La sorpresa è l’elemento principale, l’insolito la nostra forza e l’originalità il nostro ideale. Buster Keaton
Il cinema lo ha fin da subito trasformato in gag vuoi “spontaneamente” come ne L’arroseur arrosé (1895) dei Lumière, o, il più delle volte, forzando una situazione dove la sorpresa risulta decisiva per far scaturire l’effetto comico dello stupore. Sul piano narrativo, tra attesa e disattesa, è quasi sempre un’improvvisazione a provocare il deragliamento del senso e a rendere esilarante la situazione. Un fragile equilibrio spezzato dall’imprevisto, dall’equivoco, dall’assurdo, vuoi sul piano fisico (dalla pantomima, dal clown, dal difetto fisico), vuoi come discorso o gioco di parole (motto, battuta, lazzo, nonsense). Il clown, con il suo essere fuorviante, maschera, irrompe nel salotto liberty fin dal primo decennio del Novecento, quando la comica finale ha ormai assestato la sua struttura e definito alcuni standard: è attesa dal pubblico del cinematografo come puro divertimento, posta a conclusione di storie edificanti, drammi storici, trascrizioni di romanzi e pièce teatrali. Cretinetti, Polidor, “Fatty” Arbuckle, Mack Sennet, Harold Lloyd, Chaplin, Buster Keaton, Laurel e Hardy – solo per citarne alcuni – cadono, si inseguono, ricadono e si inseguono di nuovo a piedi o in automobile, lungo un paesaggio urbano in cui spiccano gioiellerie, drogherie, pasticcerie, ristoranti e negozi di cappelli che subiscono la furia distruttiva del loro passaggio. Lo sberleffo colpisce con torte in faccia, vernici o sacchi di farina i frac, gli smoking, le divise in alta uniforme, mentre cadono stoviglie e bicchieri nei salotti della buona borghesia o nelle feste di gala. Si devastano ristoranti e ritrovi pubblici, si polverizzano negozi di moda, si strappano o si macchiano vestiti con vernice o colla. L’inverosimile corre a una velocità che va ben oltre le categorie di spazio e di tempo, mentre la fisicità degli attori sembra sottoporsi a una sollecitazione-dilatazione che vedremo qualche decennio più tardi nei cartoon. Se la risata dello spettatore è divertimento, il comico non rivolge solo la sua furia distruttiva verso la rappresentazione sociale della metropoli, bensì contro sé stesso quasi auto distruggendosi.
Come se potesse sentire il sapore delle torte alla crema o alla panna che piovono da tutte le parti, così come si avvertono i crampi della fame o l’ebbrezza del troppo vino, e altrettanto le cadute, le folli velocità ci mostrano un paesaggio, quello del moderno, colto nella sua innaturalità ma nello stesso tempo, nel suo essere perturbante e inquietante. Non ci sarebbe alcunché di comico se lo scenario fosse quello rurale o preindustriale. Insomma, il riso o il comico hanno la funzione di esaltare un piacere esplosivo perché represso, cioè “l’altra faccia della medaglia” rispetto al tragico e non c’è cosa più tragica che… la paura, la miseria e l’inedia. Il legame tra realtà e comico sta dunque nel paradosso, in ciò che in apparenza è logicamente possibile, pura sembianza, perché le conclusioni giungono assurde e contraddittorie. Così la risata non potrà mai abbandonare il suo essere distruzione dell’ordine del mondo, ma la soluzione comica una volta recepita funge da compromesso, ovvero rimette tutte le cose a posto: è ciò che ci insegnano Chaplin e Totò o i cartoon degli anni Quaranta-Cinquanta.
