Erano al lavoro portieri, tassisti, e spioni di varia foggia. Insomma, si vociferava in silenzio o si scrivevano lettere anonime per mettere all’indice gerarchi, ministri, prefetti con le belle donne del cinema fascista, quelle più desiderabili e irraggiungibili agli spettatori dei Telefoni Bianchi. Il tutto arrivava nella sala del Mappamondo di Palazzo Venezia, sul tavolo di Mussolini. Alcuni sputtanamenti erano in famiglia (riguardavano la figlia Edda, il genero Galeazzo Ciano) ma altri riguardavano “i suoi uomini”, descritti come puttanieri, pederasti passivi, approfittatori di mestiere, intrallazzatori, drogati o “dediti al coito boccale”, testuale nella massa di documenti mai distrutti e microfilmati dall’OSS (il servizio segreto militare USA) e dal SOE (l’allora servizio segreto britannico) dopo il 25 luglio del 1943, in buona parte conservati da Badoglio, ma altri furono sottratti a Kappler a capo delle SS, dopo la liberazione di Roma. Materiali recuperati da Mario Josè Cereghino e Giovanni Fasanella in “Le carte segrete del Duce”, (Mondadori, 2014) uscito dieci anni fa. Il capo della polizia Bocchini scriveva che «Galeazzo Ciano spendeva centinaia di migliaia di lire in gioielli, conti di sarti e pellicciai per l’amante Berlingieri Giovanelli». Così anche la figlia Edda prima di sposare Galeazzo Ciano «Frequenta parecchi giacigli. Se il milanese Emilio Isotta è un giovane serio, Marino Vairani è dedito ai divertimenti e a donne, Maurizio Corradi fa uso di cocaina e affetto da sifilide… e ce ne sono altri che…». Un’attività fisica degna di tale progenitore. Sul ferrarese Italo Balbo un campeggio a Viareggio «Tavoli di mogano, tappeti, mobili lussuosi, tende su tende per non avere caldo, tavola imbandita per 20 o 30 persone, champagne, gelati, liquori, dalla mattina alla sera divertimenti, etc. E lo scopo? Attirare le grazie di una donna ora l’amante di Balbo, la contessa Sandra Spalletti». Nei primi tempi l’OVRA si concentrò contro la massoneria denunciando l’ispirazione di molteplici attentati contro il Duce, ma arrivò pure a scrivere che «la disfatta di Caporetto è opera della massoneria. Sarebbe stata organizzata da Diaz, Bencivenga, Scipione e Morrone (tutti ufficiali in loggia) contro il comandante supremo Luigi Cadorna, reo di essere un cattolico».

Molti segreti “in camera da letto” erano ben noti, servivano a mostrare la “virilità” delle camice nere, atta suscitare l’invidia se le silhouette riguardavano il mondo dello spettacolo. «A Cinecittà si è sparsa la voce che l’Eccellenza Pavolini un giorno si sia denudato per aderire al desiderio dell’amante, l’artista cinematografica Doris Duranti e da altre artiste, di vedere come era fatto un ministro, e che in casa Duranti sia stata celebrata la cosiddetta messa nera». Durante queste messe nere vengono commessi «atti inqualificabili». E passi pure che l’attrice Livornese fosse ebrea. Le tre attrici simbolo dell’epoca sono Doris Duranti, Luisa Ferida e Clara Calamai, Alida Valli solo in un secondo momento, ma le prime due hanno rapporti tormentati, mentre Claretta Petacci, l’ultima amante di Mussolini, – a differenza della sorella Miryam – non fa seriamente cinema, limitandosi a poche apparizioni.

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UN’INCHIESTA ESCLUSIVA, A CENTO ANNI DALLA MARCIA SU ROMA LE PROVE FINORA MAI RESE PUBBLICHE DEL RUOLO DEI SERVIZI SEGRETI BRITANNICI NELLA NASCITA DEL FASCISMO E DEL DUCE

