Il popolo che verrà (1/2): unione della destra vs fronte popolare

 

Di fronte all’ipotesi poco plausibile — ma che non si può escludere — di una condivisione consensuale del potere tra Macron e la RN, dobbiamo riflettere sul significato di un Nuovo Fronte Popolare, senza teorizzarlo, ma evidenziandone sia le difficoltà che il potenziale.

Il disastro politico che ha colpito la Francia il 9 giugno ha colto molti di noi di sorpresa, ma era stato ampiamente previsto. In primo luogo, dai sondaggi, anche se non dovremmo sempre crederci. Ma soprattutto dall’ascesa decennale del Front-Rassemblement National nelle elezioni e nell’opinione pubblica, che ha continuato ad accelerare e ad ampliare la sua base negli ultimi anni.
Alla base di questa ascesa c’è una serie di cause convergenti, ognuna delle quali è ben nota. Errori commessi da politici ‘repubblicani’ che si sono ritenuti capaci di sfruttare Le Pen o sua figlia (dobbiamo forse dimenticare che lo stesso Mitterrand ha ceduto?). Accettazione strisciante dell’idea che “l’immigrazione è un vero problema”, non solo dal punto di vista economico (anche se senza gli immigrati, compresi quelli senza documenti, la Francia non funzionerebbe), ma per la diversità culturale e religiosa che apporta alla società francese e alle società di tutto il mondo. Compromesso con la sicurezza e l’ideologia autoritaria che la RN propaga instancabilmente. Ma anche l’ignoranza o il disprezzo per l’angoscia e la sofferenza che la devastante globalizzazione sta causando nella società e che oggi incoraggia l’ascesa del nazionalismo ovunque. L’eliminazione del dibattito politico a favore di una governance basata sulla premessa dell'”ignoranza del popolo” e l’invasione dello spazio pubblico da parte di “reti sociali” commercializzate.

Il risultato è la denigrazione altezzosa o la repressione violenta di tutti i movimenti che, anno dopo anno, esprimono le richieste della società e ricreano la partecipazione civica. E per coronare il tutto, la demoralizzazione e il disorientamento prodotti nel ‘popolo di sinistra’ dalle divisioni, dalla stagnazione intellettuale, dalla partigianeria, dalle inversioni a U opportunistiche e dai ripetuti tradimenti dei loro impegni da parte di partiti la cui storia era destinata a incarnare un’alternativa al sistema economico dominante, un capitalismo finanziario sempre più feroce e arrogante.

Cos’altro potevamo aspettarci se non una brutale avanzata populista, alla quale gli eredi del vecchio fascismo alla francese stavano lavorando da tempo? E’ appena successo. Come dicono i libri di filosofia, “la quantità si è trasformata in qualità”. Nel giro di un giorno, ci troviamo in un altro paesaggio, addirittura in un altro mondo. E soprattutto, un altro futuro. La rivelazione, la sera di un referendum che si pensava non avesse “alcuna posta in gioco nazionale”, che la cosiddetta Estrema Destra (RN, più ‘Reconquête’, più una percentuale da determinare dei ‘Repubblicani’) era potenzialmente la maggioranza nel Paese, è stata quindi vissuta come un trauma.

È facile capire cosa avrebbe significato l’arrivo al potere di Marine Le Pen, Jordan Bardella e la loro squadra: l’estinzione delle libertà civili a favore di una forza di polizia libera da ogni controllo e obbligo, il monopolio degli imperi mediatici ultra-conservatori e la loro morsa sulla cultura e sull’informazione, la regressione dei diritti sociali e lo smantellamento dei servizi pubblici, la xenofobia omicida incoraggiata e persino formalizzata, un ordine morale, sanitario e carcerario…

Questo primo shock è stato immediatamente seguito da un secondo con effetti molto più contraddittori: l’annuncio ‘regale’ da parte del Presidente della Repubblica, che era stato duramente colpito dal successo dell’avversario da lui stesso designato, dello scioglimento dell’Assemblea Nazionale e delle successive elezioni, praticamente senza campagna elettorale. Infatti, questo colpo di Stato teatrale architettato da un manipolo di consiglieri irresponsabili, all’insaputa del Governo e con grande dispiacere dei suoi stessi fedelissimi, rivelando il pericolo imminente di un cambio di regime, ha messo alle strette tutti coloro che non possono rassegnarsi ad andare a dormire così senza fare nulla. Troppe esperienze storiche ci insegnano che l’unica via d’uscita è a lungo termine, e a un prezzo terribile. Se ne usciamo.

