Il volto francese di una rivoluzione conservatrice globale

 

Il macronismo e il Raggruppamento Nazionale, nel loro doppio rifiuto della destra e della sinistra e nel comune rifiuto di un “sistema” di cui tuttavia beneficiano ampiamente, occupano entrambi la stessa posizione nello spettro politico, quello dei conservatori.

Da un’elezione all’altra, i risultati elettorali e i commenti che ne derivano girano in tondo, lasciando spesso la sensazione che abbiamo il giorno sbagliato e il podcast sbagliato. Rimaniamo con la feccia delle notizie. Mancano due prospettive. Da un lato, la visione della sociologia storica che dà immediatamente agli eventi contemporanei la loro profondità di campo. Dall’altro, l’esercizio del confronto che inscrive la singolarità delle società nella banalità dell’universalità.

La vena storica del Centro Estremo

Sotto la prima luce, quella della sociologia storica, Emmanuel Macron, qualunque sia l’uomo “nuovo” che affermava di essere, non è mai stato altro che l’ultimo avatar di una vecchia figura di dominio politico francese: quello dei “Perpetui” del Centro Estremo che assunse i volti successivi dei Termidoriani e il loro riciclaggio nel Primo Impero; della setta dei sansimoniani che costruirono la loro prima arma economico-amministrativa nella modernizzazione dell’Egitto e fornirono al Secondo Impero gran parte della sua élite economica; dell’alta amministrazione che garantisce, dietro le quinte delle crisi ministeriali della Terza e Quarta Repubblica, la continuità dello Stato (e degli interessi privati ​​ad esso collegati); di Vichy (il cui compromesso con l’occupante nazista e la responsabilità della Shoah oscurano il contributo tecnocratico alla trasformazione dello Stato da cui rimaniamo dipendenti); e ovviamente la Quinta Repubblica gallica.

Il denominatore comune in queste successive incarnazioni del Centro Estremo Termidoriano è il riformismo autoritario dotato, o meno, di simboli democratici di orientamento plebiscitario, e al costo di una certa infantilizzazione delle persone di cui pretendiamo di servire la grandezza e la prosperità, con più o meno successo o plausibilità. Emmanuel Macron è un puro prodotto o, come diranno le malelingue, una caricatura smorfia di questo filone storico.

La sua particolarità, da questo punto di vista, è dovuta alle affinità elettive che mantiene, o che ha lasciato maturare in lui, con le correnti più conservatrici, anche reazionarie e perfino vichy, della tradizione del Centro Estremo. Fin dalla sua campagna pre-elettorale, nel 2016, aveva rivelato questi tratti caratteriali andando a onorare la Pulzella d’Orléans, visitando Puy-du-Fou, sostenendo che la Francia non aveva pianto la perdita della morte del re (di quale re?). Una volta eletto, ha esaltato la Francia dei monasteri, della basilica di Saint-Denis e di Notre-Dame de Paris, di cui non ha una visione molto ugoliana e di cui l’incendio del 2019 lo ha provvidenzialmente incaricato della ricostruzione.

A poco a poco Emmanuel Macron si è allineato alle posizioni dell’estrema destra, attraverso tattiche elettorali, con il successo che abbiamo visto, flirtando con l’idea della preferenza nazionale, in particolare durante il voto sulla legge contro l’immigrazione nel 2023. Ma anche, più seriamente, appropriandosi dei suoi temi, come l’esaltazione dell’autorità, dell’ordine e dell’eroismo, la critica al wokismo, agli “studi di genere” e all’“islamo-sinistra”, e adottando il suo vocabolario di “selvaggio”, “de-civilizzazione” , se non “ottimo sostituto”. In silenzio, lavora alla “riconciliazione” tra la Francia di Pétain e quella di de Gaulle, una vecchia chimera che Éric Zemmour riattiva ma alla quale Emmanuel Macron non si è mostrato insensibile anche a costo di respingere il suo primo ministro, Elisabeth Borne, in Consiglio dei Ministri, che ebbe il coraggio di respingere ogni indulgenza nei confronti del Maresciallo.