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Doris Duranti, l’aristocratica che disprezza il popolo (Meglio bere acqua in un bicchiere dorato che champagne in un boccale di stagno) nel film Il re si diverte (1941, di Mario Bonnard) gira una famosa scena della danza dei sette veli, per i tempi molto spinta. Fiera, in polemica con Clara Calamai a mostrare per un attimo il seno in La cena delle Beffe (1941, di Alessandro Blasetti) sosteneva che il suo era più bello e florido, mostrato in Carmela (1942, di Flavio Calzavara). Mussolini è impensierito dell’amore proibito del gerarca Pavolini, ministro della cultura, vorrebbe troncare la loro relazione. «Farei qualsiasi cosa per non rinunciare a lei», gli risponde Pavolini. E il duce non insiste . La sera del 25 luglio 1943 il ministro telefona alla diva: “È tutto finito. Ti chiamerò quando posso. Addio”, sono le sole parole. Pavolini è in fuga, la Duranti resta sola in balia di chi non le perdona l’amore per un fascista e la polizia perquisisce la sua casa romana. Per giorni i due innamorati non si vedono, poi una signora telefona a Doris per chiederle del denaro per far espatriare Pavolini in Germania. L’attrice, per salvare il suo uomo, cede un braccialetto composto da trentadue sterline d’oro e lo fa consegnare a un incaricato che l’attende presso l’Hotel Ambasciatori. Pavolini si mette in salvo solo grazie a lei che un bel giorno sente la sua voce alla radio affermare: “Torneremo presto”. Una mattina squilla il telefono e all’altro capo del filo c’è proprio lui, l’amore della sua vita è tornato a Roma. Pavolini è arrivato nella capitale dopo l’8 settembre grazie all’aiuto dei tedeschi e, come segretario del partito, riprende possesso di Roma a nome della Repubblica Sociale. Pavolini diventa l’uomo più odiato da antifascisti e partigiani, il simbolo del regime che non vuole cadere e che si appoggia sull’invasore tedesco. Il gerarca va al nord dove il fronte della guerra è più caldo e Doris lo segue prima a Lucca, poi a Firenze infine a Milano dove passa con lui i suoi ultimi giorni. Il cognome Duranti è ebreo, pure se l’unico antenato di quella razza risale a molte generazioni prima, eppure le SS la arrestano e la fanno spogliare. I tedeschi scambiano tre nei sulla spalla per i segni inequivocabili della sua appartenenza alla religione ebraica. Doris nega e chiede di chiamare Pavolini, ma finisce lo stesso in cella a Santa Verdiana insieme a venti ebrei che piangono disperati. Per fortuna lui interviene, risolve l’equivoco e la fa liberare. Successivamente le SS la scortano a Venezia, là si tenta di far rinascere il cinema fascista, per interpretare una pellicola che non verrà mai ultimata. Doris si sposta da Venezia a Milano, sotto i bombardamenti, vive uno dei periodi più neri della storia italiana. Pavolini viene ferito a Maderno e lei vuole stargli accanto anche durante la fuga in Valtellina. Si ritrova a Como con un fucile in braccio che non sa usare e vicino a lei ci sono anche la Ferida e Osvaldo Valenti, gli altri due divi. Valenti è un drogato, un mitomane avventuriero che fa innamorare la Ferida e si getta in una sconsiderata avventura finale che coinvolge la bella attrice. La droga circolava parecchio a Cinecittà, la Ferida è un’ingenua ragazza di campagna (Castel San Pietro in provincia di Bologna) che si fa irretire da Valenti e si perde nei giri di cocaina che consuma in grande quantità. La Duranti a Como sa di essere nella lista nera dei comunisti e che i partigiani la stanno cercando per eliminarla. L’attrice contatta con un uomo di cinema svizzero che le deve organizzare la fuga, riesce a vedere il suo amante pochi giorni prima che accada l’irreparabile e ottiene un passaporto falso con il nome di Dora Pratesi. Lo svizzero vuole diecimila dollari per farla espatriare e ricoverare in una clinica del suo paese. Sono diciotto ore di marcia per passare il confine insieme a uno zio ma alle tre del mattino si trovano a Lugano, quattro giorni prima della cattura di Mussolini. Pavolini e Mussolini vengono riconosciuti dai partigiani mentre tentano di fuggire verso la Svizzera, saranno fucilati e poi appesi per i piedi a piazzale Loreto. La bella orchidea nera viene ricoverata nella clinica Moncucco dove un infermiere la riconosce come la famosa attrice amante del gerarca. La polizia svizzera arresta sia lei che lo zio e per la bella Doris è ancora una volta la galera, mentre dall’Italia giungono le notizie delle terribili fucilazioni. La polizia svizzera si prepara a far ritornare in Italia l’attrice e allora lei si taglia le vene, non sappiamo se per la disperazione oppure per un freddo calcolo. Internata in manicomio qui ha la “fortuna” che il capitano della polizia svizzera, Luciano Pagani, si innamori di lei. Insieme organizzano una vera e propria messinscena con una finta estradizione in Italia, ma alla fine la Duranti viene di nuovo accolta in territorio svizzero. Pochi giorni dopo l’attrice si unisce in matrimonio con il capitano Pagani, solo per diventare cittadina svizzera e non avere più fastidi dal nuovo governo italiano. I due si sposano in gran segreto, a Campione d’Italia, con le pubblicazioni affisse solo in giornata presentandosi in chiesa dopo essersi nascosta nel bagagliaio di un auto avvolta con i tappeti. Doris non ama né quel noioso marito svizzero, né quella terra troppo ordinata e precisa che definisce “tutta formaggi e orologi”, si diverte a contraddire il marito preciso e conformista persino sull’ora che segna il suo orologio. Anche se il matrimonio dura meno di un anno, lei gli serba eterna riconoscenza. Luciano Pagani non vorrebbe concedere il divorzio ma alla fine si piega al volere della bella attrice che gli dice: “Tu nel 1945 mi hai salvato la vita, ma io ho pagato la mia testa con un’altra cosa. Uno come te non avrebbe mai potuto sperare di portare a letto Doris Duranti”. Si ripara in America dove ha una breve relazione con Mario Ferretti, poi la troviamo in Argentina, Venezuela, Cuba e infine Santo Domingo, dove si lascia andare ai malinconici ricordi da star. Nel dopoguerra torna sporadicamente sul grande schermo ma non ottiene il successo di un tempo, sostiene di vivere bene ai tropici, pure se di tanto in tanto torna a Roma: là c’è sempre qualcuno che si ricorda di lei. Doris Duranti in una delle sue ultime interviste rilasciate alla stampa italiana sostiene che Roma è troppo cambiata e che lei non ce la farebbe più a vivere in una città così diversa da come l’ha lasciata. Le sue idee politiche sono sempre confuse, giustifica il sanguinario dittatore dominicano Trujillo e sostiene che «la democrazia non esiste perché chi comanda fa fuori i suoi nemici, basta guardare Fidel Castro cosa ha fatto a Cuba».