Per tutti noi cittadini, non si trattava di dire a noi stessi: lasciamo passare questo brutto giro e aspettiamo che dimostrino la loro incapacità… Al contrario, era ovvio che avevamo bisogno di una sveglia, di una manifestazione, di una mobilitazione. Nel giro di poche ore sono stati lanciati degli appelli in tal senso. Un piccolo gruppo di leader di sinistra che, nel naufragio del NUPES, avevano mantenuto legami di fiducia e di immaginazione tra loro, ha preso l’iniziativa di riunire i partiti, emarginando allo stesso tempo coloro che, da entrambe le parti, avevano trasformato la competizione elettorale in una frattura ideologica e personale. I sindacati, che sono rimasti uniti dopo la campagna contro la riforma delle pensioni, hanno indetto manifestazioni per unire le forze sociali e democratiche nella lotta contro la povertà.

Un libero elettore di La France Insoumise, il deputato François Ruffin, ha lanciato l’idea di un nuovo ‘Fronte Popolare’, che è stato subito acclamato, arricchito da un esplicito riferimento all’ecologia e inscritto dal suo stesso nome in una tradizione che associa l’unità delle forze di sinistra con lo sbarramento repubblicano di fronte al pericolo fascista. È questa idea che sta guidando lo sviluppo della strategia e del programma elettorale dei quattro partiti che aspirano alla maggioranza nella prossima assemblea, e che costituisce l’orizzonte delle mobilitazioni e delle consultazioni che stanno prendendo forma. Sto semplificando, ovviamente. Lo shock non è diminuito, l’equilibrio di potere nel Paese non è stato invertito, ma si è aperta una prospettiva di resistenza e di alternativa, e di conseguenza è tornata la speranza. Il peggio non è certo, e la sconfitta collettiva annunciata potrebbe trasformarsi in una controffensiva, se si verificano molte condizioni favorevoli.

Sottoscrivo pienamente questa prospettiva. Tra l’altro, in tutti i tipi di contesti che possono essere locali, professionali o nazionali, voglio cercare di contribuirvi come cittadino e come intellettuale. Per questo, non ho la pretesa di influenzare le decisioni e i negoziati, né di elaborare linee guida. Piuttosto, a beneficio mio e di tutti coloro che desiderano confrontarsi con altre ipotesi, propongo di ‘problematizzare’ questa idea di fronte popolare, illustrando sia le sue difficoltà che il suo potenziale. Sono sicuro che non è nata dal nulla, ma posso anche capire che si tratta di una sorta di ‘scoperta’, e l’esperienza dirà se è stata felice o meno.

Sono colpito sia dal numero di proposte che ha stimolato, sia dalle imprecazioni che ha provocato, stabilendo fin dall’inizio una polarizzazione che può evolvere (e che dobbiamo sperare porti a chiarimenti piuttosto che a processi alle intenzioni). ⌊1] Non è certo mia intenzione fornire una ‘teoria’ di questo, ma evidenziare, attraverso alcune questioni di storia, linguaggio o strategia, la natura degli ostacoli che vedo e le risorse che potrebbero essere utilizzate contro di essi.

Il ‘rischio’ corso da Macron e il gioco della destra: il terzo scenario

La prima questione che mi sembra debba essere discussa, anche se — data la struttura delle istituzioni e il metodo un po’ particolare dell’attuale governo — qualsiasi risposta deve includere un certo grado di congetture, è quella della strategia seguita dal Presidente e delle opzioni che prevede.