In materia di autorità, “sicurezza”, immigrazione, immaginazione politica una certa osmosi tra macronismo e fondamentalismo nazionale o movimento identitario si è affermata nel tempo, non senza consacrare l’egemonia che intendeva conquistare la Nuova Destra di Alain de Benoist negli anni ’70.

In sinergia, anche i repubblicani si sono schierati dietro alcune tesi dell’estrema destra, anche se non sono riusciti a contenere uno sfogo contro il cavaliere solitario del loro presidente Éric Ciotti, all’indomani dello scioglimento. E il miliardario Vincent Bolloré ha creato un impero nel mondo dei media e dell’editoria il cui orientamento ideologico è chiaramente presupposto. L’abolizione, da parte di Emmanuel Macron, del canone che consente il finanziamento della radiodiffusione pubblica ne promette anche un quasi monopolio a lungo termine. Nel frattempo, Vincent Bolloré ha svolto il ruolo di mediatore interessato tra Éric Ciotti e Marine Le Pen, il 10 e 11 giugno, e continua a utilizzare il peso di tutti i suoi media per promuovere un riavvicinamento tra LR e RN.

Triste valutazione per un Presidente della Repubblica che, durante la sua prima elezione alla carica suprema, nel 2017, aveva assicurato che non ci sarebbe stato più alcun motivo per votare il Fronte Nazionale. Se giudichiamo le ultime elezioni europee, circa il 40% dei voti oggi sono a favore di idee di estrema destra, sotto varie etichette, a cui saremmo tentati di aggiungere la percentuale di voti espressi a favore del Rinascimento come macroniano “allo stesso tempo” si è trasformato in confusione ideologica con il fondamentalismo nazionale e identitario.

Inoltre, questa sensibilità gode oggi di un’influenza senza precedenti sul panorama culturale. La strategia neogramsciana di conquista dell’egemonia elaborata e perseguita dal GRECE (Gruppo di Ricerca e Studio per la Civiltà Europea, fondato nel 1969) ha prevalso, anche in una parte della sinistra con il pretesto del secolarismo, affermato come religione di stato, ed Emmanuel Macron non è altro che uno degli intellettuali organici tra gli altri.

Il confronto è giusto

È qui che può rivelarsi utile la seconda luce, quella del confronto. Nella sua versione attuale, il Centro Estremo francese assume sempre più il volto di una “rivoluzione conservatrice”, come quella che abbiamo vissuto in Europa (o in Giappone) tra le due guerre. Fu un autore austriaco, Hugo von Hofmannsthal, a introdurre questo termine durante una conferenza tenuta a Monaco nel 1927, su “Le lettere come spazio spirituale della nazione”. Nella storia delle idee o nella sociologia storica della politica, il termine designa diverse correnti della destra nazionalista tedesca che prepararono ideologicamente l’ascesa del nazismo ma che generalmente se ne tenevano alla larga o collaborarono con esso tappandosi il naso prima del tentativo del colpo di stato di luglio 1944 contro Hitler.

Per estensione, tuttavia, la nozione descrive anche i regimi nazionalsocialisti, Mussolini o affini del periodo tra le due guerre, ai quali possiamo aggiungere, senza grandi contraddizioni, a mio avviso, il kemalismo, lo stalinismo e il militarismo giapponese. Queste diverse “rivoluzioni conservatrici” danno forma politica all’umiliazione e allo sgomento della sconfitta (o della vittoria “mutilata”, nel caso dell’Italia), dell’occupazione straniera, dell’esilio politico, della povertà assoluta che spesso ne è stata la conseguenza.

Proponevano un riscatto della nazione secondo le modalità di un fondamentalismo identitario, generalmente di ordine etnico e/o religioso, e la promozione di un “Uomo Nuovo”, puro prodotto dell’“invenzione della tradizione” di cui parlano gli storici inglesi Eric Hobsbawm e Terence Ranger. Hanno incolpato l’Altro, anche dall’interno, ma anche l’establishment nazionale e internazionale – ebraico, ovviamente – per la disgrazia. Erano alimentati dal risentimento sociale, religioso o etnico contro i colpevoli, anche se erano immaginari. Hanno anche fornito consapevolezza politica della crescente massificazione, tecnicizzazione e competizione della società.

