Il popolo che verrà (2/2): per un ‘contro-populismo’

 

La “Nuit debout”, i movimenti femministi, i “Gilets Jaunes”, le badanti durante la Covid-19, la rivolta nelle periferie dopo l’omicidio di Nahel Merzouk, la lotta contro la riforma delle pensioni, le Rivolte della Terra… Non si tratta di fondere o di sussumere tutti questi movimenti in un unico ‘programma’ e in un’unica ‘strategia’, ma piuttosto, nella nostra situazione attuale molto determinata (quella della lotta contro la RN e ciò che essa rappresenta), di riaccendere la loro energia e di trovare la loro intersezione in movimento, in evoluzione, con l’obiettivo di rafforzare il popolo.

Il popolo che verrà (1/2): unione della destra vs fronte popolare

Le persone del fronte ‘popolare’ non ci sono, in un certo senso potremmo arrivare a dire che non esistono, che sono ‘a venire’. È su questo punto che vorrei proporre un’ipotesi. Ovviamente non è questa la sede per riprendere la discussione teorica che ha occupato un’intera sezione del pensiero democratico cosiddetto ‘radicale’ fino a poco tempo fa sulla costruzione di ‘egemonie’ politiche e sul modo in cui queste risolvono il problema posto dalla pluralità di interessi ‘emancipatori’ e di ‘soggetti’ storici eterogenei, per trasformarlo in una forza politica piuttosto che in un fattore di paralisi e di rivalità ideologiche permanenti.

È abbastanza chiaro, tuttavia, che è questo problema delle “contraddizioni all’interno del popolo” che stiamo affrontando, e che lo stiamo affrontando con urgenza, se non altro perché (tornerò su questo punto più avanti) il Rassemblement National è ora in grado di raccogliere sostenitori in quasi tutte le classi della società francese (proprio ciò che il Macronismo ha completamente fallito): sembra aver trovato una soluzione che può essere descritta come populista. Il Rassemblement National è sulla buona strada per trovare il suo ‘popolo’: e la sinistra? Da “populista” a “popolare”, c’è sia un’incompatibilità radicale che una vicinanza, un’analogia preoccupante della domanda posta che dovrebbe essere la nostra preoccupazione principale.

Ecco quindi la mia ipotesi di lavoro su questo punto. Non credo che possiamo rimanere con i due modi classici di pensare alla formazione di un popolo nel senso politico del termine, che hanno alimentato le teorie e le strategie di ‘egemonia’ nella tradizione della sinistra europea e globale, marxista o meno: quello che ragiona in termini di gruppi sociali i cui interessi devono essere elencati e riconciliati (operai o, più in generale, lavoratori dipendenti, lavoratori autonomi e soprattutto agricoltori, funzionari e impiegati del servizio pubblico, intellettuali e artisti, ecc. ), e quelli che ragionano in termini di ‘partiti’ nel senso originale del termine, ossia di scelte fatte da individui e comunità tra valori morali in competizione, religiosi o secolari, espressi in stili di vita e professioni di fede.

Questi due metodi toccano certamente le condizioni fondamentali della politica (compresa quella di sinistra), che ha sempre a che fare con soggetti socialmente situati, oltre che con ideologie o ‘visioni del mondo’. Ma sono troppo astratti, troppo deduttivi e, proprio per questo motivo, sono aperti alla brutta sorpresa di rendersi conto un giorno che una ‘classe’ sviluppa interessi contraddittori o esclusioni al suo interno, e che anche una fede o un’ideologia progressista non è mai immune dalle maggiori oscillazioni tra democrazia e totalitarismo…

Ecco perché mi sembra che, spinti dalla situazione di emergenza in cui ci troviamo, dobbiamo cambiare il nostro metodo e cercare ispirazione nelle esperienze che abbiamo vissuto o osservato di recente, prendendo come base non le condizioni sociali o le idee, ma i movimenti reali, sia sociali che politici, che si possono dire tutti ‘popolari’. Per definizione, ovviamente, questi movimenti, anche quando sono massicci, sono più ambivalenti, più instabili e più effimeri di quelli sociali o ideologici. Ma a volte portano alla luce le reali esigenze della situazione e del momento, a cui altrimenti non avremmo pensato.

La Francia ha visto una serie di movimenti negli ultimi anni che (con la possibile eccezione del femminismo, che ha i suoi alti e bassi ma non scompare mai) sono stati tutti sconfitti o soffocati, o almeno isolati da una combinazione di repressione, manipolazione ed esaurimento, ma hanno lasciato tracce e forse la capacità di rinascere. Mi riferisco in particolare a:

(1) alla “Nuit debout” (2016) e all’intera mobilitazione contro la “Loi travail” del governo Hollande-Valls, che ha visto la difesa dei diritti dei lavoratori contro la logica della “competitività” aziendale convergere con esperimenti di democrazia partecipativa (simile in questo ai movimenti delle “piazze” e delle “assemblee” in altre parti del mondo);