Fin dall’inizio, la stampa ha insistito sull’idea che egli stia “rischiando molto” o “giocando a poker”. Questo è ovvio, purché si chiarisca che il rischio è per lui e per coloro che lo seguono, ma soprattutto per gli altri, per il Paese e quindi per tutti noi, materialmente ed esistenzialmente. Il rischio di un blocco della capacità governativa, o addirittura di caos e scontri violenti, che aprono la strada a iniziative autoritarie: la Costituzione della Quinta Repubblica, in parte redatta sotto l’influenza delle idee schmittiane sullo ‘stato di eccezione’, offre facilitazioni in questo senso. Rischio di una crisi delle finanze dello Stato, che mette a rischio la continuità dei servizi pubblici e delle politiche economiche, a causa dell’esplosione del debito. Rischio di delegittimare il sistema politico rappresentativo. E così via.

Ma se torniamo agli obiettivi del Presidente, vedo che solo due scenari sono principalmente previsti dagli analisti: quello di un improbabile ‘recupero’ del Macronismo che, contro ogni logica, sarebbe riuscito a presentarsi ancora una volta come il baluardo contro l’arrivo del Lepénismo al potere, e quello di una vittoria del RN (ora sostenuto da diversi alleati) che otterrebbe la maggioranza assoluta e imporrebbe la coabitazione. Quest’ultima promette di essere conflittuale e quindi esposta a ogni sorta di sconvolgimenti interni ed esterni. In effetti, il Presidente, allontanandosi dal modello gollista di cui a volte imita gli atteggiamenti, ha escluso di dimettersi in caso di sconfitta del suo schieramento.

Queste ipotesi sono di buon senso, ma mi sembra che siamo troppo veloci nell’escluderne una terza, ancora più ‘rischiosa’ delle precedenti, che deriva dalle forze presenti, dall’evoluzione del loro discorso e dalle tendenze osservabili a livello internazionale: quella di un’alleanza ‘innaturale’ tra gli avversari, e quindi di una condivisione consensuale del potere tra Macron e la RN, incarnata da Bardella come Primo Ministro (con Marine Le Pen più o meno in disparte). Consensuale non significa, ovviamente, privo di secondi fini e di intenzioni omicide: possiamo concordare di cercare di distruggerci meglio a vicenda.

Questa ipotesi è certamente poco plausibile[2], ma sono state sollevate una serie di obiezioni contro di essa. Innanzitutto, la resistenza che susciterebbe in entrambi i campi. E quindi le defezioni che ne deriveranno (soprattutto da parte macronista, poiché è prevedibile che l’ascesa al potere rappresenti per i politici di estrema destra che hanno nel mirino il 2027 un bonus che vale tutte le concessioni). Poi ci sono le questioni di vanità personale, che sono inestricabilmente legate alla distribuzione delle aree riservate e delle prerogative tra la Presidenza e il Governo, e quindi al modo in cui vengono negoziati i compromessi e le svolte. Infine, ma non meno importante, c’è la questione delle differenze nei programmi e negli slogan.

L’RN sta aumentando il suo elettorato utilizzando il linguaggio della critica violenta al “macronismo” e, più in generale, al “sistema” (una vecchia tradizione dell’estrema destra). Si è proclamato il difensore del tenore di vita e della dignità della gente comune, l’avversario intransigente della tecnocrazia di cui Macron e il suo entourage sembrano essere la pura incarnazione. Il suo ‘sovranismo nazionale’ sembra essere l’antitesi dell’europeismo che Macron proclama alla Sorbona e per il quale sostiene di essere il leader negli organi dell’UE. Questo vale sia per la sua posizione nei confronti della Russia e della conduzione della guerra in cui l’Unione Europea è coinvolta in Ucraina, sia per la protezione delle imprese francesi dalla concorrenza internazionale. Eppure… la decisione immediata di Bardella di ritirare l’abrogazione della riforma delle pensioni dal suo programma dimostra che i principi sono flessibili. Interpretata come un modo per facilitare l’alleanza con la destra ‘tradizionale’ (LR), questa decisione potrebbe altrettanto facilmente — insieme ad altre dello stesso tipo — facilitare l’accordo con i Macron, Darmanin e Lemaire, per i quali questa riforma imposta contro l’intero Paese è diventata un totem.