Le probabilità che il pubblico dei cinematografi di quel tempo potesse ricevere nel corso della propria vita una torta in faccia, o veder distruggere una casa, lo scontrarsi d’automobili o veder cadere oggetti preziosi, erano pari a zero. Eppure, al cinema c’erano sempre… Crema e panna inzuppavano smoking e i tight. Analogamente, ben pochi spettatori frequentavano quei ristoranti dove i ricchi borghesi degli schermi ricevevano piatti di minestra bollente sui vestiti, bottiglie in testa e interi vassoi si rovesciavano sulle signore della belle époque. La distruzione del cibo, lo sperpero e l’accidentale rovina di prelibatezze, paradossalmente esercitavano una critica, cinica e crudele sullo stato sociale di una classe ancora rappresentata con la pancia voluminosa, segno di cibo accumulato come capitale circolare. Usare il cibo come sberleffo era colpire quello status symbol che aveva fatto corrispondere alla pancia piena la voracità politica ed economica. L’uno e l’altra cedevano alla liberatoria risata cui si assegnava il compito di demolire la consequenzialità spazio-temporale, il rapporto causa-effetto, celebrando il conflitto tra la civiltà industriale e il mondo rurale.
I nipotini del vaudeville, all’epoca delle due bobine, mescolavano burlesque, farsa, numeri circensi in quella che venne chiamata slapstick comedy, dove il linguaggio era la gag, la morale coincideva sempre ed esattamente con la libertà, mentre il mondo era rappresentato da una scenografia urbana preparata a sfidare la legge di gravità di Newton. Il riso instaura un rapporto più complesso, non più duale, ma a tre oppure si satura all’interno di uno spazio come una sala cinematografica, ancora più efficace se buia. Si ride sempre di qualcuno (o di qualche cosa) e si ride con qualcun altro. Si stabiliscono così due forme di relazione di grado opposto. La relazione tra coloro che ridono e l’oggetto del riso, è un legame asimmetrico: ridendo di qualcuno, lo puniamo per avere avuto la pretesa di sollevarsi al di sopra degli altri senza un preventivo riconoscimento, lo declassiamo, lo releghiamo (almeno temporaneamente) al rango degli inetti, degli incapaci.
La seconda relazione, quella che si stabilisce all’interno di coloro che ridono, è invece una relazione paritetica analoga a quella del sorriso. Il riso per un verso allontana, per altro verso unisce: stabilisce un’unione tra coloro che si trovano spettatori di uno stesso evento involontariamente comico, o tra colui che mediante una battuta o una barzelletta deride e coloro che ascoltando sono fatti partecipi del suo gesto di derisione. Certo, ci è dato ridere anche di noi stessi. Ma la dinamica non cambia: semplicemente, mentre ridiamo di noi, ci sdoppiamo, e così possiamo ridere di quella parte debole del nostro carattere reclamando il consenso per quella parte di noi che ha saputo elevarsi al di sopra di sé stessa e cogliere i difetti in sé guardandosi dall’esterno. Quindi il comico ha sempre a che fare con una maschera, è connesso a un irrigidimento, una forma di meccanicità: il personaggio comico è impacciato nel fare le cose più elementari (mettere in moto un’automobile, aprire un rubinetto, piantare un chiodo nel muro), spende più energie di quante normalmente se ne spendono. Viceversa, si dimostra troppo facilone nel fare cose complesse (vuole, come Stan Laurel, tappare con una bombetta il violento flutto d’acqua che fuoriesce da un tubo forato con un colpo maldestro), spende meno energie di quanto normalmente si dovrebbero spendere. E poi ci sono i bersagli: il poliziotto, il ricco borghese, gli oggetti di lusso da distruggere ecc. Buster Keaton compare la prima volta sullo schermo come garzone di un emporio dove il compagno Fatty Arbuckle è un macellaio (The Butcher boy, 1917), poi sarà un disastroso cuoco (The Cook, 1918), ma è nella cucina de Il navigatore (1924) che dà il meglio di sé: tenta di aprire una scatoletta