(2) il movimento “Gilets Jaunes” nel 2018-2019, nato come protesta contro l’aumento dei prezzi del carburante che ha colpito tutti i lavoratori mobili e precari e i piccoli imprenditori: la sua invenzione di una “occupazione” simbolica del territorio e la sua richiesta di consultazione democratica (il referendum di iniziativa popolare) sono state in grado di radunare molte categorie sociali, prima che venisse duramente represso dalla polizia militarizzata e deriso dal Presidente;

(3) la mobilitazione degli assistenti ospedalieri e dei lavoratori dei servizi municipali durante la fase acuta della pandemia di Covid-19, per compensare la miopia dello Stato e l’impoverimento dei loro servizi, che ha generato anche, ma in modo molto diverso, un’ondata di simpatia e una richiesta di riconoscimento;

(4) la rivolta nelle periferie contro il razzismo istituzionale e la violenza della polizia, una rivolta che non si è mai spenta, in varie forme, dall’inizio degli anni ’80, ma che è riemersa in pieno giorno con una violenza spettacolare (anche se molto inferiore alla violenza della repressione, in realtà) dopo l’assassinio di Nahel Merzouk nel giugno 2023, e continua oggi in un movimento di auto-organizzazione nei ‘quartieri’ (i cui portavoce si sono appena espressi in modo inequivocabile a favore della mobilitazione nel del Fronte Popolare);

(5) il movimento di scioperi e manifestazioni contro la riforma delle pensioni rifiutata dalla stragrande maggioranza del Paese, tra gennaio e marzo 2023, caratterizzato non solo dalla portata e dalla caparbietà dei manifestanti, ma anche dalla ricostituzione di un “intersindacale” democratico, che ha rivitalizzato la lotta di classe e ha dimostrato la sua capacità di organizzazione, che si pensava fosse andata perduta, sotto l’impulso di notevoli leader;

(6) le “rivolte della terra” e, più in generale, le proteste contro l’artificializzazione della terra, la deforestazione e il pompaggio delle acque sotterranee per l’agricoltura intensiva, che si stanno radicando a lungo termine, in concomitanza con il principale “internazionalismo” di oggi (quello degli ecologisti, anche se i loro partiti sono in disordine, o proprio per questo);

(7) i movimenti femministi, che non stanno scomparendo, anche se, secondo la logica inscritta nella natura ‘paradossale’ della ‘classe femminile’, si dividono continuamente in frazioni e si contraddicono sui principi filosofici: Metoo non li riassume, ma il nome ha il vantaggio di sottolineare l’importanza in questo momento, per tutte le donne, della lotta contro l’accettazione dell’incesto, dello stupro e della brutalità virilista [1].

Questi movimenti, che possono essere attribuiti alla ‘società civile’ (nonostante l’imprecisione del concetto), sono una testimonianza eloquente del fatto che essa non è immobile o rassegnata. Ma sono eterogenei da ogni punto di vista: partecipanti, origini o occasioni, durata, modalità di organizzazione (o spontaneità), tensioni interne, riferimenti ideologici o simbolici, grado di radicalismo in opposizione all’ordine sociale e ostilità nei confronti dei suoi rappresentanti ufficiali (che ovviamente è in parte la controparte della repressione iniqua a cui sono sottoposti). Non è nemmeno possibile proporre una definizione univoca di cosa sia un “movimento”, perché tutti hanno reinventato la forma a seconda delle circostanze e degli obiettivi. Ma direi ipoteticamente che sono (o sono stati) tutti caratterizzati da una reale capacità di trasformare la difensività in offensività, il “rifiuto” (o la rabbia, o la disperazione) nell’affermazione di un diritto, una solidarietà e un desiderio di trasformare il “mondo” in direzione dell’uguaglianza e della giustizia, e per questo motivo possono essere universalizzati dalle situazioni e dalle circostanze che li hanno generati. In altre parole, sono “atti di cittadinanza”[2], che incarnano quell’utopia concreta senza la quale non può esistere una politica emancipatrice.

La questione non è quindi quella di fonderli o sussumerli sotto un unico “programma” e “strategia”, ma piuttosto, nella nostra situazione attuale molto determinata (quella della lotta contro la RN e ciò che essa rappresenta), di ravvivare la loro energia e trovare la loro intersezione mobile ed evolutiva, al fine di rafforzare il popolo, dal punto di vista della sua coesione e della sua capacità di costruire un futuro comune. Prendo intenzionalmente in prestito questo termine da un saggio di Michel Feher, pubblicato poco prima dell’evento del 9 giugno, che si oppone all’idea di un movimento sociale omogeneo, sostenendo un’alleanza che si collocherebbe al “crocevia di cause singolari”, di fronte all’unione della destra, di cui anticipa notevolmente l’arrivo.