In politica internazionale, il modello ‘occidentalista’ di Giorgia Meloni potrebbe indicare la strada, allentando al contempo alcuni legami con Mosca che sono diventati pericolosi. Naturalmente, non bisogna esagerare, perché l’elettorato si sentirebbe tradito fin dal primo giorno (come gli elettori di sinistra di Hollande nel 2012). O, per essere più precisi, è necessaria una certa scienza del doppio linguaggio. Ma a meno che non rischi una crisi istituzionale prima del tempo, il RN ha bisogno che Macron e la tecnocrazia che lo circonda siano in grado di utilizzare la macchina amministrativa dello Stato, la cui cultura e le cui reti di influenza gli sono in gran parte estranee (con la notevole eccezione della polizia).

Macron, da parte sua, deve evitare una guerriglia tra i poteri (di cui le precedenti convivenze della Quinta Repubblica danno solo una pallida idea) se vuole continuare a presentarsi come un ‘capo’ sulla scena internazionale (che è il suo punto di vanità per eccellenza), ed evitare il declassamento della Francia agli occhi delle istituzioni finanziarie europee e globali. E c’è da scommettere che i leader e i portavoce del capitalismo francese daranno il loro appoggio, citando il realismo economico, l’interesse nazionale e i rischi ‘sistemici’ di un conflitto politico aperto nel cuore dell’Europa.

Tuttavia, si possono già individuare le prime aree di accordo, che consentono di appianare le differenze, se non di riconciliare tutti gli interessi. Me ne vengono in mente almeno due, grandi come case. La prima è la xenofobia, e quindi la politica di repressione dei migranti e dei rifugiati, che il voto sulla legge Darmanin, che istituisce per la prima volta in Francia la ‘preferenza nazionale’, ha più che messo in moto con i voti della RN. A questo si aggiunge, naturalmente, la guerra al “comunitarismo” e al “separatismo” rivolta a milioni di residenti e cittadini di origine straniera, basata di fatto sulla razza.

Il secondo è il programma per ripristinare l'”autorità” civile, educativa e familiare e promuovere il patriottismo nella tradizione conservatrice e militarista. Questo programma si sposa molto bene con la difesa dell'”universalismo” inteso come cancellazione dei diritti delle minoranze a cui, anche a costo di qualche battuta d’arresto, la Presidenza Macron ha aderito da tempo, e converge pienamente con i valori proclamati della RN: l’immutabile petainismo francese. Questo non costituisce un ‘programma comune’, ma è comunque un punto di partenza serio.

Vediamo quindi delinearsi uno scenario irto di ostacoli, ma che sarebbe sciocco escludere a priori: una guerra “totale” durante il periodo elettorale tra i portavoce dei due schieramenti (compreso lo stesso Macron), seguita immediatamente, se il risultato gli sarà sfavorevole (e se, naturalmente, la sinistra non riuscirà a bloccare la spirale), da una nuova trovata e da una nuova “assunzione di rischi”: nell’interesse del Paese, per salvare la Repubblica e la posizione internazionale della Francia, per bloccare la strada verso l’anarchia (cioè il Fronte Popolare), il centro e l’estrema destra devono essere riuniti (incorporando la vecchia destra nel processo) e fatti lavorare insieme. In questo modo, il ritorno a una bipolarizzazione della vita politica francese a scapito dei tentativi di governo “né di destra né di sinistra”, annunciato da alcuni politologi, diventerebbe un fatto compiuto.

Una realtà brutale, sinonimo non di un conflitto civile o di una riattivazione dell'”agonismo” politico di cui parlano altri teorici (e che altrove ho chiamato “democrazia conflittuale”), ma della criminalizzazione dell’opposizione e della normalizzazione dello stato di eccezione. È anche contro questo pericolo che dobbiamo trovare una risposta, o meglio è questa configurazione che una politica di fronte popolare deve trasformare nel suo opposto, dal punto di vista dell’equilibrio delle forze e dei progetti politici da far emergere.