Da tutti questi punti di vista, la rivoluzione copernicana che sta vivendo la Francia e che ha accelerato, nel senso chimico del termine, lo scioglimento dell’Assemblea nazionale è infatti un avatar delle “rivoluzioni conservatrici” del periodo tra le due guerre, così come sentito. Non solo perché le sue forze costituenti fanno proprie anno dopo anno l’eredità ideologica di Vichy o la riattivano per bocca e sotto la penna di Éric Zemmour e dell’ossessivo negazionista antisemita Alain Soral. Ma anche perché alcuni attori politici o ideologici assicurano sociologicamente questa trasmissione.


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Così Jean-Marie Le Pen, direttore nel 1965 della campagna presidenziale di Jean-Louis Tixier-Vignancour (1907-1989) che aveva votato per la cessione dei pieni poteri a Pétain nel 1940, e fu il mandante del furto della bara del Maresciallo, nel 1973, in vista della sua sepoltura a Douaumont. Oppure lo svizzero Armin Mohler (1920-2003), candidato fallito alle Waffen-SS nel 1942, autore di una tesi sulla rivoluzione conservatrice in Germania (1949, pubblicata nel 1950) sotto la direzione di Karl Jaspers, segretario privato di Ernst Jünger (1947-1953), nietzscheano e soreliano, fulcro della riconciliazione franco-tedesca e una delle fonti di ispirazione del GRECE – nonostante le differenze, in particolare riguardo al gollismo e all’Algeria – che frequentò durante i suoi lunghi soggiorni in Francia.

Inoltre, siamo effettivamente in presenza di una consapevolezza del risentimento contro Parigi e le sue élite, un risentimento la cui figura dello straniero – il musulmano invece dell’ebreo, anche se c’è spazio per due – costituisce il comodo capro espiatorio per spiegare tutte le sventure di Parigi e il mondo, a cominciare dal declassamento sociale e nazionale. Armin Mohler vedeva nel fascismo e nel nazionalsocialismo il ricettacolo di coloro che erano delusi dal liberalismo e di coloro che erano delusi dal socialismo. E il macronismo e il Fronte/Rally nazionale, nel loro doppio rifiuto della destra e della sinistra e nel comune rifiuto di un “sistema” da cui tuttavia traggono grandi benefici, occupano entrambi questa posizione nello spettro politico.

La repulsione della nostalgia coloniale e del virilismo primario rivelati dalla forte stigmatizzazione degli studi postcoloniali, della “teoria del genere” – un’invenzione ideologica del Vaticano –, del “wokismo” e dell’“islamo-sinistra” di Jean Castex, Jean-Michel Blanquer, Frédérique Vidal, nel campo macronista – il Presidente della Repubblica è stato molto più ambiguo sull’argomento nonostante si sia assunto la responsabilità di lanciare questa campagna di rettifica ideologica nel 2020 – e per la base dei deputati e attivisti di LR e RN è un sintomo spettacolare di questo risentimento sordo che cova sotto le ceneri storiche della società francese, tormentata dal dolore dei membri amputati del suo impero colorato di rosa sulle mappe delle scuole municipali di un tempo, dal declino del paese nell’ordine di precedenza internazionale e dalla disconnessione dell’Europa nel suo rapporto con gli Stati Uniti e la Cina, e dai “disordini di genere” (Judith Butler) inerenti ai cambiamenti contemporanei nella femminilità, nella mascolinità e nel binario sessuale.

Infine, il confronto è interessante in sincronia. La “rivoluzione conservatrice” francese è la simmetria di ciò che sta accadendo in Ungheria, Russia, Turchia, Iran, Israele, India, Stati Uniti, Africa, America Latina e ora in diversi paesi dell’Europa occidentale. Da un continente all’altro, lo stesso fondamentalismo nazionale di natura etno-religiosa (e sessuale) cerca ovunque i suoi colpevoli. Per usare la nozione dello storico cinese Wolfram Eberhard (1909-1989), siamo in un “tempo mondiale” di “rivoluzione conservatrice” su cui si innestano le diverse società del pianeta, nella propria storicità.

