A Babji Yar, un enorme burrone vicino a Kiev, tra il 29 e il 30 settembre 1941 i nazisti dell’Einsatzgruppe C e reparti ausiliari ucraini gettarono i corpi di 33.771 ebrei. Costoro si presentarono “volontariamente” agli aguzzini, ignari del vile tranello da copione, mentre le migliaia di altri ebrei morti in quel luogo maledetto furono vittime di retate, anche a seguito di denunce della popolazione locale. Vi furono ammazzati anche russi, ucraini, zingari, prigionieri di guerra e partigiani. La cifra iniziale, che deriva da dettagliati rapporti tedeschi, è superata a tutt’oggi da quella delle vittime palestinesi di Gaza. L’accostamento, che non deve essere inteso come malevolo, frutto com’è di pura narrazione evenemenziale, appare comunque eloquente. Continua così a dispiegarsi la ferocia contro il popolo palestinese, motivata essenzialmente dall’espansionismo israeliano, che ha come pretesto la distruzione di Hamas e Hezbollah.
La coesistenza di antisemitismo e sionismo appare una caratteristica della destra conservatrice, facilmente spiegabile, il primo, nella sua insensatezza, derivando da (quantomeno) pregiudizi che le sono anche storicamente connaturati e che rappresentano per essa un indubbio fattore di coesione, il secondo motivato da ragioni di opportunismo politico, anche relativo alle migrazioni dai paesi arabi. Sembrano portate alle estreme conseguenze le preoccupazioni già espresse dallo scrittore e giornalista David Grossman nel suo “Il vento giallo” del 1987, libro che precedeva l’inizio dell’Intifada nella West Bank e che già esprimeva preoccupazioni sul comportamento dei “coloni” israeliani. Bisogna comunque ricordare che il sionismo, inteso come espansionismo territoriale, è stato ed è osteggiato da una larga parte del mondo ebraico.
Nel gennaio del 2022 Yair Golan, membro israeliano della Knesset, viceministro dell’economia e generale in pensione, aveva denunciato con toni asprissimi certi comportamenti dei coloni israeliani negli insediamenti illegali di Giudea e Samaria, in Cisgiordania. In particolare, Yair Golan aveva tacciato i coloni di essere “subumani”. Le polemiche seguite alle sue dichiarazioni avevano portato ad una sua parziale ritrattazione, ma solo dal punto di vista terminologico, non di contenuti. D’altra parte, abbiamo visto recentemente (“visto” è la parola esatta) coloni israeliani opporsi alla distribuzione o addirittura distruggere aiuti umanitari necessari. Queste azioni non sono giustificabili da nessun punto di vista e rivelano la trasversalità delle pulsioni negative, se così si può dire senza cadere nell’indistinzione di stampo populista.
La criminalizzazione delle proteste, soprattutto studentesche, contro i massacri a Gaza, è molto triste e fa parte, quindi, del “pacchetto” di destra succitato. L’accusa di antisemitismo rivolta agli studenti da parte dei postfascisti è assurda ed al contempo scontata, e provvede il pane a giornalisti asserviti, molti dei quali vediamo sfilare in televisione.
A tutta prima, è chiaro che antisemitismo ed antisionismo vanno a braccetto. Non ci sarebbe neanche bisogno di ricordare le famigerate leggi razziali del 1938, che sanzionano in Italia la discriminazione feroce antiebraica e la disumanità che ne deriva. Il fatto che la destra voglia arrogarsi il ruolo di custode della sicurezza israeliana, sottacendo al contempo, in larga parte, le uccisioni di massa, ritenute in qualche modo necessarie per la repressione del terrorismo palestinese, appare molto problematico, e difficilmente collegabile ad una parvenza di onestà intellettuale.
Ho sempre ritenuto l’antisemitismo l’emblema della discriminazione e del pregiudizio, come tale espressione autentica della “tristezza” e della “povertà” dell’uomo, come sono descritte, ad esempio, nelle opere di Guy de Maupassant, in particolare nei “Racconti neri”. Anche senza scomodare analisi qui certamente inopportune, basterebbe forse riferirsi a Emanuel Carrère, che nel suo stupendo libro “Limonov”, del 2011, con impareggiabile realismo ed ironia, scrive ad un certo punto: “Diffidare degli ebrei è una cosa da zotici con i paraocchi, lenti e goffi…”.
Ho sempre amato gli scrittori ebrei (americani e rispettivamente canadesi), come Philip Roth e Mordecai Richler, in quanto portatori di un’intensità sentimentale universale che in altri, nel mio piccolo, per quanto ho potuto leggere, non ho trovato. E questo fatto non mi pare essere casuale. L’analisi de comportamento individuale, delle piccolezze meschine, diventa letteratura che s’imprime e viene riconosciuta naturalmente come universale, a prescindere dalla sottolineatura di provenienza, che non appare allora in alcun modo limitante. Per esempio, “Nemesi” di Philip Roth è un libro in qualche modo devastante, che lascia un’ombra profonda, secondo me, su un’umanità tormentata ed alla fine irreparabilmente egoista.
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