di carne dapprima con un apriscatole, poi con un coltello, infine con una mannaia, ottenendo soltanto la distruzione della scatola; apre una lattina di latte condensato con il trapano, ma la perfora da entrambe le parti e il latte si disperde; le forchette si conficcano nei piatti e il cucchiaio è troppo grande per la tazzina, le uova messe a bollire vengono estratte con un ramaiolo, ma cadono sistematicamente a terra una dopo l’altra… il mondo di Buster Keaton viene attaccato da un disordine figlio dell’ostilità delle cose, perché gli oggetti non funzionano mai come ci attendiamo funzionino. Stan Laurel e Oliver Hardy, la più straordinaria coppia comica di ogni tempo, non poteva sottrarsi alle gags della buccia di banana e della torta in faccia: ne La battaglia del secolo (1927) Stanlio è un boxeur e Ollio è il suo manager che, forte di un assicurazione contro gli infortuni, attende con ansia che si faccia male, naturalmente non sarà così, anche la classica buccia di banana sarà fatale solo a un pasticciere, la cui caduta darà il via a una guerra a colpi di torte in faccia coinvolgendo tutti i passanti. In Dalla minestra alla frutta (1927), Ollio è un cameriere pasticcione e Stan (travestito da donna) è la domestica che, completamente ubriaca, è chiamata a servire l’insalata in camicia, e dunque, alla lettera, in mutande e barcollante. La tecnica dello slow-burn, cioè dello scoppio ritardato, è una situazione che si addice quasi sempre alla coppia.
I fratelli Marx portarono dal palcoscenico del vaudeville una comicità trasversale e avvolgente dove le linee di demarcazione tra ironia, satira, humour, parodia risultano difficilmente identificabili, il cui effetto è quello di una risata difensiva e saggia ma allo stesso tempo folle e deviante. Già i titoli dei loro maggiori successi ci invitano a entrare in un mondo fiabesco, surreale e assurdo: Animal Crackers (Biscotti a forma di animali), Horse Feathers (Piume di cavallo), Duck Soup (Zuppa di anitra) e, trattandosi di film sonori, le gags si aprono a trecentosessanta gradi sul gioco di parole, anzi, sul fallimento della parola come ordinario strumento comunicativo.
Charlie Chaplin, alias Charlot non è un personaggio, ma una maschera avvolta fin dall’inizio da una complessa oggettistica alimentare tesa a dimostrare come la fame sia lo specchio della vita. Lanciata una buccia banana dietro le spalle sarà proprio lui a scivolarci per primo e se prende un gelato non può che gli finirgli in faccia (Charlot alla spiaggia, 1915); le salsicce bellamente rubate vengono messe nel taschino e poi fatte roteare come la catena di un orologio (Charlot al parco, 1915), un’aranciata è sottratta con la cannuccia al rivale in amore, le ciambelle infilzate come birilli (Charlot dongiovanni, 1915), la grattugia appesa al muro per grattarsi la schiena, il formaggio andato a male come arma da scagliare oltre la trincea, le pallottole nemiche per aprire una bottiglia (Charlot soldato, 1918). E se la caffettiera diventa un biberon, le frittelle possono ben essere carte da gioco (Il Monello, 1921). Ma si potrebbe continuare, le sue performance come cameriere sono esilaranti: una volta serve dentro un piatto una spazzola, uno straccio e un pezzo di sapone, l’altra dentro un vassoio a campana addirittura un gatto vivo; quando taglia un pollo il primo pezzo vola sul volto della signora, il secondo a terra, e il sugo schizza in faccia all’altro commensale in Charlot pattinatore (1916). E quando l’odore di salsicce sveglia il vagabondo che dorme con un cane randagio, significa che è ora di mangiare e insieme si dirigono verso l’ambulante. Con destrezza, quando il venditore si distrae, Charlot si mette in bocca una tartina, così per una decina di volte, fino a quando viene scoperto (della montagna di tartine ne è rimasta una sola!) a quel punto il cane afferra le salsicce e fugge inseguito da entrambi in Vita da cani (1918).