Fronte Popolare e Unione della Sinistra: qual è la differenza?

Ecco perché non credo sia una perdita di tempo tornare indietro nel tempo e confrontare le circostanze storiche. Il riferimento al “Fronte Popolare” è ricorrente nell’immaginario politico francese e potrebbe essere visto come puramente simbolico, mentre in realtà solleva questioni fondamentali. Il più delle volte, tuttavia, viene invocato in difesa delle istituzioni nate dall’esperienza unica del 1936-38 (come le ferie retribuite e la scuola unica), semplicemente per dimostrare cosa si può ottenere dall’unione dei partiti di sinistra in termini di diritti del lavoro, cultura, istruzione, sanità pubblica — in breve, un governo al servizio della grande maggioranza delle persone.

A questo proposito, è emerso più volte nella nostra storia contemporanea (in particolare, un altro esempio decisivo, dopo l’insurrezione del maggio ’68 nella formazione dell'”Unione delle Sinistre” con il suo programma comune, che ha portato all’elezione di Mitterrand alla Presidenza). Ma la decisione appena presa dai partiti di sinistra aggiunge un elemento strategico che rende necessario andare oltre nell’esame delle analogie e delle differenze, per cercare di trarne qualche lezione pratica.

Le ragioni principali sono due. La prima, ovvia, è che il ‘fronte popolare’ appena emerso è, come nel 36, una risposta diretta alla gravità del pericolo ‘fascista’ (o, se preferiamo aspettare un po’ prima di esaminare la rilevanza di questa categoria, al pericolo della presa del potere da parte dell’estrema destra, che è una minaccia mortale per la democrazia). Come possiamo respingere il fascismo o i suoi successori? Riunendo quali forze nella società e dando loro che tipo di organizzazione? Questa è la prima domanda, e l’esempio del ‘primo’ Fronte Popolare dovrebbe essere esaminato.

La seconda, che è l’altra faccia della medaglia, è che nella storia del nostro Paese c’è una differenza qualitativa tra diversi tipi di sindacato: o si tratta più di un’unione di partiti (che può essere definita un “cartello”), anche sostenuta da mobilitazioni che li superano, per proporre un'”offerta” comune agli elettori; oppure si tratta di un movimento di massa i cui protagonisti sono i cittadini stessi (e i partiti uno dei quadri organizzativi e allo stesso tempo lo strumento nel campo delle istituzioni politiche).

La prima formula è naturalmente richiesta da una scadenza elettorale (che, senza dubbio, è l’emergenza attuale). Ma è per definizione in balia delle vicissitudini dell’elezione e delle sue conseguenze, il che significa che può andare in frantumi in caso di sconfitta o, più o meno rapidamente, nel corso di un esercizio del potere che vede il riemergere della tentazione di ciascuna componente di far prevalere il proprio programma, e di trovare il proprio sostegno nell’opinione pubblica per farlo.

La seconda suggerisce, al contrario, che si è avvertita un’urgenza storica che ha generato un affetto comune nei cuori dei cittadini, mettendo in secondo piano la molteplicità dei loro interessi e delle loro ideologie, in grado di creare quotidianamente quella che il filosofo Jacques Rancière chiama “una comunità di lotta che è allo stesso tempo una comunità di vita”, messa al servizio non solo di un programma di governo, ma di un progetto di società che mira a trasformare le condizioni di esistenza. Si dirà che si tratta di “idealtipi” molto semplicistici, e che la realtà dell’esperienza storica si trova sempre a metà strada.

