È cambiata la pubblicità

 

Nonostante le numerose innovazioni del linguaggio pubblicitario, almeno due delle sue originarie caratteristiche rimangono inalterate: lusingare l’egocentrismo dell’interlocutore, dandogli del tu e facendogli credere di essere unico anziché una cellula di una massa indistinta; enfatizzare la tendenza dei media all’autoreferenzialità.

Un secolo fa era réclame, poi nel secondo dopoguerra pubblicità, infine spot. Ora ci pensa l’algoritmo che ci legge l’IP di computer o cellulare a inviarci i messaggio personalizzati che ci identificano quali consumatori di beni. Tutti i Social sono accessibili solo perché infarciti di promozioni commerciali, qualsiasi navigazione in rete è sottoposta (in nome della Privacy!!!!!) ad accettare inserzioni, se vogliamo consultare qualsiasi cosa o ottenere informazione, in compenso si è assai ridotta – per inefficacia – su quotidiani, rotocalchi, televisione e radio.

Il testo dei messaggi pubblicitari è stato a lungo un esercizio d’analisi per molte discipline, a partire dalla semiotica, alle scienze sociali, economiche e della comunicazione, dalla massmediologia alla psicologia. Perché la loro brevità, l’elevata frequenza di figure retoriche e l’integrazione di codici diversi: verbale e iconico, oltre all’acustico, nel caso della televisione e dei nuovi media, risultava facile. Si tratta infatti, perlopiù, di messaggi coerenti, coesi (sebbene talora talmente densi e metaforici da richiedere una certa abilità di decodificazione), informativi, facilmente memorizzabili che vogliono suscitare nello spettatore un elevato grado di attenzione.

I risvolti pragmatici di tale forma comunicativa, soprattutto l’illocuzione (ossia il compimento di atti mediante le parole) e la perlocuzione (l’ottenere risultati mediante le parole) fanno della retorica intesa come tecnica della persuasione il suo mondo ideale ideale. Quasi sempre vi troviamo le classiche sei funzioni comunicative di Roman Jakobson, con particolare accento su quella conativa (ovvero quella che mira a dirigere il comportamento dell’interlocutore), su quella poetica (cioè basata sull’attenzione alla forma dei messaggi), sulla fàtica (concentrata sulla volontà di instaurare un contatto con l’interlocutore) e su quella emotiva per attrarre il destinatario.

La pubblicità più che rispondere a reali esigenze materiali, ha sempre cercato di creare nuovi bisogni sociali, inducendo a desiderare qualcosa che va ben oltre il mero prodotto pubblicizzato, estendendosi allo stile di vita o allo status a esso associati. L’obiettivo è quello di «trasformare lo spreco in bisogno». Ovvero, convincere il pubblico a desiderare di entrare a far parte del mondo prestigioso, godibile e peccaminoso popolato dai consumatori abituali di quel dato prodotto, sia esso un gelato, una bevanda, un abito. Ad esempio, più che un dato profumo, sarà pubblicizzata la sensualità che esso incarna, più che un certo liquore, la virilità di cui è simbolo: allora il pubblico non desidera più che il prodotto sia presentato per le sue qualità o funzioni intrinseche, ma immagina possa andare incontro alle sue attese, una specie di pausa dalla realtà, di una speciale vacanza da sogno. C’è mare, montagna, l’atmosfera di libertà e di aperti: orizzonti, reali e metaforici, negli spot sulle automobili e in quelli delle compagnie telefoniche simili a quelli degli enti turistici.

Negli anni Novanta era scontata l’invadente pervasività del sesso che animava gran parte delle metafore, dei giochi verbali e delle scelte iconiche dei messaggi tanto italiani quanto stranieri. Quasi sempre associato alla fuga dalla quotidianità o una sua parafrasi: “soltanto acquisendo questo oggetto potrai evadere dalla tua meschina e noiosa realtà, liberando la mente dai vincoli sociali e dalle tue paure come quando sei sotto l’effetto di uno stupefacente, godendo appieno dei piaceri del sesso e suscitando in questo modo l’invidia altrui”.  Così: «Lasciati sedurre da un capriccio»: Caprice des Dieux «un amour de fromage» (spot di un formaggio, 2008); «L’intenso piacere che risveglia i tuoi sensi» (biscotti Gocciole Pavesi). Talora l’associazione cibo-sesso spingeva la propria carica provocatoria a sfiorare la pedofilia e il cannibalismo: accadeva qualche anno fa con lo spot dello yogurt Müller, il cui pay off o baseline (la frase a effetto conclusiva, garanzia della riconoscibilità del prodotto) diceva: «Fate l’amore con il sapore». Quello che è cambiato è il visual (ossia l’immagine di un annuncio pubblicitario o di uno spot), che mostra tra l’altro, una donna estaticamente suggente una goccia di liquido bianco cadutale sulla mano, ma in c’era un neonato su un cucchiaino pronto per essere mangiato. La velocità associata a prestazioni sessuali virili dove non esistono limiti – oltre che i limiti di velocità – è visibile nelle automobili: «perché ogni persona è un’edizione limitata» (Mazda); «Enfant terrible» (Peugeot); «Stop alla routine» (Renault); «Guardarla non basta (Volkswagen); L’hai provata? Nuova Citroën C tre. «Unica, decisa e inconfondibile. Decisamente sconsigliata ai timidi».