L’unica differenza che introdurrei a livello di parole (ma non è insignificante) è che non credo che le cause singolari e i movimenti che le esprimono siano una ‘minoranza’: al contrario, credo che possano essere universalizzate, e che quindi facciano parte dell’orizzonte di una maggioranza virtuale, da costruire attraverso la pratica politica. Ma affinché ciò avvenga, l’intersezione dei movimenti (o di ciò che ne estende l’esperienza e l’ispirazione nel presente) non deve essere vuota, né di idee, simboli o parole d’ordine, né soprattutto di attori concreti che ‘viaggiano’ tra di essi, passando dall’uno all’altro e discutendone l’articolazione (che ovviamente non è il ruolo degli ‘organizzatori’ professionisti come i militanti e i quadri di partito). Ad esempio, in “assemblee” come quelle citate nella prima dichiarazione delle organizzazioni che convergono nel “fronte popolare”, che parlano della necessità di completare il suo programma su punti aperti o controversi attraverso dibattiti tra cittadini volontari[3]. Le forme tradizionali della pratica politica di massa non avranno detto la loro ultima parola (come testimonia la resilienza del sindacalismo), ma le nuove forme sono intensamente necessarie e hanno la chiave per impiantare il “fronte popolare” nel tessuto sociale e civico stesso.

Si dirà che non ho fatto molta strada, perché questo incontro creativo tra i movimenti e i loro protagonisti è altrettanto problematico del “fronte popolare”, al quale dovrebbe dare sostanza e radici nella vita quotidiana. Questo è assolutamente vero: non mi sono proposto di fornire una ricetta, ma di svelare le dimensioni del problema che abbiamo davanti e di suggerire un modo attuale di riscoprire l’energia che ha permesso allo storico Fronte Popolare di prevalere sui suoi avversari, nonostante le profonde differenze di tempi e condizioni. È nello stesso spirito che concluderò proponendo una terza discussione, questa volta sulla differenza tra ‘populista’ e ‘popolare’ (menzionata sopra), che mi sembra costituire il nucleo del prossimo confronto (durante le elezioni e soprattutto oltre, qualunque sia il risultato) tra due concezioni e due pratiche della politica. [4]

La struttura psicologica del Lepénisme: odio e paura

Mi sembra che il punto di partenza di questa discussione debba essere un chiarimento di ciò che rende il Rassemblement National ‘forte’ nella Francia di oggi, come si riflette nei suoi guadagni elettorali e nella sua presenza nelle istituzioni (in particolare nei comuni), ma si riferisce anche più profondamente a ciò che — parodiando una famosa espressione — chiamerei la ‘struttura psicologica del Lepénisme’, cioè la combinazione di affetti e rappresentazioni che lo compongono e gli danno energia.

Georges Bataille ha parlato di “struttura psicologica del fascismo” per sottolineare che l’arruolamento delle masse (in Francia, ma soprattutto in Germania e in Italia) in movimenti militarizzati, soggetti al culto del leader e guidati da un odio omicida nei confronti di stranieri, intellettuali, comunisti ed ebrei, sviluppando un “fanatismo della normalità e dell’identità”, non solo spiegato da interessi di classe o convinzioni ideologiche, ma da impulsi inconsci, che portano alla luce le profondità libidinose e mortificanti della psiche collettiva, resistendo alla normalità, che lui chiamava “l’eterogeneo”[5]. C’è effettivamente qualcosa di questo ordine nel Lepénisme, che giustifica il fatto di vederlo come un potenziale fascismo, in grado di riattivare tradizioni violente che la politica ‘liberale’ aveva represso o emarginato, e che ora potrebbero tornare in auge sotto nuove vesti.

Guardate l’America di Trump, l’India di Modi, la Russia di Putin: nulla può renderci immuni da queste tendenze. Ma ci sono anche — almeno per il momento — delle differenze, che devono essere sottolineate per non pensare che il semplice brandire l’idea di una “mobilitazione antifascista” sia sufficiente per bloccare il progetto della RN alle urne nel breve termine e iniziare a invertire l’equilibrio di potere che è riuscita a creare nella società. La RN ha nuclei di giovani razzisti pronti alla violenza aperta, ma non mette milizie o masse fanatiche nelle strade. Non è questa la sua strategia né la sua capacità. La ragione della sua presa su un numero molto elevato di cittadini si trova in un altro registro: non deriva tanto dall’odio quanto dalla paura, o dall’ansia per le trasformazioni del mondo che li riguardano. Più precisamente, innesta l’odio (dell”Altro’ in generale) su un affetto fondamentale, che è la paura, e quindi la sensazione di impotenza.

Che tipo di paura? Fondamentalmente quella della crescente insicurezza in cui questi cittadini vivono e vedono vivere gli altri intorno a loro (i loro cari, i vicini, i genitori, i figli), che riguarda sia l’incertezza sul futuro in termini di lavoro, famiglia, istruzione (chi può dire quale scompiglio stiano provocando il degrado del sistema educativo, il valore dei diplomi e la selezione programmata simboleggiata dal ‘Parcoursup’? ), e la crescente certezza di un declassamento, in termini di tenore di vita, stabilità o insicurezza del lavoro, qualità dei posti di lavoro e ambiente urbano e suburbano, e considerazione da parte delle amministrazioni e delle ‘élite’ al potere. Questi sentimenti non riguardano frazioni della società che potrebbero essere considerate ‘marginali’, ma un enorme spettro di categorie sociali che si trovano nel mezzo, ‘tra’ i ricchi (che stanno diventando sempre più ricchi) e i poveri (che stanno diventando sempre più poveri), coloro per i quali la protezione e la solidarietà stanno crollando a favore di una concorrenza feroce (in cui ci sono sempre più perdenti che vincitori) e dell’abbandono, se non del disprezzo.