I cittadini, in quanto ‘soggetti’, che si iscrivono ai partiti o seguono le loro istruzioni, investono sempre nelle loro scelte una convinzione o una passione trasformativa; e le ‘moltitudini’ in movimento verso il futuro che credono di poter forgiare per se stesse sfidando l’ordine stabilito sono comunque alle prese con problemi di rappresentanza, disciplina, tattica e leadership che sono di competenza della politica di partito. Questo è stato chiaramente il caso nel ’36 (si pensi alla questione della ‘partecipazione al governo’ da parte dei comunisti), ed è stato di nuovo il caso nella sequenza che va dal maggio ’68 alla presidenza Mitterrand, o piuttosto, se devo credere al mio ricordo personale, fino alla crisi dell’unione intorno all”aggiornamento del programma comune’ che ha portato al fallimento elettorale del 1978. I semi di un sindacato di base (o, come si diceva all’epoca, “nelle lotte”) erano stati gettati, superando la grande frattura tra il movimento operaio di protesta e i “nuovi movimenti sociali” antiautoritari, ma i calcoli e la rivalità dei due partiti di sinistra, anche se coperti da un patto di governo, lo avevano privato della capacità di influenzare le politiche perseguite congiuntamente, e questo lo avrebbe pagato caro dopo il 1981.

La mia sensazione, in parole povere, è che il nostro ‘nuovo Fronte Popolare’ sia attualmente in bilico tra le due formule. C’è un’alleanza elettorale, sostenuta dalla necessità di resistere all’ondata dell’estrema destra evitando battaglie fratricide, e dalla convinzione che la forza del RN sia in gran parte il risultato del ‘vuoto’ politico creato dall’assenza di una forza di sinistra stabile, sufficientemente organizzata, sufficientemente armata ideologicamente, cioè almeno virtualmente dotata di un programma che faccia parte di un progetto per il futuro. Nell’arco di pochi giorni, questa alleanza ha dimostrato una sorprendente capacità di iniziativa che ha di fatto destabilizzato i suoi avversari (soprattutto quelli al potere, che si aspettavano che lo spazio a sinistra rimanesse strategicamente non occupato).

Tuttavia, le sue debolezze sono state subito evidenti (e il governo le ha immediatamente sfruttate): François Hollande che si sostituisce spudoratamente al sistema elettorale per — come possiamo immaginare — frenare piuttosto che sostenere il desiderio di ‘rottura’ con il passato che egli incarna; oppure Jean-Luc Mélenchon che riafferma immediatamente la sua presa sul partito che ha ‘personalmente’ fondato, a scapito dei deputati uscenti che sono figure rappresentative della tendenza unitaria al suo interno, e che suggerisce di dominare così il gruppo parlamentare dall’esterno… Ma soprattutto, accanto all’alleanza elettorale non esiste (o esiste ancora) nulla di simile a un movimento di cittadini “di base”, in grado di sostenerla, incoraggiarla e controllarla, anche se ci sono appelli, manifestazioni, incontri o scambi sulle reti sociali.

Chiaramente, un movimento o una mobilitazione che si possa definire “massiccia” non emergerà in pochi giorni, semplicemente perché è necessario o perché le persone lo chiedono. Ma credo anche che sarà difficile (e quindi richiederà un grande sforzo di volontà e immaginazione) e che vale la pena chiedersi perché. È qui che, ancora una volta, uno sguardo all’esperienza del ’36 può fornire spunti preziosi.

Come trovare le persone?

Voglio essere chiaro. Il riferimento al Fronte ‘storico’ e il prestito del suo nome per lanciare la mobilitazione contro l’annunciata vittoria del Rassemblement national, a cui il Presidente Macron ha dato un enorme impulso, è una bella invenzione perché il momento in cui ci troviamo è caratterizzato, come nel ’36, da un’alternativa radicale: o lo Stato passa al servizio di un progetto totalitario, i cui proclami di ‘normalizzazione’ non devono ingannare, oppure si forma un ‘popolo’ di resistenti che si afferma nell’emergenza, consapevole degli interessi fondamentali che lo uniscono e degli obiettivi da raggiungere, ribaltando quello che sembra essere il destino.

