La folla – unita ebbrezza – par trabocchi
nel campo: intorno al vincitore stanno,
al suo collo si gettano i fratelli.
Pochi momenti come questi belli,
a quanti l’odio consuma e l’amore,
è dato, sotto il cielo, di vedere.
(Umberto Saba)
Lo sport attuale è essenzialmente il discorso sulla stampa sportiva.
Esiste soltanto la chiacchiera sulla chiacchiera dello sport.
La chiacchiera sulla chiacchiera della stampa sportiva
rappresenta un gioco con tutte le sue regole:
basta ascoltare quelle trasmissioni radiofoniche della domenica mattina
dove si finge (elevando lo sport alla potenza) che alcuni,
cittadini radunati dal barbiere discorrano di sport.
(Umberto Eco)
“La squadra del vostro cuore ha vinto…brindate con Stock 84, non ha vinto? Consolatevi con Stock 84…” era il finalino dello sponsor di Tutto il calcio minuto per minuto nato alla radio nel 1960, nei primi anni soltanto con la cronaca dei secondi tempi (si temeva un calo di pubblico negli stadi), poi dal 1977 di tutta la partita e anche le voci iniziarono a essere note: Enrico Ameri, Roberto Bortoluzzi, Aldo Provenzali, Sandro Ciotti, Riccardo Cucchi, Carlo Nesti, Piero Pasini, Adone Carapezzi, Ezio Luzzi, Emanuele Dotto ecc. Ma sempre nell’anno delle Olimpiadi a Roma, arriva il calcio per immagini sul piccolo schermo televisivo nei bar dove si accalcavano i tifosi, anche quelli reduci dallo stadio, ma in bianco e nero e con immagini nebbiose e poco definite) era la sintesi del secondo tempo di una partita, (di solito quella con molti goal, non necessariamente la partita clou della domenica, preferendo per motivi tecnici i campi di Roma o di Milano) le primissime prive di telecronaca, poi con Nando Martellini, Giorgio Martino, Bruno Pizzul ecc. Oltre il transistor o la radiolina incollata all’orecchio, arriva sul divano La Domenica sportiva nel 1965, ampliando la rubrica Telesport, il notiziario trasmesso in coda telegiornale della notte e anticipato dal 1957, prima o dopo Carosello. Venne affidata al conduttore Enzo Tortora con una novità strabiliante: la moviola. Seguiranno poi Lello Bersani, Alfredo Pigna, Paolo Frajese, Adriano De Zan, Tito Stagno, Gianni Minà ecc. Nel 1970 le prime immagini di tutte le partite con Novantesimo minuto alle 17,45 (mezz’ora o poco più dalla fine delle partite) condotta con Paolo Valenti e Maurizio Barendson, Fabrizio Maffei, Gian Piero Galeazzi ecc. I commenti da tutti gli stadi con figurine di giornalisti diventate note (mezzi busti in giacca e cravatta di varia stazza fisica con una scarsa dimestichezza con il video, il linguaggio fortemente declinato in modo regionale – quando non dialettale – al limite del ridicolo, circondati e tormentati dai tifosi) come Cesare Castellotti da Torino, Tonino Carino da Ascoli, Luigi Necco da Napoli, Franco Strippoli da Bari, e la prima donna da Roma: Donatella Scarnati. Capace però, negli anni Settanta di catturare 20 milioni di spettatori con immagini, diventate a colori dal 1977. Voci e immagini avevano fatto nascere il linguaggio del calcio, prima fatto di una dozzina di parole inglesi (cross, corner, dribbling, penalty), o derivate, come stopper. Anche con neologismi come il “centromediano metodista” o attributi a vari giocatori, come toccò a Rivera, definito da Brera “l’abatino”.
Una canzonetta di Rita Pavone: “La partita di pallone”, hit del 1962, divenne famosa perché segnalava involontariamente – in negativo – un fenomeno collettivo: il crollo di alcune ritualità negli anni del Boom e del benessere: il pranzo di famiglia nelle trattorie fuori porta ma soprattutto il pomeriggio della domenica, solitamente trascorso al cinematografo da tutta la famiglia e tra fidanzati.