Alcuni bravi sociologi hanno proposto una categoria illuminante a questo proposito, quella di “coscienza triangolare”, per esprimere che il sentimento di alienazione delle classi lavoratrici in senso lato, che comprende tutti gli individui che oggi sono privi di capitale finanziario o culturale, si rivolge contemporaneamente in due direzioni: verso i “dominanti”, con il risentimento per il loro arricchimento sempre più concentrato e arrogante, il loro “separatismo” sociale, e verso gli “esclusi”, con la repulsione per il destino che sembrano prefigurare per tutti. [6] Il secondo effetto è ancora più violento del primo, perché i cittadini del ‘centro’ non si fanno illusioni sulla possibilità di cambiare qualcosa della concentrazione di privilegi e ricchezze (cioè del capitalismo); d’altra parte, sono ossessionati dalla paura del declassamento o della caduta, e la amplificano fantasticamente.

La strategia del Front National (accentuata dalla sua trasformazione in Rassemblement National) è stata quella di sfruttare al massimo il sentimento di insicurezza esistenziale, che si accompagna alla sensazione di impotenza diffusa, aggiungendo due ingredienti che mobilitano le ansie ‘primarie’ della psicologia individuale e collettiva: di fronte alla violenza, associando l’insicurezza economica alla criminalità, alla ‘decivilizzazione’ o all’offuscamento dei confini tra povertà e delinquenza, e di fronte all’alterità, fondendo la paura del declassamento con il timore di non essere più in grado di distinguersi dagli ‘stranieri’ (o da coloro che tra i concittadini sono ancora considerati stranieri, e per questo confinati in ‘fondo’ alla scala sociale). Questo può portare a una proliferazione circolare (in un ciclo di rafforzamento) delle paure di cadere o di essere abbandonati (in particolare dallo Stato) e delle teorie di cospirazione: gli stranieri stanno arrivando in massa (o vengono mandati in massa) per “sostituirci” e per prendere il potere politico, monopolizzare i posti di lavoro e i benefici sociali e costringerci al loro posto “inferiore”). Incoraggiano la delinquenza e corrompono coloro che sono al potere (o li mettono al loro servizio). La loro presenza ha ‘distrutto’ un ordine sociale che avrebbe potuto durare indefinitamente. E paradossalmente (e scandalosamente) lo Stato (il nostro Stato) li ‘protegge’ (cioè non li scaccia o li reprime, almeno non in modo abbastanza visibile). Il che sembra indicare che in qualche modo si è denazionalizzato.

La contraddittoria centralità dello Stato

In un certo senso, tutto questo è ben noto. Quindi non ho alcuna pretesa di originalità. Ma vorrei fare quattro commenti:

1) Non dobbiamo certamente sottovalutare il potere mobilitante e il potenziale omicida degli stati d’animo che derivano dall’odio per l’altro e che ci portano a sperare che la violenza, in particolare la violenza della polizia, venga usata ‘preferenzialmente’ contro le persone razzializzate che continuano a essere chiamate ‘immigrati’ in seconda, terza o quarta generazione (e di fatto a tempo indeterminato). Non dobbiamo nemmeno dimenticare che questi effetti sono ereditati dalle rappresentazioni lasciate dalla colonizzazione e dal risentimento che molti cittadini francesi provano nei confronti dei popoli ‘non bianchi’ che ci hanno ‘espropriato’ dei privilegi dell’impero.

Ma (almeno questa è la tesi che vorrei proporre) dobbiamo renderci conto che la paura è più profonda dell’odio, o almeno che la sua persistenza è ciò che rende difficile, se non impossibile, liberarsi dall’odio, sia attraverso uno sforzo del cuore che della ragione. L’odio si fissa su ‘oggetti’ (una volta i ricchi, ora i poveri, o i più poveri, per arrivare all’estremo), ma la paura spiega perché è impossibile (o molto difficile) credere nella possibilità di un mondo migliore, più egualitario o più giusto, che ci consentirebbe di ‘non odiare’ coloro da cui differiamo.