Questa è la grande analogia tra la situazione del 1936, quando il fascismo salì al potere in un Paese europeo dopo l’altro, dopo il tentativo di putsch antiparlamentare del febbraio 34, e la nostra situazione nel 2024, quando la Francia è stata a sua volta travolta dall’ondata populista, ‘illiberale’ e nazionalista che si sta diffondendo in tutto il mondo, in particolare in Europa. Ma per il resto, se guardiamo alle condizioni economiche, alle forze sociali, alle ideologie e persino alle emozioni, nulla o quasi di ciò che ha portato alla formazione e al successo (seppur transitorio) del Front Populaire sembra esistere più. Quindi le differenze prevalgono, ma cosa significa esattamente?

In poche parole, il “1936” corrisponde al punto più alto di intensità e purezza raggiunto nel nostro Paese dalla lotta di classe come matrice della lotta politica e della personalità dei suoi protagonisti. Il confronto tra democrazia e fascismo non fece altro che intensificare e sovradeterminare questa configurazione, in modo che le due logiche si fondessero strettamente, fino a diventare praticamente indistinguibili nella coscienza degli attori. “Pane, pace, libertà”: i cittadini e gli operai, i militanti e i dirigenti del Front Populaire, in un unico movimento difesero la democrazia (nell’unico modo possibile, ampliandola) e imposero (attraverso scioperi e occupazioni di fabbriche) le più grandi “conquiste operaie” nella storia del capitalismo.

Ciò è stato indubbiamente dovuto al momento in cui questa lotta si è svolta, all’indomani di una guerra, di una rivoluzione e di una crisi economica mondiale: uno dei rarissimi momenti della storia in cui le classi diventano ‘visibili’ a se stesse e le une alle altre. Da qui l’esistenza di un potente movimento operaio (anche se diviso tra diverse organizzazioni), composto sia da sindacati che da partiti, una solidarietà di classe che faceva parte delle condizioni stesse dell’esistenza quotidiana (come l’aiuto ai disoccupati), e un “orizzonte di aspettative” o utopia che fin dall’inizio ha dato all’antagonismo politico il senso di mettere in discussione il capitalismo (costringendolo infine a inventare nuovi modelli di regolamentazione del lavoro e di “compromesso sociale”). A ciò si aggiunse la scadenza di una questione costituzionale (nel senso di “costituzione materiale”) vecchia di più di un secolo, che si era posta fondamentalmente a partire dalla Rivoluzione francese, riguardante la scelta tra una repubblica oligarchica, governata da “élite” borghesi nell’interesse di coloro che hanno la proprietà, e una democrazia repubblicana, in cui le classi lavoratrici esercitavano un potere reale, anche se non assoluto e che passava attraverso i rappresentanti.

Possiamo quindi affermare che queste classi, nonostante le difficoltà materiali in cui stavano lottando e la violenza dell’aggressione che mirava a terrorizzarle, erano storicamente all’offensiva e ne presero coscienza, proprio nella forma di un ‘fronte’ il cui linguaggio di trasformazione sociale era immediatamente comprensibile ai suoi partecipanti e sostenitori. Oggi non c’è nulla di simile, o qualcosa che possa costituire immediatamente il suo equivalente.

La politica della sinistra, sebbene sostenga di basarsi su principi democratici, socialisti, comunisti ed ecologici che hanno molto senso, appare ancora fondamentalmente difensiva: difensiva di fronte alle politiche ‘neoliberiste’ che distruggono i diritti e le tutele del lavoro, difensiva di fronte alla privatizzazione diretta o indiretta delle istituzioni del servizio pubblico o al loro smantellamento, difensiva di fronte alla commercializzazione della cultura, difensiva di fronte alle forme ‘atipiche’ di crisi economica che sono insite nel capitalismo finanziario, difensiva sia di fronte alla globalizzazione che di fronte alle reazioni populiste e nazionaliste che essa provoca. Soprattutto, forse, è difensivo di fronte alle ‘catastrofi’ che oscurano l’orizzonte del cambiamento, dalla catastrofe ambientale alla rivoluzione informatica al ritorno della guerra. Perché ognuna di esse la blocca in dilemmi per i quali non ha trovato la chiave (come quello della decrescita e della riduzione delle disuguaglianze), generando al suo interno conflitti di interesse e di principio che sono proprio quelli che ostacolano il progetto e privano l’unità d’azione di una base storica che la politica cercherebbe poi di tradurre e consolidare. Un nome in sé non cambierà nulla, a meno che non evochi potenzialità della situazione che sono ancora inosservate e che devono essere portate alla luce.

