggi, passati per le armi nella Provincia di Lubiana. 1941-1943, Inštitut za novejšo zgodovino – Društvo piscev zgodovine NOB, Ljubljana, 1999; E. Gobetti, L’occupazione “allegra”. Gli italiani in Jugoslavia (1941-1943), Carocci, Roma 2007; Id. E. Gobetti, Alleati del nemico. L’occupazione italiana in Yugoslavia (1941-1943) Laterza, Bari – Roma, 2013; G. Scotti, I massacri di luglio. La storia censurata dei crimini fascisti in Jugoslavia, Red Star Press, 2017; Id. “Bono taliano”. Militari italiani in Jugoslavia dal 1941 al 1943: da occupatori a “disertori” Odradek, Roma, 2017.
[179] R. Pupo, Trieste ’45, cit. p. 11.
[180] Un opuscolo nazista, diffuso a partire dal 1943, Ecco il conto!, parla di “oltre cento vittime” estratte dalle cavità carsiche nel periodo dell’insurrezione del 1943, fonti successive, sempre di ispirazione neofascista, parlano di 349 “infoibati”, idem, p. 64.
[181] Le macabre foibe istriane, citato in J. Pirjevec, Foibe. Una storia d’Italia, cit. p. 61.
[182] https://www.wumingfoundation.com/giap/2019/01/fantasy-norma-cossetto-2-cosa-sappiamo/.
[183] Ibidem.
[184] L’esempio più indicativo di una storiografia sciatta sulla questione è rappresentata dl testo di Raoul Pupo e Roberto Spazzali, che a pagina 2 includono tra gli “infoibati” alcune migliaia di vittime della repressione jugoslava contro gli occupanti nazifascisti e gli oppositori politici, in una voluta operazione di disinformazione, mentre a pagina 30, citando l’ex sindaco di Trieste Gianni Bartoli, riportano in 4122 le vittime “comprendendo anche persone scomparse per cause belliche”. R. Pupo e R. Spazzali, Foibe, Bruno Mondadori Editore, Milano.
[185] La cifra di meno di circa 400 vittime durante l’insurrezione del 1943 è generalmente accettata dagli storici, anche se Pupo e Spazzali fissano tra le 500 e le 700 le vittime delle insurrezioni istriane del 1943, idem; Per ciò che riguarda le vittime del 1945, lo stesso Spazzali, in altra pubblicazione, scrive: «Il numero di coloro che vennero effettivamente eliminati subito e gettati nelle foibe nel 1945 (morti o vivi che fossero), è relativamente basso, probabilmente inferiore al migliaio», in Le vicende del confine orientale ed il mondo della scuola (Studi e documenti degli annali della Pubblica istruzione) Le Monnier – Firenze 2010, p. 45; mentre Claudia Cernigoi, Operazione foibe …, p. 270 ss., mediante un minuzioso lavoro di controllo delle fonti è risalita a circa 500 scomparsi da Trieste nel periodo dal 1 maggio al 12 giugno 1945; un dato che corrisponde, del resto, a quanto scriveva «Trieste sera» il 4 febbraio 1948 e ad altre fonti coeve, tutte riportate dal testo di Cernigoi. Mario Pacor, che riporta dati della Croce rossa italiana, v. p. 331; v. anche Cernigoi, Il pozzo artificiale. La questione foibe tra ricerca e uso pubblico, in «Zapruder» n. 15, cit. p. 45 – 57; J. Pirjevec, Foibe, cit. parla di circa 2500 vittime nel 1945.
[186] C. Cernigoi, Operazione “foibe”…, cit. a p. 271 – 285: pubblica l’elenco degli scomparsi da Trieste.
[187] M. Pacor, Confine orientale …, p. 331.
[188] C. Cernigoi, Foibe. La verità contro il revisionismo storico, in Aa. Vv., Foibe, revisionismo di Stato e amnesie della Repubblica, Kappa Vu, Udine, 2008 p. 82.
[189] Come la banda Steffé e altri, v. Mario Pacor, Confine orientale …, cit. p. 332.