2) La paura è un affetto che nasce e prolifera nell’immaginazione, e potremmo dire che è una fantasia di cui gli individui sono la fonte, anche se non sono i padroni. Ma l’insicurezza da cui nasce non è immaginaria: è piuttosto reale ed è diventata la condizione in cui vive oggi un numero sempre maggiore di cittadini del mondo. E soprattutto, è la condizione in cui sono state immerse popolazioni che, in varia misura, erano state protette fino a poco tempo fa a causa della loro nazionalità e come risultato delle loro lotte e dei loro sforzi, come le popolazioni delle nazioni borghesi “imperiali” del “Nord”. Questo è il risultato delle politiche neoliberali che brutalizzano l’intera società per promuovere la globalizzazione e la deregolamentazione (con l’Europa ‘comunitaria’ che svolge un ruolo straordinariamente perverso di protezione distruttiva in questo senso, tanto più terrificante perché sembra essere situata in qualche modo al di sopra del sovrano).

Questo risultato è particolarmente evidente laddove, come in Francia, lo Stato sociale (che ho suggerito altrove di chiamare “Stato nazionale-sociale”) aveva raggiunto un alto grado di universalità ed efficacia, come risultato di lunghe lotte di classe ma anche di un orientamento “solidaristico” dello Stato e delle sue politiche pubbliche. Quindi non ha assolutamente senso cercare di ridurre le paure e gli odi che si sono interiorizzati e collettivizzati, se non abbiamo i mezzi e l’intenzione di combattere l’insicurezza sociale (Robert Castel) e le sue cause strutturali, globali e durature. La promessa del Rassemblement National di “recuperare il passato” può avere tutte le caratteristiche di una finzione, ma è una risposta a un’esperienza reale.

3)Precisamente, lo Stato è il perno, o il punto in cui gli elementi psicologici e i vincoli strutturali (economici, sociali) all’opera in questo complesso sono ‘legati insieme’. Naturalmente, non esiste lo ‘Stato’ al singolare, è solo un nome per un insieme molto complesso e per nulla coerente di istituzioni di età e status giuridico diversi, di potere ‘normativo’ o ‘coercitivo’ ineguale, diffuso in tutta la società… il ‘Capo di Stato’ è solo una piccola parte di esso, costantemente esposto a sopravvalutare il suo potere. Ma questo nome copre effetti molto reali che si riflettono nella coscienza di coloro che non potrebbero vivere senza i sussidi che egli fornisce o prescrive legalmente per loro.

Nel corso del XX secolo, in Francia e altrove, lo Stato è cambiato notevolmente rispetto al corpo di potere ‘sovrano’ che ha avuto origine nell’imperium medievale e monarchico ed è stato ‘riappropriato’ dai rappresentanti eletti del popolo nell’era moderna. Come definito da Michel Foucault, la cui formula può essere generalizzata, lo Stato è il potere o l’autorità che, per i cittadini, è responsabile di “far vivere o far morire”. Da parte mia, ho parlato di Stato ‘sociale nazionale’ per indicare che le politiche su cui poggia oggi la sua legittimità non riguardano tanto la ‘difesa della società’ contro i suoi nemici interni ed esterni o l’assoggettamento a un’ideologia dominante, quanto piuttosto la sua capacità di organizzare servizi pubblici ‘universali’ e di garantire per legge risorse e aiuti personalizzati (come gli assegni familiari) all’interno di un quadro nazionale (il che non significa che i beneficiari debbano essere definiti dalla loro nazionalità: ciò dipende dall’idea che lo Stato e i suoi cittadini hanno della ‘comunità’ che vive e lavora sul suo territorio).

Ciò che non è cambiato, tuttavia, è il fatto che le imposte dirette o indirette che pesano in modo ineguale sui cittadini vengono raccolte dallo Stato e poi distribuite in base alle sue politiche (forse avrei dovuto parlare di uno Stato fiscale-nazionale-sociale, seguendo i suggerimenti di Wolfgang Streeck). Ma a partire dall’ultimo terzo del XX secolo, questa stessa struttura è stata capovolta: lo Stato è diventato sempre più dipendente dai mercati globali sia per le sue risorse che per le sue politiche (sostituendo il debito alla tassazione), e si è impegnato, sotto la pressione di questi stessi mercati (o meglio di coloro che li dominano), a smantellare progressivamente i servizi e i sistemi di diritti sociali che gli conferivano legittimità politica. [7] Questo è il cosiddetto neoliberismo, i cui effetti devastanti si vedono oggi sulla fiducia nelle istituzioni democratiche.

Più i cittadini perdono i diritti e i servizi che in precedenza venivano loro forniti o idealmente promessi, più trovano intollerabile che questi stessi diritti e servizi vengano forniti (anche se con molta parsimonia) a persone che non dovrebbero far parte della ‘comunità nazionale’, se si tiene conto dei criteri di origine e genealogia. E tanto più rivolgono il loro risentimento contro lo Stato, chiedendo una prova visibile che lo Stato “appartiene” a loro (proprio come loro appartengono allo Stato, cioè dipendono da esso), e che questa proprietà dà loro la priorità nell’uso dei suoi servizi.