Tutta la pubblicità, nel complesso, irrigidisce al massimo grado gli stereotipi di genere, mostrando donne belle e sottomesse e maschi belligeranti e competitivi dove raramente si dà spazio all’ironia e alla comicità, ma quando ciò accade il contesto è comunque a sfondo erotico, come nella fortunata campagna della Peugeot 207 con le vistose oscillazioni dell’auto provocate da vispissime coccinelle copulanti.

Analoghi rischi erano in agguato nella presentazione degli alcolici, che garantiscono la realizzazione di sé con migliori prestazioni sessuali: “Il tuo spazio è ristretto? C’è una birra che dà spazio a un mondo di folli incontri”, recitava un vecchio slogan della birra Carlsberg. Sempre più frequenti, nelle pubblicità di alcolici, le associazioni tra bottiglie e donne: gli uomini sono infatti i principali fruitori di prodotti alcolici ed è a loro che si cercano di coinvolgere grazie all’uso di immagini provocanti. Anche in assenza di modelle avvenenti e di scene erotiche, pure frequentissime nei visuals del genere (Campari, Martini, Zedda Piras, Cinzano ecc.), il riferimento alla seduzione è quasi scontato anche negli spot dei gelati: cornetto o magnum Algida. Poi si è tentato di rendere i messaggi sessuali della pubblicità un po’ meno stereotipati, introducendo, per esempio, tematiche omosessuali, le quali, tuttavia, nel circolo vizioso del linguaggio mediatico, sono diventate esse stesse cliché, buoni per vari usi. È avvenuto, per la prima volta, con un noto spot della Campari del 1998 (e negli anni successivi) giocando sull’ambiguità di donne che sembravano uomini e viceversa, con relativi scambi di effusioni in chiave omo e bisex, fino a quelli notissimi sui mari della Sicilia di Dolce & Gabbana.

Una delle peculiarità del linguaggio pubblicitario moderno rispetto a quello delle origini è l’understatement, l’infrazione dell’orizzonte d’attesa del destinatario mediante un’apparente svalutazione della situazione pubblicizzata grazie all’ironia. Le prime campagne pubblicitarie ribaltare l’overstatement (vale a dire gli slogan urlati sui pregi del prodotto) fino ad allora imperante fu quella americana del Maggiolino Volkswagen nei primi anni Sessanta, in cui la piccola utilitaria, per farsi breccia tra le gigantesche sorelle d’oltreoceano, puntava sulle proprie imperfezioni (Nobody’s perfect) e addirittura sulla propria bruttezza, confrontata con quella di un rudimentale veicolo lunare: «It’s ugly, but it gets you there». La tecnica del falso understatement è stata riproposta, tra gli altri da un liquore, propagandato come “Il rum più bevuto nei peggiori bar di Caracas”. Dietro l’apparente straniante negatività si cela, ovviamente, la solita promessa di trasgressione, specialmente in campo sociale e sessuale, anche grazie al visual dell’annuncio: nei peggiori bar in questione non potranno che esserci sesso e droga a buon mercato, sparatorie e simili. In virtù dell’understatement, anche il sesso può essere apparentemente svalutato. La campagna pubblicitaria di un gelato, qualche anno fa, mostrava i preliminari amorosi di due ragazzi: fin qui nulla di nuovo, data la scontata simbologia fallica del gelato e l’imprescindibile riferimento al sesso, soprattutto orale, nel pubblicizzarlo. Sul più bello, però, il ragazzo si allontanava con una moneta e, nell’alternativa tra l’acquisto di un profilattico e quello di un gelato, optava per quest’ultimo, perché, come recitava lo slogan finale, «La vita è fatta di priorità». L’allentamento dei freni della censura degli ultimi decenni, così come la preferenza accordata da molti pubblicitari all’ironia (anche assai grassa) sembrano giustificare espliciti doppi sensi: “Perché gli italiani non scopano più come una volta?” (aspirapolvere Bidone, 1991); “Il vostro pacco è in buone mani” (pubblicità di una società di spedizioni internazionali, con tanto di mano sui genitali); Bullock: “L’antifurto con le palle”; “La patatina tira” e “A chi piace la patatina” (con il pornodivo Rocco Siffredi 2006) e così via.

