Le responsabilità della sinistra nelle riforme che ora (giustamente) avversa

 

L’origine della strategia della sinistra sta nella generale crisi di valori e di programmi che, almeno dalla metà degli anni ’80, ha caratterizzato prima il PCI e poi i suoi eredi: invece che sulle battaglie storiche e identitarie della sinistra, come la redistribuzione del reddito e della ricchezza, si sono concentrati su quelle per i diritti civili (importantissime anch’esse, naturalmente, ma non caratterizzanti) e, soprattutto, su quelle a mio avviso più inutili, cioè quelle relative alle “regole”, con l’aggravante che le nuove regole proposte peggioravano anziché migliorare quelle precedenti. Il caso emblematico è quello del sistema elettorale, trasformato da proporzionale a maggioritario, dopo il successo del referendum proposto da Mario Segni nel 1993. Proprio l’appoggio del maggior partito della sinistra a questa trasformazione ha contribuito, a mio parere, alla deriva che ha portato alla riforma del titolo V e alla prospettiva del premierato.

Pochi giorni fa sono stati approvati due provvedimenti molto cari al governo Meloni, il primo in via definitiva, il secondo in prima lettura: la legge sulla “autonomia differenziata” e la riforma costituzionale che introduce il “premierato”. A mio parere, dovrebbe essere chiaro a chiunque abbia a cuore le sorti del nostro paese e della democrazia compiuta che si tratta di due riforme totalmente negative: l’autonomia differenziata non solo porta a un aumento delle sperequazioni tra Nord e Sud, ma anche, in molti casi, a un peggioramento nell’amministrazione delle regioni del Nord, a dispetto di miti molto diffusi (chi, come me, vive in Lombardia, non dovrebbe mai dimenticare il disastro della gestione del COVID, nella sua prima fase, o il funzionamento scadentissimo dei trasporti regionali); il premierato, perché subordina di fatto il potere legislativo al potere esecutivo, cosa che non esiste nemmeno in paesi come gli USA e la Francia, in cui capo dell’esecutivo e parlamento sono eletti in due momenti diversi e quindi si condizionano reciprocamente (sarà un caso che il premierato non esiste in nessun paese del mondo?). Non è però tanto su questi argomenti che voglio soffermarmi, ma sul fatto che a entrambe queste riforme (o proposte di riforma, sperando ancora che non entrino mai in vigore) ha dato un contributo anche la strategia seguita negli ultimi decenni dalla sinistra, soprattutto dal partito che ne è sempre stato la componente più importante, cioè prima il PCI (nell’ultima fase della sua storia), poi il PDS e infine il PD.

Come naturalmente i partiti di governo oggi non cessano di ricordare, la legge Calderoli sull’autonomia differenziata non fa altro che prevedere l’attuazione, da parte delle Regioni che lo richiedano, di quanto già previsto dal titolo V della Costituzione come riformato nel 2001 dal governo “Amato II” . Ad esempio, l’attribuzione alla “legislazione concorrente”, di cui “spetta alle Regioni la potestà legislativa, salvo che per la determinazione dei principi fondamentali, riservata alla legislazione dello Stato”, di materie come “rapporti internazionali e con l’Unione europea delle Regioni; commercio con l’estero; tutela e sicurezza del lavoro; istruzione […]; ricerca scientifica e tecnologica”, e varie altre, tra cui “produzione, trasporto e distribuzione nazionale dell’energia” è esplicitamente prevista dall’art. 117 del titolo V riformato (da cui sono tratti i virgolettati; i corsivi sono miei). L’assurdità dell’attribuzione di materie come queste in primo luogo alla competenza regionale dovrebbe essere evidente. Tuttavia, anche il premierato non ha, o non ha avuto, tra i suoi sostenitori solo esponenti della destra, come vedremo.

L’origine della strategia della sinistra cui accennavo all’inizio sta nella generale crisi di valori e di programmi che, almeno dalla metà degli anni ’80, ha caratterizzato prima il PCI e poi i suoi eredi: invece che sulle battaglie storiche e identitarie della sinistra, come la redistribuzione del reddito e della ricchezza, si sono concentrati su quelle per i diritti civili (importantissime anch’esse, naturalmente, ma non caratterizzanti) e, soprattutto, su quelle a mio avviso più inutili, cioè quelle relative alle “regole”, con l’aggravante che le nuove regole proposte peggioravano anziché migliorare quelle precedenti. Il caso emblematico è quello del sistema elettorale, trasformato da proporzionale a maggioritario, dopo il successo del referendum proposto da Mario Segni nel 1993. Proprio l’appoggio del maggior partito della sinistra a questa trasformazione ha contribuito, a mio parere, alla deriva che ha portato alla riforma del titolo V e alla prospettiva del premierato.