La prova è costituita da sfratti, discriminazione, stigmatizzazione e violenza nei confronti di beneficiari indegni. Affinché le cose siano diverse, la traiettoria della riduzione dei diritti e dell’impoverimento dei servizi pubblici dovrebbe essere invertita, in modo da giustificare la loro universalità, e la rappresentazione dell’appartenenza al corpo dei cittadini (ciò che la tradizione repubblicana chiama ‘nazione’) dovrebbe essere staccata dallo schema della proprietà e sostituita da quella della partecipazione al ‘bene comune’.

Queste due mutazioni sono veramente rivoluzionarie rispetto all’attuale corso degli eventi e non possono essere decretate, anche se è della massima importanza per una politica di sinistra coerente con se stessa formulare l’obiettivo e lavorare per crearne le condizioni, in particolare attraverso le riforme fiscali (da qui la ferocia dell’attuale scontro sulle ‘nicchie’ di esenzione e sull’evasione fiscale), ma anche nelle rappresentazioni dominanti della comunità nazionale.

4) Questo mi porta al mio ultimo punto, in un certo senso il più importante e il più delicato di tutti. È ancora più importante perché, sotto l’influenza di una tradizione internazionalista a cui ho aderito in gioventù a seguito delle guerre coloniali, in solidarietà con il privilegio storicamente accordato alla lotta di classe come base della politica democratica, estesa poi da altri movimenti di emancipazione che erano intrinsecamente transnazionali o che portavano a mettere in discussione il controllo delle popolazioni da parte di organismi statali ‘sovrani’, ho avuto la tendenza a considerare che la forma-nazione (e quindi l’equazione di cittadinanza e nazionalità che vi è correlata) è sempre dalla parte degli ostacoli alla giustizia, all’uguaglianza e alla libertà, piuttosto che delle loro condizioni. Questo ci ha portato a sottovalutare le ragioni che avevano portato il Front Populaire (soprattutto tra i comunisti) a rivendicare il patriottismo (anche prima che emergesse come anima della Resistenza e del suo ‘Consiglio Nazionale’, il punto più alto dell’antifascismo).

Il confronto odierno con il discorso populista, le cui categorie e sfumature puntano al “nazionalismo integrale” (Charles Maurras), deve portarci a riesaminare completamente questa valutazione. L’alternativa non è tra un’emancipazione o un egualitarismo ‘cosmopolitico’ e un nazionalismo esclusivo e xenofobo, ma tra due concezioni della nazione (una delle quali è aperta al cosmopolitismo, l’altra no), due modi di costruirla istituzionalmente come comunità di interessi e valori, e due modi di collegare la sua ‘indipendenza’ alle normative sovranazionali (la più importante delle quali dovrebbe oggi riguardare la lotta al riscaldamento globale), ma anche al movimento di persone, lingue e riferimenti culturali da tutte le parti del mondo.

Così come esiste un discorso populista e un discorso popolare, esiste un modo di costruire la nazione che ignora la sua molteplicità e la sua storia reale a favore di ‘luoghi della memoria’ feticizzati, tradizioni regionaliste convenzionali e criteri ideologici di appartenenza che discriminano tra ‘veri’ e ‘falsi’ cittadini, e un modo di costruirla che si basa sulle sue componenti reali, la cui molteplicità in un determinato momento storico è irriducibile a un unico tipo e si riferisce a relazioni multiple tra il suo ‘dentro’ e il suo ‘fuori’.

Tale concezione evolutiva non rifiuta alcuna ‘identità’ collettiva, ma cerca di far emergere il ‘noi’ dalle relazioni di reciprocità e dagli interessi comuni, e dalla maggiore capacità di realizzarli conferita dalla totalizzazione delle differenze, anche quando ciò comporta difficoltà e conflitti. È notevole, inoltre, che la maggior parte delle richieste di riconoscimento (o ‘rispetto’) che provengono ora dai ‘quartieri’ in rivolta contro il razzismo e l’esclusione siano proprio in questa direzione. Ma sarebbe un’illusione totale credere che la semplice constatazione di questa realtà sia sufficiente a delegittimare la concezione esclusiva della nazione in cui si identificano gli elettori del Rassemblement National e che si esprime nell’ossessione per la ‘catastrofe migratoria’ che deve essere evitata con i mezzi più brutali[8]: perché questa ossessione è la controparte del sentimento di impotenza collettiva che si è impossessato di masse di cittadini in preda all’insicurezza e alla paura.

Il popolo ‘manca’, ma in due modi antitetici: in un caso, la sua assenza viene ostinatamente negata sotto forma di proclamazione di appartenenza alla nazione ideale, dalla quale sono stati eliminati tutti i nemici interni, mentre nell’altro viene affrontata come il progetto costantemente rinnovato, ‘utopico’ nel senso che contraddice l’ordine sociale dominante, ma fondato sulle relazioni sociali attuali, di tenere insieme le ‘masse’ eterogenee di cittadini che hanno lo stesso interesse a uscire dall’impotenza in un mondo di incertezza e di estrema disuguaglianza. Persone contro persone, nazione contro nazione, comunità contro comunità. E, nella nostra situazione attuale, “fronte” contro “fronte” (anche travestito da “raduno”).