Nella Febbre dell’oro (1925) vediamo Chaplin cucinare con perizia uno scarpone e servirlo con attenzione anche all’altro commensale. Con l’aria del buongustaio toglie i chiodi come se fossero ossicini (che vanno succhiati con delicatezza, visto che hanno un sapore delizioso), inforca i lacci come spaghetti e taglia la suola come fosse una bistecca. Se egli mostrasse soltanto un uomo affamato nell’atto disperato di mangiarsi una scarpa, non sfuggiremmo a una grottesca caricatura della miseria, ma Chaplin fa di più, vi aggiunge pathos, non descrive la povertà perché lo stile del suo comportamento è quello di un ricco che nei dovuti modi sta consumando il pranzo del giorno del Ringraziamento. Il paradosso è mostrato con efficacia più tardi, quando Charlot è vittima di un’allucinazione “da fame” e viene scambiato per una gallina. Diceva Chaplin: “È paradossale come una tragedia possa stimolare il senso del ridicolo, penso, è una forma di sfida: dobbiamo ridere davanti alla nostra impotenza contro le forze della natura, o diventiamo pazzi.” Chaplin, rispetto ai comici delle “torte in faccia”, non mirava alla semplice distruzione delle cose e dell’ordine, anzi tenta di suggerire altri modi di vivere (emigrante, clown, boxeur, commesso, poliziotto, soldato, operaio, cameriere ecc.) o almeno la coesistenza di altri valori possibili, primo fra tutti il sentimento e la pietà. Riesce a dare corpo a un inconscio collettivo che percepisce i pericoli dell’avanzare della civiltà industriale in cui le macchine impoveriscono la qualità della vita e la fame aggrava le già scarse relazioni sociali; ciò che è in pericolo è proprio l’esistenza, anche se il primo a pagare sarà sempre il vagabondo e l’omino.
La fortuna delle comiche, fino alla crisi del ’29, che coincide grosso modo con l’avvento del sonoro, aveva l’effetto di controllo sul pubblico: comparivano alla fine dell’intrattenimento cinematografico, la ragione è semplice dovevano cancellare e di disperdere il possibile contenuto nocivo, concettuale e reale, della commedia o del dramma presente nei rulli precedenti. Una funzione catartica contro la pericolosità del messaggio sociale o della sua introiezione che la frequentazione cinematografica poteva condurre. Di lì a poco ci sarà poco da ridere, il cinema Hollywoodiano, Fascismo e Nazismo, compresero la forza del mezzo cinematografico e lo piegarono alle loro volontà. Nasceva così la commedia brillante a segnare la fine dei comici, se volevano essere ancora tali dovevano diventare autori e costruirsi una fama come fecero con le proprie mani ai margini del sistema Hollywoodiano: Chaplin, Keaton, I fratelli Marx, Hardy & Laurel ecc. E Charles Chaplin ha aggiunto: “Non devo leggere libri per sapere che il tema della vita è il conflitto e il dolore. Per istinto, tutta la mia comicità si basava su queste cose. Attraverso la comicità vediamo l’irrazionale in ciò che sembra razionale, il folle in ciò che sembra sensato, l’insignificante in ciò che sembra pieno di importanza. Esso ci aiuta anche a sopravvivere preservando il nostro equilibrio mentale. Attiva il nostro senso delle proporzioni e ci insegna che in un eccesso di serietà si annida sempre l’assurdo”.