La coppia Ferida e Valenti sono altrettanto personaggi discussi, così le loro vite sono narrate in maniera diametralmente opposta da destra e da sinistra. Da destra si giura che la Ferida non fosse una dark lady e che, contrariamente agli uomini di Koch, Valenti non abbia mai torturato nessuno. Il compagno dell’attrice venne incaricato dal comandante Borghese di fare attività propagandistica e di creare una rete di scambio con la Svizzera per rimpinguare le casse della Decima Mas. L’attore conosce il famigerato capo di “Villa Triste”, sfrutta le sue amicizie, si assicura la complicità delle bande partigiane operanti in prossimità alle zone di confine. Il suo incarico è prettamente militare e le cattive frequentazioni sono determinate dall’operare della Decima in condizioni di emergenza. Per i commentatori di destra risulta decisiva la resa negli ultimi giorni della Repubblica Sociale al comandante partigiano Giuseppe Marozin, definito un uomo sbrigativo, privo di scrupoli e dalla pistola facile. Osvaldo Valenti e Luisa Ferida vengono condannati a morte, pure se molti partigiani del Comitato di Liberazione si oppongono, ma il futuro Presidente della Repubblica Sandro Pertini ordina di procedere all’esecuzione. Il 30 aprile 1945 alle 23 e 45, in via Poliziano, a Milano, avviene la fucilazione. La leggenda racconta che la Ferida danzasse nuda davanti ai prigionieri torturati a Villa Triste, grande amica del terribile Koch, ma non ci sono prove. La coppia “bella e dannata” del cinema fascista forse muore fucilata per aver confuso la realtà con il set cinematografico, vittima del loro amore, della droga e di un eccessivo egocentrismo da palcoscenico. I carabinieri della Tenenza Sempione di Milano conservano su Luisa Ferida questo verbale: “Da accertamenti praticati per la pensione di guerra la signora Luigia Manfrini (il suo vero nome) non consta abbia fatto parte di formazioni militari ausiliare della Repubblica Sociale Italiana. Le cause del suo decesso vanno ricercate nel fatto che era l’amante di Osvaldo Valenti, il quale svolgeva attività per la Decima Mas e aveva rapporti con la banda di Koch. La Manfrini era estranea alle vicende politiche dell’epoca e non si era resa responsabile di atti di violenza o terrorismo in danno della popolazione o del movimento partigiano”. Ma la storia, come il cinema, è sempre soggetta a interpretazione.


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