Per un “contro-populismo”: potere di agire, autonomia, servizio pubblico

Vorrei riassumere ciò che ho cercato di proporre qui e aprire la discussione con alcune proposte schematiche.

Il populismo, come incarnato dal Rassemblement National con le sue caratteristiche francesi, ma come parte di una tendenza politica molto più ampia all’opera sia a Est che a Ovest, a Nord e a Sud, è un potenziale fascismo. Presenta già molte delle stesse caratteristiche, ma si trattiene dallo scivolare completamente in esso, sia per ragioni tattiche sia perché non sono state soddisfatte tutte le condizioni per mobilitare le masse in un’ideologia nazionalista onnicomprensiva che elimini i ‘nemici interni’ (le cose sono molto più avanzate da questo punto di vista nell’India di Modi o nell’America di Trump).

Ma questo sviluppo non può essere invertito dalle sue stesse forze. Al contrario, sarebbe chiaramente accelerato dall’arrivo della RN alla guida dell’amministrazione dello Stato, a causa dell’eccessivo potere che conferisce ai suoi detentori e degli ostacoli e dei fallimenti che incontrerebbe, in una spirale di esacerbazione illimitata. L’unico modo per fermarla è opporsi ad essa con un contro-populismo consapevole e organizzato, come quello implicito nel progetto del ‘nuovo fronte popolare’. Un contro-populismo non è un “populismo al contrario”, un’immagine speculare. Sebbene anch’esso si prefigga di “trovare il popolo” e di costruire una comunità nazionale, deve procedere per vie radicalmente diverse.

Il cuore della differenza sta nel fatto che il populismo, e a maggior ragione il fascismo, hanno come principio l’istituzione della passività dei cittadini, anche e soprattutto quella passività rumorosa e violenta che permea la partecipazione alle manifestazioni nazionaliste o ai raduni elettorali, poiché il loro principio è la ripetizione del discorso e degli slogan proposti dai leader. Il populismo non supera l’impotenza collettiva che ne è alla base; al contrario, la raddoppia e la intrappola in un circolo insormontabile, mascherando la paura con l’odio e la brutalità. Sarebbe un’illusione totale immaginare che una tale logica sia assente dalle mobilitazioni che si dichiarano antifasciste, ma che di tanto in tanto cadono in un rapporto mimetico con esso: la storia passata e anche recente offre abbondanti esempi del contrario. Ma l’efficacia e l’autenticità della lotta risiedono nell’invenzione di un altro modo di praticare la politica di massa: quello che aumenta il potere della “gente comune” e le offre la possibilità di liberarsi dalla paura attraverso l’attività, la solidarietà e l’autonomia (e quindi la capacità di discutere gli obiettivi stessi della lotta e le modalità con cui vengono perseguiti). Un altro modo di formulare questa tesi è quello di collegare la differenza tra il ‘populista’ e il ‘popolare’ alla pratica della cittadinanza attiva, che sperimenta al suo interno la stessa democrazia che cerca di difendere (da qui la costante tensione con la ‘forma partito’, di cui però la politica probabilmente non può fare a meno, sia all’interno che all’esterno delle istituzioni parlamentari).

Lo stesso risultato può essere raggiunto combinando l’idea di costruire un ‘fronte popolare’ con quella di un’intersezione di movimenti, come ho introdotto sopra (riprendendo una formula di Michel Feher, a costo di ‘invertire’ la sua prospettiva minoritaria in una prospettiva maggioritaria): i movimenti non possono fondersi e nemmeno inserirsi in quadri gerarchici onnicomprensivi; al contrario, devono proliferare e diffondersi per coprire tutti i problemi, tutti gli obiettivi emancipatori che emergono dalle esperienze negative o affermative (sofferenze e creazioni) della suddetta ‘società civile’. Ma devono anche convergere e sommarsi nella costruzione di una resistenza comune all’autoritarismo, al populismo e al fascismo.

Possiamo chiamarle ‘assemblee’, o qualsiasi altro nome che è stato usato nel corso della storia per descrivere la spontaneità di riunirsi e sperimentare una democrazia di base che sia partecipativa e non semplicemente rappresentativa: “Tuttavia, non prendiamoci in giro: la nascita e la sopravvivenza di tali assemblee sono sempre irte di ostacoli. Rappresentano di per sé un obiettivo nella costituzione del ‘popolo’ che dobbiamo cercare di raggiungere in quanto tale, non solo a causa della repressione o delle prese di potere a cui possono essere sottoposte, ma anche a causa della distanza che i loro partecipanti devono superare per unirsi e dare vita al comune: che si tratti di distanza spaziale e culturale (i ‘quartieri’ non sono accanto alle università, nemmeno nella periferia parigina, così come le fattorie non sono realmente accanto alle ‘zone da difendere’) o di distanza antropologica (quella dei generi e delle sessualità, quella delle età e delle generazioni, quella delle formazioni e delle professioni), e infine la distanza tra i ‘movimenti’ stessi, con le loro storie singolari e i loro codici di riconoscimento. L’ipotesi di un ‘fronte popolare’ è di per sé una grande utopia per l’incontro di tutte queste esperienze e la loro conversione in un ‘movimento di movimenti’. Senza di essa, non può accadere nulla, ma con la proclamazione della sua urgenza, le difficoltà sono appena iniziate.