Il confronto tra le “rivoluzioni conservatrici” contemporanee è politicamente e intellettualmente interessante. Ma è anche giustificato dai fatti. Queste ultime sono infatti interconnesse, in particolare su iniziativa del Cremlino che gioca la carta di alcuni partiti di estrema destra dell’Unione europea e sostiene alcune delle “rivoluzioni conservatrici” militari a sud del Sahara, e della destra religiosa americana, molto attivo in Europa centrale e occidentale, Israele, America Latina e Africa.

Basti dire che la situazione è grave, sia in Francia che nel mondo. All’intersezione tra sociologia storica e comparazione, assistiamo non solo allo scoppio di alveari populisti, ma a una profonda ricomposizione della “problematica legittima della politica”, per dirla con Bourdieu, o dell'”egemonia”, per citare Gramsci. I precedenti del periodo tra le due guerre non sono rassicuranti anche se ovviamente nessuno oggi pianifica esplicitamente lo sterminio degli ebrei o di qualunque popolazione, anche se questa ipotesi non deve sembrarci aberrante visti i genocidi o i massacri di massa avvenuti che continuano davanti ai nostri occhi – oggi a Gaza, la sola menzione della quale ti fa accusare di antisemitismo da parte dei macronie.

Le nuove ‘rivoluzioni conservatrici’ stanno già provocando innumerevoli morti, quelle causate dalle guerre nazionaliste e identitarie, dai pogrom, dalla pulizia etnica, dalla criminale proibizione dell’immigrazione e dall’altrettanto inutile proibizione delle droghe. La responsabilità degli elettori francesi del 30 giugno e del 7 luglio è decisamente schiacciante. Ma è anche la responsabilità delle élite politiche, che ancora non rinunciano a manovre meschine e a stigmatizzazioni oltraggiose per screditare gli avversari o mantenere il controllo del loro apparato. Dovrebbero leggere un po’ di più sulla sociologia storica e comparata della politica, per l’amor di Dio! Dovrebbero anche leggere il meraviglioso Histoire d’un Allemand di Sebastian Haffner e la sua analisi del governo del Cancelliere tedesco Brüning (1930-1932), la cui logica era simile a quella del ‘liberale autoritario’ Emmanuel Macron. In Francia, come in diverse democrazie che sono diventate ‘illiberali’, per usare un’espressione ormai consolidata ma discutibile, siamo già in una “semi-dittatura in nome della democrazia e per evitare una vera dittatura” (Histoire d’un Allemand. Souvenirs. 1914-1933, Arles, Acte Sud, 2003, collezione Babel, p. 133).

È questa trappola che dobbiamo sciogliere tra quindici giorni, facendo del ripristino delle libertà pubbliche un obiettivo prioritario, che probabilmente otterrà il sostegno della sinistra, ma anche di una parte significativa della destra, spaventata dalla loro costante erosione negli ultimi trent’anni almeno, prima ancora che le nuove tecnologie di sorveglianza e tracciamento le mettessero in pericolo di vita. Di fronte agli operatori di una ‘semi-dittatura’ e ai sostenitori di una ‘vera dittatura’, facciamo sentire la voce della libertà, una voce in cui potrebbero identificarsi gli elettori che hanno riserve, per non dire altro, sul programma economico del Nuovo Fronte Popolare. Oggi è l’unica ragionevole.

Autore: Jean-François Bayart è professore, titolare della cattedra Yves Oltramare “Religione e politica nel mondo contemporaneo”, presso il Graduate Institute (Ginevra), e presidente del Fondo per l’analisi delle società politiche e della Rete europea per l’analisi delle società politiche Società politiche. Ha diretto per lungo tempo il CERI-SciencesPo (Parigi). Cofondatore della rivista Politique Africaine che ha diretto dal 1980 al 1982, ha anche creato la rivista Critique Internationale che ha diretto dal 1998 al 2003. È direttore della collezione Recherches nationaux presso le Éditions Karthala, che l’ha creata nel 1998. Specialista in sociologia storica comparata della politica, lavora sulla formazione dello Stato nel contesto della globalizzazione e sulle pratiche di soggettivazione politica, in particolare nell’Africa sub-sahariana, in Turchia e in Iran. Ha pubblicato Violence and Religion in Africa nel 2018 con Karthala.

Fonte: AOCMedia, 19-06-2024


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