“Perché, perché la domenica mi lasci sempre sola? p-per andare a vedere la partita di pallone perché, perché u-una volta non ci porti pure me? chissà, chissà se davvero vai a vedere la tua squadra o se invece tu mi lasci con la scusa del pallo-o-o-one chissà, chissà se mi dici una bugia o la verità. Ma un giorno ti seguirò perché ho dei dubbi che non mi fan dormir. e se scoprir io potrò che mi vuoi imbrogliar da ma-a-a-a mamma ritornerò”.
Se gli intellettuali snobbavano il pallone, non tutti, come Jorge Luis Borges (Il calcio è popolare perché popolare è la stupidità) o George Orwell (Un’invenzione diabolica dell’impero britannico per addomesticare gli oppressi del mondo, un serbatoio dove si raccolgono e si nutrono odio e violenza. Una guerra meno lo sparo), Pier Paolo Pasolini sosteneva che il football dopo la letteratura e il sesso, era il più grande piacere della vita, arrivando a scrivere un lungo articolo:
Il football è un sistema di segni, cioè un linguaggio. Esso ha tutte le caratteristiche fondamentali del linguaggio per eccellenza, quello che noi ci poniamo subito come termine di confronto, ossia il linguaggio scritto-parlato. Infatti, le “parole” del linguaggio del calcio si formano esattamente come le parole del linguaggio scritto-parlato. Ora, come si formano queste ultime? Esse si formano attraverso la cosiddetta “doppia articolazione” ossia attraverso le infinite combinazioni dei “fonemi”: che sono, in italiano, le 21 lettere dell’alfabeto. I “fonemi” sono dunque le “unità minime” della lingua scritto-parlata. Vogliamo divertirci a definire l’unità minima della lingua del calcio? Ecco: “Un uomo che usa i piedi per calciare un pallone è tale unità minima: tale “podema” (se vogliamo continuare a divertirci). Le infinite possibilità̀ di combinazione dei “podemi” formano le “parole calcistiche”: e l’insieme delle “parole calcistiche” forma un discorso, regolato da vere e proprie norme sintattiche. (…) I cifratori di questo linguaggio sono i giocatori; noi, sugli spalti, siamo i decifratori: in comune dunque possediamo un codice. Chi non conosce il codice del calcio non capisce il “significato” delle sue parole (i passaggi) né il senso del suo discorso (un insieme di passaggi). (…) Ebbene, anche per la lingua del calcio si possono fare distinzioni del genere: anche il calcio possiede dei sottocodici, dal momento in cui, da puramente strumentale, diventa espressivo. Ci può̀ essere un calcio come linguaggio fondamentalmente prosastico e un calcio come linguaggio fondamentalmente poetico. Per spiegarmi, darò – anticipando le conclusioni – alcuni esempi: Bulgarelli gioca un calcio in prosa: egli è un “prosatore realista”; Riva gioca un calcio in poesia: egli è un “poeta realista”. Corso gioca un calcio in poesia, ma non è un “poeta realista”: è un poeta un po’ maudit, estravagante. Rivera gioca un calcio in prosa: ma la sua è una prosa poetica, da “elzeviro”. Anche Mazzola è un elzevirista, che potrebbe scrivere sul “Corriere della Sera”: ma è più poeta di Rivera; ogni tanto egli interrompe la prosa e inventa lì per lì due versi folgoranti. Si noti bene che tra la prosa e la poesia non faccio distinzione di valore; la mia è una distinzione puramente tecnica. Ci sono nel calcio dei momenti che sono esclusivamente poetici: si tratta dei momenti del “goal”. Ogni goal è sempre un’invenzione, è sempre una sovversione del codice: ogni goal è ineluttabilità, folgorazione, stupore, irreversibilità. Proprio come la parola poetica. Il capocannoniere di un campionato è sempre il miglior poeta dell’anno. In questo momento lo è Savoldi. Il calcio che esprime più goals è il calcio più poetico. Anche il “dribbling” è di per sé poetico (anche se non “sempre” come l’azione del goal). Infatti, il sogno di ogni giocatore (condiviso da ogni spettatore) è partire da metà campo, dribblare tutti e segnare. Se, entro i limiti consentiti, si può immaginare nel calcio una cosa sublime, è proprio questa. Ma non succede mai. È un sogno (che ho visto realizzato solo nel film I Maghi del pallone da Franco Franchi, che, sia pure a livello brado, è