Ogni uomo ha una proprietà nella sua stessa persona.

La libertà consiste nel fare ciò che si desidera,

a condizione che non danneggi gli altri.

(John Stuart Mill. 1806-1873)

Non è dalla benevolenza del macellaio, del birraio o del fornaio

che ci aspettiamo la nostra cena,

ma dalla loro considerazione del proprio interesse.

(Adam Smith)

Credo che il miglior governo sia quello che governa meno.

(Benjamin Franklin)

 

Un fantasma, uno spettro si aggira per l’Europa… tranquilli: non è il comunismo. Ci sono case, sedi politiche o di partiti abitate da ectoplasmi. Per fortuna c’è chi crede ai fantasmi e ancora si proclama liberale.

Eppure, il pensiero liberale ha radici profonde nella storia della filosofia e della politica. I suoi principi possono essere quelli “classici” del passato o quelli del liberalismo contemporaneo. Nel periodo Classico si concentravano sulla Libertà Individuale, che si concretava nel perseguimento dei propri obiettivi e interessi, senza che avvenissero interferenze ingiustificate da parte dello Stato o di altre istituzioni. Sui Diritti Naturali, inalienabili per natura, quali il diritto alla vita, alla libertà e alla proprietà. Sul Governo Limitato nei suoi poteri e funzioni, cioè l’autorità dello Stato si legittimava solo quale protezione dei diritti e delle libertà degli individui. Sul Libero Mercato, perché la concorrenza economica promuovesse il benessere economico e la sua crescita.

In seguito, i liberali contemporanei o neoliberali hanno insistito sull’uguaglianza delle opportunità e qui esplode una serie di contraddizioni: lobbies, finanziamento da parte dello Stato all’imprenditoria per ammodernamento o ricatto politico delle associazioni di categoria, (Assoindustria, Confindustria, Confartigianato, Banche, agricoltori, esercenti, ecc.) dazi doganali a limitare la concorrenza e il proprio profitto per innalzare il PIL della nazione. Solo a parole, il sostegno alla Globalizzazione e a una Governance Internazionale, che promuova la pace, la cooperazione economica e i diritti umani, mentre il vero obiettivo rimane la “crescita” progressiva e selvaggia (leggi: profitto privato con azioni di speculazione finanziaria, tentativi monopolistici di imporre una bassa concorrenza) in favore del PIL. La demonizzazione della spesa pubblica di keynesiana memoria fa da contraltare.

Così, dalle belle intenzioni dei “Padri” – che comunque hanno sempre voluto e imposto un pauperismo sociale prodotto del Laissez-faire, laissez passer –, si è giunti a un individualismo estremo che ha progressivamente indebolito il senso di comunità e di responsabilità sociale. Esaltando egoismo e apatia verso i bisogni collettivi grazie alla deregulation del mercato – un sacro santuario per molti economisti – che ha sempre conosciuto crisi cicliche, (come quelle del 1848, del 1857, del 1873, del 1907, del 1929, del 1973, del 1997, del 2002, del 2008, del 2011) a scapito dei consumatori, dei lavoratori e dell’ambiente mondiale. Infatti, le implicazioni negative della globalizzazione, come la perdita di posti di lavoro locali, la disuguaglianza globale e i flussi migratori senza alcuna adeguata politica di sostegno, sono costantemente ignorate e affossate, sostenendo che le opportunità in sé e di per sé sarebbero sufficienti a garantire una società giusta e moderna. Si tratta del vecchio argomento, ormai destituito di fondamento anche a livello dell’analisi quantitativa (vedi la “Teoria dei Giochi” e la “Finanza quantitativa” in matematica applicata) della capacità di autoregolamentazione dei mercati. Anche la teoria del governo limitato è inadeguata per affrontare problemi collettivi come la povertà, la sostenibilità della sanità pubblica ed il cambiamento climatico, ed in definitiva alimenta quei risentimenti nazionalisti e populisti che hanno tombato i vari partiti “liberal”. I sistemi sanitari ed educativi selvaggiamente privati accelerano le disuguaglianze sociali, lasciando la maggioranza della popolazione senza accesso ai servizi essenziali, incredibilmente in nome del popolo e dell’individuo, che retoricamente ne fa parte poiché è l’insieme degli individui, e solo per mero caso non si sente più dire “lo Stato sono io”.

D’altra parte, il liberalismo ha sempre risentito di una radicale povertà di analisi economico-quantitativa, che si installasse su un ben descritto impianto sociologico, e questo insanabile peccato originale lo contrappone, in senso anche, per così dire, “morale”, al “marxismo”, regno di una visione articolata, almeno tentata, che prescinde dall’individualismo e consente di superare, a livello aggregato (che è poi quello che interessa) gli egoismi. La prevalenza dell’individuo è inevitabilmente foriera di disuguaglianze a cui non si può porre riparo in assenza di regolamentazione statale, dal momento che il capitalismo impera con l’ereditarietà e l’immobilizzazione del denaro, fonte di impoverimento e di dominanza. Non lo ha spiegato così bene Thomas Picketty ne “Il capitale del XXI secolo”?