Ponendo al centro del suo ‘programma’ per le elezioni e per il suo futuro governo il principio del ripristino e dell’estensione dei servizi pubblici (cioè la sanità pubblica, l’istruzione, la cultura indipendente dai monopoli commerciali, la giustizia accessibile a tutti, la polizia comunitaria, la pianificazione regionale e urbana, i trasporti a basso costo e l’energia non inquinante), accanto a diversi altri obiettivi essenziali nel campo della giustizia economica e sociale e della difesa della democrazia, il Fronte Popolare ha toccato il cuore di questa questione, il Front Populaire è andato al cuore di ciò che, negli ultimi decenni, sotto l’impatto delle politiche neoliberali di austerità e privatizzazione, è diventato una delle cause principali della crescente disuguaglianza e quindi della precarietà (non solo come impoverimento, ma come ‘esclusione’ o come l’ha definita Robert Castel), 9], che, come molti altri, credo sia alla base del sentimento di insicurezza su cui prospera l’offerta ideologica ed emotiva del Rassemblement National. I servizi pubblici non sono “lo Stato”, anche perché il loro funzionamento e la loro utilità dipendono in primo luogo dalla coscienza professionale e dall’empatia degli uomini e delle donne che li forniscono a pazienti, alunni, spettatori, residenti, contendenti — in breve, ai cittadini. Resta il fatto che, in una società come la nostra, non esistono senza lo Stato, che li finanzia attraverso la tassazione o altri contributi e fornisce loro un quadro giuridico, incorporandoli così nel suo organismo proliferante (che i filosofi hanno paragonato a un grande mostro mitologico).

Con questa osservazione, introduciamo un’altra tensione al centro della problematica del Front Populaire: quella che oppone un principio di utilizzo e quindi di rafforzamento dello Stato (in particolare contro la ‘desétatisation’ attuata dal neoliberismo, che è ovviamente una desétatisation selettiva) a un principio di liberazione dell’autonomia degli individui e delle capacità di auto-organizzazione o auto-gestione della società e dei suoi movimenti. La tradizione socialista, e più in generale quella della sinistra intellettuale e partitica, ha costantemente oscillato o cercato compromessi tra i termini di questa antitesi, che sono tentato di dire che è costitutiva della politica come pratica collettiva, “governo di sé e degli altri” (per parodiare Foucault). Da questo punto di vista, l’idea del Fronte Popolare è anche l’idea di una soluzione dinamica alla contraddizione, che la trasforma lavorando su di essa. Ma questo avverrà solo in un secondo momento, se ci sarà una conseguenza, cioè se riusciremo a respingere l’estrema destra tra dieci giorni. Non c’è altra urgenza.

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Note

[1] Non includo volutamente le manifestazioni dei contadini, il movimento di solidarietà con la Palestina, la mobilitazione contro l’antisemitismo e, simmetricamente, contro l’islamofobia, altri ancora che non mi sembrano aver acquisito la stessa capacità di strutturare rivendicazioni collettive per l’emancipazione, ma possiamo discutere.

[2] Engin Isin, “Teorizzare gli atti di cittadinanza” in Engin F. Isin e Greg M. Nielsen (a cura di), Acts of Citizenship, Palgrave Macmillan, 2008.

[3] Comunicato stampa dei quattro partiti di sinistra che propongono la formazione di un “Nuovo Fronte Popolare ecologico e sociale”, del 06/10/2024: “Per una risposta repubblicana al rischio democratico”.

[4] È anche un modo per attaccare alla radice il discorso mistificante che presenta il confronto tra “raduno nazionale” e “fronte popolare” come una lotta tra “due estremismi simmetrici”, ampiamente diffuso dai politologi del “centro”.

[5] Georges Bataille,  La struttura psicologica del fascismo , Éditions Lignes, 2009 [1933].

[6] Olivier Schwartz, “Viviamo ancora in una società classista? Tre osservazioni sulla società francese contemporanea” in La vie des idées , 22 settembre 2009.

[7] Wolfgang Streeck, Tempo comprato: la crisi costantemente rinviata del capitalismo democratico , Gallimard, Collezione NRF Essais, 2014.

[8] Vale a dire mezzi ancora più brutali di quelli attualmente attuati su scala europea. Avremo notato con interesse la presenza nella lista del Raggruppamento Nazionale (in terza posizione) di Fabrice Leggeri, ex direttore dell’agenzia Frontex, responsabile di migliaia di morti nel Mediterraneo, anch’egli indagato per prevaricazione e violenza nell’esercizio delle sue funzioni mandato.

[9] Robert Castel, Le metamorfosi della questione sociale , Gallimard, 1995.


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