Come per Chaplin anche in Totò vince la maschera facendo restare in secondo piano il personaggio (mani, braccia, piedi, gambe, torso, orecchi, occhi, naso, mento potevano essere usati a piacimento dall’attore per la propria marionetta) e la maschera era quella di Pulcinella, sempre mossa da una fame fisica e materiale, di viscere e d’anima, dove il desiderio, una pulsione inappagabile, è spinto sempre oltre l’orizzonte della realtà. Quando la maschera diventa personaggio, come nelle commedie di Scarpetta, il Sciosciammocca di Miseria e nobiltà (1954) di M. Mattoli, non c’è un lazzo, una battuta o un ammiccamento che non abbiano per tema la fame, grande regina della vita. E anche quando diventa Pasquale Miele in Napoli milionaria di Eduardo, è capace di tirare fuori dallo sfilatino non solo gli spaghetti, ma anche la forchetta e il tovagliolo! Per il resto Totò è soltanto Totò. Amava raccontare: “Il mio incontro con il cinema avvenne in un ristorante. Due signori e una signora mi guardavano ridendo da un altro tavolo. Stavo per alzarmi e litigare quando seppi che uno di questi signori era Gustavo Lombardo”. E Totò, sia che incontri Cleopatra o Maciste, il pirata nero o il diavolo, si informa subito e sempre su “quando e cosa si mangia”. Sia che venga catapultato sulla luna o nel deserto, nell’antica Roma o nella giungla, a Berlino come in Spagna, la richiesta di un pollo, un’acciughina, un piatto di spaghetti, ma solo come “antipasto”, non manca mai a interrompere qualsivoglia discorso. Il cibo è il fraseggio di ogni interrogazione, la preoccupazione incipiente di ogni azione: come metafora di massimo appagamento amoroso o sessuale. Se sono parecchie centinaia le esilaranti battute o gli sproloqui che hanno come fondo l’equivoco linguistico o quale alterità di ruolo sociale.
Totò ha detto “Non si può essere un vero comico senza aver fatto la guerra con la vita, non si può far ridere se non si conoscono bene il dolore, la fame, il freddo, l’amore senza speranza, la disperazione della solitudine, la vergogna dei pantaloni sfondati e il desiderio di un caffelatte”.
Nella commedia, ormai sonora e poi a colori, più che la grassa risata è una situazione a diventare comica (l’equivoco, lo scambio di persona, la situazione paradossale, il boccaccesco) nata negli Stati Uniti (quella brillante), Francese (prevalentemente sociale o famigliare, salvo Jaques Tatì che è un mimo) o all’Italiana, strappa il sorriso e nulla più.
La tradizione della commedia all’italiana, quella iniziata Dino Risi che ebbe negli anni Cinquanta-Sessanta il suo apogeo e momento migliore, sfugge alle regole del comico propriamente detto: Sordi, Tognazzi, Manfredi, Gassman e gli altri, sono attori, tutto meno che comici: è lo spettatore che accenna una risata amarognola, forse inconsapevole che sta ridendo dei propri difetti di italiano.
Nelle realizzazioni migliori si gioca sul linguaggio e non più sulla gag. Woody Allen con la sua enorme filmografia ne rappresenta l’evoluzione migliore puntando su un effetto comico dato da un disorientamento figurale e linguistico. In altre parole, è la battuta che il pubblico può apprezzare (lui che già a quattordici anni aveva iniziato a scrivere battute per altri): si tratta di un riso “a denti stretti”, più mentale e psicologico che “a crepapelle”. Eccone alcuni esempi: “Fortunatamente, secondo la moderna astronomia, l’universo è finito: un pensiero consolante per chi, come me, non si ricorda mai dove ha lasciato le cose”. “La bisessualità raddoppia immediatamente le tue chance al sabato sera”. “Non sono un atleta. Ho cattivi riflessi. Una volta sono stato investito da un’automobile spinta da due tizi”. “Non potevo prendere un cane perché era troppo caro. E finalmente hanno aperto al mio quartiere un negozio di animali difettosi. Potevi prendere un micio omosessuale, un cammello piatto. Io avevo preso un cane che balbettava: i gatti lo facevano impazzire e lui ab-b-b-aia- a -va”. “C’è poi… c’è quell’altra battuta – importante per me – attribuita a Groucho Marx… ma io credo che risalga a Freud, quando parla del motto di spirito e dei suoi rapporti con l’inconscio. Dice… cito a memoria… dice… parafraso… dice: “Non accetterei mai di far parte di un circolo se accettasse fra i suoi soci uno come me”. Questa è la battuta chiave della mia vita d’adulto per quanto riguarda i miei rapporti con le donne: “L’ultima donna che ho toccato è stata mia madre quando sono nato!”.
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