[190] M. Pacor, Idem, p. 330 – 331.
[191] E. Gobetti, La Resistenza dimenticata. Partigiani italiani in Montenegro (1943 – 1945), Salerno Editrice, Roma, 2019; si vedano anche i due corposi volumi, di L. Viazzi, La resistenza dei militari italiani all’estero. Montenegro, Sangiaccato, Bocche di Cattaro e L. Viazzi e Leo Taddia, La resistenza dei militari italiani all’estero. La divisione «Garibaldi» in Montenegro, Sangiaccato, Bosnia – Erzegovina, ambedue edite dalla «Rivista Militare», Ministero della Difesa, Roma, 1994, per complessive 1660 pagine.
[192] V. intervista a G. Scotti, in https://www.pane-rose.it/files/index.php?c3:o4333.
[193] R. Pupo, Trieste ’45, cit. p. 202.
[194] Cfr. C. Cernigoi, Operazione “foibe”, cit. p. 79 ss, e J. Pirjevec, Foibe, cit. p. 63 per i dettagli.
[195] Per cui si rimanda a J. Pirjevec, Foibe, cit. p. 132; C. Cernigoi, Operazione “foibe”, cit. p. 79. Cernigoi riporta in appendice anche copia della documentazione delle varie esplorazioni della “foiba”, alla quale senz’altro si rimanda.
[196] Per i quali si rimanda a Pol Vice, La foiba dei miracoli. Indagine sul mito dei “sopravvissuti”, KappaVu, Udine, 2008, con ampia documentazione riprodotta.
[197] J. Pirjevec, Foibe… cit., p. 118 e 133; sull’inconsistenza della ricostruzione postfascista del dopoguerra, v. anche G. Bajc, Gli angloamericani e le “foibe”, in Id. p. 299 – 318.
[198] C. Columni e al.: Storia di un esodo. Istria 1945 – 1956, Istituro regionale per la storia del movimento di liberazione nel Friuli Venezia – Giulia, Trieste, 1980; si considerino anche G. Fogar, Sotto l’occupazione nazista nelle provincie orientali, Del Bianco, Udine, 1961; T. Sala, La crisi finale nel litorale adriatico: 1944-1945, Del Bianco, Udine, 1962; E. Maserati, L’occupazione jugoslava di Trieste: maggio-giugno 1945, Del Bianco, Udine, 1963; E. Apih, Italia, fascismo e antifascismo nella Venezia Giulia, 1918-1943: ricerche storiche, Laterza, Bari, 1966.
[199] http://www.marcelloveneziani.com/articoli/accogliete-la-patria-nella-costituzione/.
[200] E. Bignami, Cos’è il fascismo … cit. p. 42; uno dei bersagli polemici dell’opuscolo di Bignami è la difesa dei diritti individuali, diffusa in epoca illuminista.
[201] M. Veneziani, La cultura della destra, Laterza, Bari – Roma, 2002, p. 102.
[202] Come il convegno di Verona, al quale si è fatto riferimento nel paragrafo precedente.
[203] L. Cajani, La storia del confine …, cit. p. 578.
[204] M. Veneziani, La cultura della destra, cit. p. 102.
[205] Direzione centrale Istruzione ed edilizia scolastica della Provincia di Milano, Là dove nacque l’Italia, De Agostini, Novara, 2004, p. 122.
[206] Direzione Generale per gli Ordinamenti Scolastici e per l’Autonomia Scolastica (a cura) Le vicende del confine orientale ed il mondo della scuola, Le Monnier, Firenze, 2010.
[207] Sul sito http://www.scuolaeconfineorientale.it/enti.php si trova l’elenco delle iniziative congiunte delle Associazioni di esuli e del Miur.
[208] F. Tenca Montini, Confini stridenti. Nazionalismo antislavo e giorno del ricordo, in «Zapruder» n. 36, gennaio – aprile 2015, p. 126; v. anche G. Candreva, La verità nel pozzo, in Pol Vice, La foiba dei miracoli, cit. p. 241 ss.