riuscito a essere perfettamente onirico). Chi sono i migliori “dribblatori” del mondo e i migliori facitori di goals? I brasiliani. Dunque, il loro calcio è un calcio di poesia: ed esso è, infatti, tutto impostato sul dribbling e sul goal. Il catenaccio e la triangolazione (che Brera chiama geometria) è un calcio di prosa: esso è infatti basato sulla sintassi, ossia sul gioco collettivo e organizzato: cioè sull’esecuzione ragionata del codice. Il suo solo momento poetico è il contropiede, con l’annesso “goal” (che, come abbiamo visto, non può che essere poetico). Insomma, il momento poetico del calcio sembra essere (come sempre) il momento individualistico (dribbling e goal; o passaggio ispirato). Il calcio in prosa è quello del cosiddetto sistema (il calcio europeo): in questo schema il “goal” è affidato alla “conclusione”, possibilmente di un “poeta realistico” come Riva, ma deve derivare da una organizzazione di gioco collettivo, fondato da una serie di passaggi “geometrici” eseguiti secondo le regole del codice (Rivera in questo è perfetto: a Brera non piace perché si tratta di una perfezione un po’ estetizzante, e non realistica, come nei centrocampisti inglesi o tedeschi). Il calcio in poesia è quello del calcio latino-americano: il suo schema, per essere realizzato, deve richiedere una capacità mostruosa di dribblare (cosa che in Europa è snobbata in nome della “prosa collettiva”); e il goal può essere inventato da chiunque e da qualunque posizione. Se dribbling e goal sono i momenti individualistici-poetici del calcio, ecco quindi che il calcio brasiliano è un calcio di poesia. Senza far distinzione di valore, ma in senso puramente tecnico, in Messico [Olimpiadi 1968] è stata la prosa estetizzante italiana a essere battuta dalla poesia brasiliana”.
Il pane quotidiano dei tifosi sono stati i giornali sportivi, in primis La gazzetta dello sport, oggi vende 166.000 copie, più o meno come negli anni Dieci del secolo scorso, nel 1975 invece veniva letto da quasi 2 milioni di sportivi, nel 1982 raggiunse addirittura i 3 milioni, nel 2006 era scesa a 2 milioni e mezzo, poi il lento declino, complice l’abbuffata di sport in TV (reti RAI e MEDIASET irrompono con programmi specifici, quasi quotidiani) ma con l’avvento di SKY e DAZON e di altre piattaforme, oggi c’è sugli schermi quasi una partita al giorno, con un ampia scelta di gare nazionali e internazionali.
Il linguaggio oggi è irriconoscibile rispetto al passato, assume una funzione minore rispetto alle immagini poiché abbiamo fino a 50 telecamere sul campo, un cronista tra le panchine, un radiocronista e il commento tecnico (ex giocatore o allenatore a spasso), oltre a interviste sul campo, conferenze stampa e dibattito tra esperti. Un linguaggio forzato, gridato, sottoposto alle leggi e alla logica dello show, che vive di contradditorio e dello scontro tra opinioni diverse. Da qui la neo-figura dell’opinionista (ex giocatore o ex allenatore, chiacchiera sciolta da tifoso e condensato di banalità). Così per evitare la noia dello spettatore si è inventato un nuovo linguaggio astruso – un po’ come quello dei sommelier –, in tal modo i luoghi comuni più trivi ripetuti centinaia di volte hanno creato una neolingua fatta si espressioni (metaforiche o metonimiche) ridicole:
- ♠ attaccare la profondità al posto di portarsi in avanti;
- ♣ il pullman davanti alla porta, ovvero tutta la squadra a difendere;
- ♥ avere la superiorità numerica (eppure il numero dei giocatori è lo stesso);
- ♦ il glossario degli schemi: si passa da un 3-3 4 a un 4-4-2, ma quando difende si schiera con un 4-4-2-1;
- ♠ arrivano i cross dai quinti (sono i due esterni) in un 3-5-2;
- ♣ prendere lo spazio;
- ♥ il piede forte (un giocatore destro che gioca a sinistra e viceversa);
- ♦ la giusta determinazione;
- ◊ impattare la palla;
- ♥ le seconde palle;
Quando le orecchie si rifiutano di percepire un simile sciocchezzaio, se si vuole godere la partita, è meglio togliere l’audio dalla Tv e immaginare di essere allo stadio con uno stacco perentorio.
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