L’Italia si è costituita come Stato liberale mediante lo Statuto Albertino, lo stesso del 4 marzo 1848, attraversando il ventennio fascista fino alla Costituzione repubblicana del 1948. Sull’altare del pensiero liberale, dopo aver messo Cavour (che lasciò alla sua morte un Piemonte indebitato fino – no oltre – il collo), Giovanni Giolitti industrializzò il paese portandolo al colonialismo straccione ed alla carneficina della Grande Guerra, da cui l’Italia uscì economicamente sconfitta. Il filosofo Giovanni Croce, col suo spiritualismo Hegeliano, non si oppose per incapacità alla dittatura fascista. Lo spirito dell’economista Luigi Einaudi (secondo Presidente della Repubblica) condusse la Democrazia Cristiana (talvolta con l’appoggio del Partito Liberale di Malagodi) al Boom Economico del 1955-1960, dividendo ancor più il paese in Nord-Sud, portando ad una emigrazione interna-esterna, accentuando il divario sociale ed economico nel paese. La cura, “La cassa del mezzogiorno”, in quarant’anni è costata 140 miliardi di euro e 40 milioni di dollari dalla Banca Mondiale, investimenti finiti dalle mafie ai partiti politici o ad accaparratori di varia specie. Risultati: nessuno, se non aiutare a estinguere la Prima Repubblica.

Ma se non c’è limite al peggio, dopo lo scandalo di Tangentopoli (oggi pressoché cancellato dai media, salvo accusare scompostamente i giudici in nome di un sempre vivo cannibalismo elettorale), compare il vero fantasma del pensiero liberale: Silvio Berlusconi. Da “l’Italia è un Paese che amo” alla “rivoluzione liberale”, per vent’anni è stato l’unico sovrano di un partito con uno slogan da stadio, che si è rivelato il più illiberale della storia, sostenuto da un sistema monopolistico che controllava televisioni, stampa, industria culturale, editoria. Uno straordinario illusionista che si è fatto “leggi ad personam” e raccontando barzellette ha gestito economia e governo fino a portare il nostro paese ad un passo dal baratro e dalla bancarotta. Tutte cose ormai dimenticate e sepolte che aleggiano come fantasmi in un orizzonte buio e tempestoso. Con buona pace dell’estremo tentativo di protesta dei generosissimi Bo-Bi (“Boicottate il Biscione”), che nel 1993 si opposero, di fronte alla palesata preferenza di Berlusconi per Gianfranco Fini.  Ma verrebbero in mente svariati episodi… .

L’impero mediatico berlusconiano, costruito sull’inganno della finzione della “diretta”, che porterà alla famigerata “legge Mammì” di craxiana memoria, simbolo della resa dello Stato al Privato, è prodromico, anzi propiziatore, dell’avvento al governo del partito erede di Salò, necessario per rimanere al potere e perpetrare la manipolazione. Così è andata, partendo dalle privatizzazioni di Bettino Craxi (ce le ricordiamo?), tristemente sbandierate come elemento di modernità che avrebbe dovuto favorire gli operai (l’abolizione della Scala Mobile!), ad uccidere la lotta di classe, in nome anche della sottolineatura di diritti individuali che prescindono dal censo. Preme ricordare, a questo proposito, il “liberale” Marco Pannella, il cui “Partito Radicale” era tutt’altro che composto da “compagni”, come azzardò il simpatico Giorgio Gaber nella sua nota canzone “Destra-Sinistra”. E sono proprio i Radicali – che strano! – tra i primi (forse i primi, addirittura) a farsi portabandiera dell’abolizione dell’articolo 18 e dell’adozione del Jobs Act, “la precarizzazione sia con noi”. Se non è liberalismo questo!

Il liberalismo, così, si apparenta naturalmente, come si è detto, al “Globalismo, e quindi con la morte e relativa sepoltura della contrattazione collettiva, che avrà avuto i suoi difetti, ma comunque consentiva il perseguimento degli interessi dei più deboli; il relativo, indiscriminato attacco ai sindacati iniziato da quando ottenerono lo Statuto dei Lavoratori ed in definitiva con la fine della “classe operaia”, a cui sembra precluso il Paradiso (dal titolo “La classe operaia va in Paradiso”, il film del 1971 di Elio Petri con Gian Maria Volontè, che era tragicomico fin dal titolo). Sembrano fatti e riflessioni obsolete, che troviamo rarissimamente sulla stampa, sui “Social” o in TV, sarebbero inevitabilmente tacciate di “Comunista”, forse anche da parte di un proletario.

  1. Non abitiamo in ZTL e ci piace il barbecue con cui grigliare le parole.

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