[209] Per un’analisi approfondita del film v. https://www.wumingfoundation.com/giap/2019/01/fantasy-norma-cossetto-1-red-land/#sovranismo%20e%20 https://www.wumingfoundation.com/giap/2019/01/fantasy-norma-cossetto-2-cosa-sappiamo/; anche E. Miletto in http://www.novecento.org/uso-pubblico-della-storia/rosso-istria-un-mese-dopo-3646/ (visitato il 1 giugno 2020).
[210] Per questi aspetti di analisi si rimanda a L. Accati e R. Cogoy (a cura), Il perturbante nella storia. Le foibe. Uno studio di psicopatologia della ricezione storica, QuiEdit, Verona, 2010.
[211] Per una disanima del fumetto v. http://www.novecento.org/uso-pubblico-della-storia/considerazioni-su-un-fumetto-sulle-foibe-6132/.
[212] F. Sessi, Foibe rosse. Vita di Norma Cossetto, uccisa in Istria nel ’43, Marsilio, Venezia, 2007 (epub).
[213] C. Cernigoi. Operazione foibe …, cit. p. 146 – 147; J. Pierjevec, Foibe. .., cit. p. 54 – 55; sulla vicenda di Norma Cossetto, ricostruita attraverso uno scrupoloso confronto delle fonti disponbili, v. http://www.diecifebbraio.info/wp-content/uploads/2012/01/CasoNormaCossetto.pdf.
[214] Ibidem.
[215] C. Cernigoi, Operazione foibe .., cit. p. 146.
[216] F. Sessi, Foibe rosse … cit., capitolo Lampi di verità sulla vita di Norma? (epub).
[217] S. Volk, Cosa ricorda la repubblica? In Foibe. Revisionismo di Stato e amnesie .. , cit. p. 143.
[218] A. Fulloni, Foibe, 300 fascisti di Salò ricevono la medaglia per il Giorno del Ricordo, «Corriere della sera», 23 marzo 2015.
[219] Qui l’elenco completo, con i riscontri: http://www.diecifebbraio.info/wp-content/uploads/2019/11/premiati-2019-381.pdf .
[220] F. Tenca Montini, Fenomenologia di un martirologio mediatico … , cit. p. 194.
[221] Idem, p. 160.
[222] Anche per un’analisi più approfondita del discorso di Napolitano, v. idem p. 141 ss. In appendice, i discorsi dei Presidenti della Repubblica, dal 2006 al 2012.
[223] https://www.quirinale.it/elementi/44205.
[224] http://temi.repubblica.it/micromega-online/la-questione-foibe-e-la-storia-governativa/.
[225] L’intero comunicato, con le opinioni, può essere letto in http://www.reteparri.it/.
[226] https://pagellapolitica.it/blog/show/607/sui-social-i-politici-parlano-delle-foibe-molto-pi%C3%B9-che-della-shoah.
[227] S. Fiori, La storia non siamo noi, «Repubblica», 18 ottobre 2005.
[228] Esempi sono gli attacchi di cui sono quasi quotidianamente oggetto i ricercatori e ricercatrici. Ma l’esempio forse più indicativo di questo metodo è il libro di Pansa, I gendarmi della memoria, Sperling&Kupfer, 2007: un testo zeppo di aneddoti insignificanti e tentativi di ridicolizzare i critici del giornalista.
[229] L’ADMINISTRATION DE LA JUSTICE ET LES DROITS DE L’HOMME DES DETENUS, Question de l’impunité des auteurs des violations des droits de l’homme (civils et politiques) Rapport final établi par M. L. Joinet, en application de la décision 1996/119 de la Sous-Commission, p. 17.
[230] S. Rodotà, Diritto alla verità, in Giorgio Resta e Vincenzo Zeno-Zencovich (a cura), Riparare, risarcire, ricordare, Editoriale Scientifica, Napoli, 2012, p. 510 – 513.
[231] N. Bourbaki, Questo chi lo dice e perché …
[232] T. Todorov, Lo spirito dell’illuminismo, Garzanti Milano, 2015 (epub ), p. 51.
[233] Ibidem.
[234] Consigli ai politici (epub).