Abbandonando il sistema proporzionale, certamente non si andava contro la lettera della Costituzione, che non dà nessuna indicazione specifica in merito alla legge elettorale. Tuttavia, la Costituzione era stata redatta presupponendo, implicitamente, l’adozione di un tale sistema. Lo si può ricavare, secondo alcuni giuristi (es. S. Leone, I referendum costituzionali, “Rivista del gruppo di Pisa”, 1/2024), oltre che da vari interventi all’Assemblea Costituente, dalle procedure di revisione costituzionale previste dall’art. 138. Il terzo comma di questo articolo dice che “non si fa luogo a referendum” confermativo se la proposta di revisione è stata approvata con la maggioranza dei due terzi del Parlamento. Evidentemente, una tale maggioranza parlamentare era considerata sufficientemente rappresentativa di quella popolare, ma questa eventualità è probabile solo in presenza di un sistema elettorale proporzionale: infatti, se le Camere fossero elette con un sistema maggioritario, è possibile che la maggioranza dei due terzi degli eletti non rappresenti i due terzi degli elettori. Naturalmente, questa interpretazione è contestabile, e credo che altri giuristi non la condividano; è però indiscutibile l’intento dei costituenti di scoraggiare l’approvazione di modifiche costituzionali “a colpi di maggioranza”. Invece, da quando è entrato in vigore il sistema maggioritario (1994), si è tentato più volte (con successo oppure no) di cambiare la Costituzione “a colpi di maggioranza”, cosa che non era mai accaduta in occasione di precedenti riforme, anche significative, come quella dell’art. 68, relativo all’immunità parlamentare (cfr. ancora S. Leone, art. cit.).

Il primo tentativo, riuscito, di questo genere è proprio la riforma del titolo V, attuata in un contesto politico che conviene ricordare. Si tratta dell’unica legislatura durata cinque anni in cui al governo sono state sempre le formazioni di sinistra, con i tre ministeri Prodi, D’Alema e Amato. Tutti e tre questi governi (gli ultimi due, soprattutto) portano avanti una politica che ben poco si distingue da quella che avrebbe potuto condurre un governo di centro-destra, come varie privatizzazioni, o l’adesione incondizionata all’attacco della NATO contro la Serbia nel 1999, ecc. In sintesi, sinistra e destra sono, in quel momento, non molto diverse quanto a programmi, realizzati o da proporre. Per darsi un’identità, la sinistra deve dunque portare avanti delle iniziative che possa decisamente intestarsi e che al tempo stesso spera possano sottrarre voti alla destra. Una buona idea in questo senso sembra la riforma dello stato “in senso federalista”, cioè del titolo V, che dovrebbe tagliare l’erba sotto i piedi alla Lega Nord, inducendo molti dei suoi lettori a votare per l’Ulivo alle politiche del 2001 (speranza poi andata delusa, peraltro).

Non essendo stata approvata con la maggioranza dei due terzi, la riforma in questione viene sottoposta a referendum confermativo, che si tiene il 7 ottobre 2001. Questo referendum è stato richiesto non solo dalla destra, ma anche dallo stesso Ulivo, che vuole utilizzarlo come rivalsa della sconfitta subita alle politiche della primavera precedente. Il “sì” viene fortemente appoggiato, tra gli altri, dalla “Repubblica”, con vari autorevoli interventi, tra cui uno del grand commis di stato Andrea Manzella del 6/10/2001, che si segnala per la genericità: è infatti un inno al federalismo, di cui si ricorda la progressiva adozione anche in altri paesi europei (Gran Bretagna, Spagna, e, in una certa misura, anche Francia), ma non cita una sola frase del nuovo testo del titolo V. Non ce n’è bisogno, comunque: “non è un caso che alla testa di tutti quelli che voteranno ‘sì’ ci sono gli unici ‘esperti’ italiani della materia”, scrive Manzella. Se quindi gli “esperti” approvano la riforma, il popolo bue non può che imitarli. E infatti il “sì” vince, anche se non si può certo dire che rappresenti la volontà della maggioranza degli italiani. La partecipazione al referendum è infatti molto bassa: solo il 34, 1%, con una percentuale di “sì” del 64, 2%, cioè, poco più del 22% degli aventi diritto.