Quello delle saghe è sicuramente una delle innovazioni più importanti del linguaggio pubblicitario, particolarmente amata dalle compagnie telefoniche che investono moltissimo nelle campagne promozionali. La prima celebre campagna a puntate fu quella per SIP, diretta da Alessandro D’Alatri, con Massimo Lopez in procinto d’esser fucilato dalla legione straniera: “Una telefonata allunga la vita” (1993, primo posto al Festival della pubblicità di Cannes del 1994). Veri e propri tormentoni per affermare la telefonia mobile, (quello della Omnitel in chiave erotico-avventuroso con Megan Gale) una battaglia senza tregua che ha visto usare tutte le tecniche e strategie in un mix di testimonial, imposizione del brand e status symbol.

Un’altra tecnica di sviamento dell’attenzione oggi assai frequente consiste nello sfruttare i meccanismi di presupposizione tipici di ogni atto comunicativo. Giacché, di solito, quanto è posto nella parte iniziale di un enunciato è considerato come elemento noto, non messo in discussione (tema), mentre ciò che è alla fine dell’enunciato ne costituisce il nucleo informativo, l’elemento nuovo (rema), non è raro che una qualità tutt’altro che scontata di un prodotto venga citata, per l’appunto, per prima, quasi sotto mentite spoglie. La tecnica confina con quella sorta di sillogismo imperfetto che è l’aristotelico entimema, vale a dire un sillogismo a premessa implicita, o soltanto probabile. In annunci come “I peccati di gola che non fanno ingrassare” o “Il nuovo gusto ha meno grassi” l’attenzione del lettore viene come sviata: che un prodotto dietetico venga pubblicizzato come poco grasso è un’ovvietà, ma il fatto che sia anche gustoso al limite del peccaminoso è davvero tutto da dimostrare, benché qui l’informazione venga fatta passare come generalmente condivisa. Il medesimo stilema è utilissimo per i doppi sensi osceni: «Io ce l’ho profumato. L’alito. Perché, cosa avevi capito?» (spot di Mental, 1985).

Nonostante le numerose innovazioni del linguaggio pubblicitario, almeno due delle sue originarie caratteristiche rimangono inalterate: lusingare l’egocentrismo dell’interlocutore, dandogli del tu e facendogli credere di essere unico anziché una cellula di una massa indistinta; enfatizzare la tendenza dei media all’autoreferenzialità. Numerosissimi gli esempi del primo fenomeno, riassumibili nel pay off di Vodafone: “Tutto intorno a te”, “Tu, senza confini” (TIM), “La Coop sei tu” e addirittura “Se ti piace Jack Daniel’s mandaci due righe. Ci piacerebbe conoscerti” dove addirittura si sbandiera la possibilità di un rapporto diretto tra un ‘noi’ e un ‘tu’.

I generi alimentari caldeggiano un ritorno al passato preindustriale e rustico, ‘genuino’, idealizzato come buono a ogni costo ancorato alla tradizione: “Che profumo! È lo stesso di allora” (Mulino Bianco); “mangia sano, torna alla natura”. Il termine Natura è il prediletto negli spot alimentari. Da un lato si magnifica il viaggio e l’altrove, anche in altri mondi, dall’altro Barilla esalta il ritorno in famiglia: “Dove c’è Barilla, c’è casa”. Naturalmente, talora l’esaltazione della genuinità oltrepassa il paradosso, arrivando a suggerire come preferibili i cibi precotti a quelli fatti in casa dalla mamma o dalla nonna di “Quattro salti in padella”, che tra le tagliatelle fatte in casa e quelle preconfezionate non ha dubbi sulla scelta delle seconde. O come, per lo stesso marchio, si evince da testi come il seguente (spot del 2008): “Un grande cuoco non si accontenta di un buon ingrediente. Vuole l’ingrediente perfetto. Ricotta fresca e pasta fresca all’uovo. Ravioli e spinaci di Quattro salti in padella. I veri sapori della tradizione pronti per te”.

Più recentemente è sparito l’eroismo femminile da super alcolici e auto di lusso (oggi ci sono le donne alla guida), i brand dei prodotti alimentari sono in forte diminuzione – d’altronde oltre 70 programmi di cucina in Tv, e blogger a centinaia di migliaia, fanno già una debordante promozione – al loro posto ci sono i supermercati dove fare “la spesa intelligente”. Diversi spot (assicurazioni, banche, distribuzione, esercizi commerciali) rinviano direttamente ai siti della rete. Verde, ecologico, natura illudono e nello stesso tempo annoiano. È terminato il tempo in cui la pubblicità riusciva anche o quasi, a stupire.