Portando lo scetticismo all’estremo, sto cercando di evidenziare il compito che un’unione di forze di sinistra deve ora assumersi per dare vita al ‘fronte popolare’ che sente di avere e la cui necessità gli è apparsa come un imperativo di salvezza pubblica. Ci sono due aspetti distinti in questo compito, ma tutti fanno parte di un’unica pratica o azione politica collettiva: in primo luogo, la posizione ideologica difensiva deve essere invertita in una posizione offensiva, fatta non solo di riflessi repubblicani o di risposte al pericolo, ma di progetti reali che liberino un “potere di agire” che è il potere stesso del comune, riorganizzando da cima a fondo il regime delle paure e delle speranze della moltitudine; dall’altro lato, dobbiamo trovare il “popolo” ancora virtuale che farà propri questi progetti, inventando il linguaggio con cui discutere i loro interessi comuni e, soprattutto, le loro differenze e i loro disaccordi, ed emergere “dall’alto” dagli antagonismi ereditati dalla loro storia o dai litigi provocati dagli eventi attuali. Infatti, è solo elaborando le ‘differenze’ che lo separano da se stesso, risalendo quanto necessario alle ragioni del loro aggravamento, che il popolo ‘disperso’, composto da masse eterogenee e come alienate l’una dall’altra, troverà la sua unità e la sua identità politica. Il popolo del fronte ‘popolare’ non è un dato di fatto, in un certo senso possiamo arrivare a dire che non esiste, che è ‘a venire’.

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[1] Penso in particolare alla raffica di “Blum si starà rivoltando nella tomba” da parte di Manuel Valls, Bernard Cazeneuve e altri, a cui il pronipote di Léon Blum, Antoine Malamoud, ha risposto con rigore e dignità su Mediapart.

[2] Dopo aver scritto questo, sono a conoscenza di altre analisi sulla stessa linea: ad esempio, quella molto convincente di Jean-François Bayart. L’ex Presidente Nicolas Sarkozy, la cui vicinanza a Emmanuel Macron è ben nota, ha appena dichiarato (il 16 giugno) che l’alleanza con la RN, così come Éric Ciotti sta cercando di imporla, è “inappropriata oggi”, il che significa che non lo sarà necessariamente domani.

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Autore: Étienne Balibar, ex professore all’Università di Parigi-Nanterre (filosofia morale e politica), è attualmente cattedra di filosofia europea moderna presso la Kingston University di Londra. Insegna o ha insegnato anche negli Stati Uniti (Columbia, UC Irvine), Algeria, Paesi Bassi, Messico, Argentina e Italia.
Tra le sue opere ricordiamo Lire le Capital  (in collaborazione con L. Althusser, P. Macherey, J. Rancière, R. Establet) (François Maspero, 1965);  Razza, nazione, classe. Identità ambigue  (in collaborazione con I. Wallerstein) (Edizioni La Découverte, 1988), e più recentemente:  Des Universels. Saggi e convegni , Editions Galilée, 2016; Spinoza politico. Il transindividuale , Presses universitaire de France, 2018;  Libertà di parola, Edizioni Galilée, 2018;  Scritti I: Storia infinita. Da un secolo all’altro, Edizioni La Découverte, 2020;  Ecrits II: Passions du concept, Editions La Découverte, 2020.
I suoi interessi principali riguardano la teoria politica, l’epistemologia delle scienze sociali e l’antropologia filosofica. È membro della Lega per i diritti umani. Nel 2017 ha ricevuto anche il Premio Hannah Arendt per il pensiero politico, assegnato dalla Città di Brema e dalla Fondazione Heinrich Böll.

Fonte: AOCMedia