Veniamo ora al premierato. L’argomento principe sempre addotto a favore di questo istituto è la scarsa stabilità dei governi. Tuttavia, nonostante la breve durata dei governi, l’Italia conosce un’importante stagione di riforme, soprattutto negli anni ’60 e ‘70. Per ricordarne soltanto alcune: nel 1962, l’istituzione della scuola media unica, che dà finalmente l’avvio all’attuazione concreta dell’art. 34 della Costituzione, che prevede otto anni di “istruzione obbligatoria e gratuita”, ma era rimasto fino ad allora di fatto disatteso; nello stesso anno, la nazionalizzazione dell’energia elettrica, che la fa giungere anche in zone che prima ne erano prive, perché non remunerative per le società private che la gestivano; nel 1970, lo Statuto dei lavoratori; nel 1978, il Servizio Sanitario Nazionale. Forse non è un caso che l’incisività di molte di queste riforme sia stata volutamente indebolita nel corso degli anni, spesso da governi che avrebbero essere dovuto essere di sinistra: nel 1992, il governo “Amato I” avvia la privatizzazione dell’ENEL, con la sua trasformazione in società per azioni, privatizzazione poi completata nel 1999 dal governo D’Alema; più tardi (2014) lo Statuto dei lavoratori è stato pesantemente modificato dal “Jobs Act” renziano. Tuttavia, per quanto riguarda gli assetti istituzionali, almeno fino alla fine degli anni ’70, sono solo alcune forze di destra, come il MSI, o “Nuova Repubblica” di Randolfo Pacciardi, o la destra PLI di Edgardo Sogno, a battersi per una “repubblica presidenziale”.

È però un politico leader di una forza storicamente di sinistra, cioè Bettino Craxi, che tra gli anni ’70 e gli anni ’80 comincia a sollevare la questione delle riforme costituzionali, in particolare per quanto riguarda il rafforzamento dei poteri dell’esecutivo. Questa idea gli diventa tanto più cara quando, a partire dal 1983, si trova a capo di un governo che si regge su una maggioranza all’interno della quale il suo partito, il PSI, conta molti meno seggi del suo alleato più potente, la DC (alla Camera, 73 seggi contro 225; al Senato, 38 contro 120) e anche del maggior partito di opposizione, il PCI, che ne ha 198 e 107, rispettivamente. Non a caso, Craxi insiste per un “rafforzamento dell’esecutivo”: infatti, la relazione finale della cosiddetta “bicamerale Bozzi”, attiva tra il 1983 e il 1985, contiene qualche indicazione in questo senso. Per il momento, comunque, non ne farà nulla.

È però evidente che l’adozione di un sistema elettorale maggioritario va in direzione di un rafforzamento dell’esecutivo, in quanto favorisce il principio della governabilità rispetto a quello della rappresentatività. E infatti Mario Segni, sulla cresta dell’onda nei primi anni ’90 per le vittorie dei referendum da lui proposti (prima di quello sull’adozione del sistema maggioritario, quello sulla preferenza unica) lancia lo slogan del “sindaco d’Italia”, come se le funzioni di presidente del consiglio fossero identiche, o almeno analoghe, a quelle di un sindaco o di un presidente di regione, per l’elezione dei quali è stato nel frattempo introdotto il sistema maggioritario. Questa assimilazione tutta da dimostrare non è propria del solo Segni: ad es., Francesco Rutelli, già candidato premier della sinistra alle politiche del 2001, affermava che “con le ultime riforme abbiamo reso stabili i governi locali e regionali, ma non siamo riusciti a rendere altrettanto stabili i governi centrali” (intervista a “la Repubblica” del 28/02/2001). In sintesi, l’ondata di entusiasmo per il maggioritario porta a delineare soluzioni simili a quella del premierato, anche da parte della sinistra o presunta tale.

Veniamo ai giorni nostri. Matteo Renzi il 1/8/2023 ha presentato un disegno di legge intitolato Disposizioni per l’introduzione dell’elezione diretta del Presidente del Consiglio dei ministri in Costituzione, il quale coincide quasi perfettamente con il premierato caro al governo Meloni: elezione diretta del premier e scioglimento delle camere in caso di sfiducia. Per rendere più popolare la sua proposta, Renzi ha rispolverato lo slogan del sindaco d’Italia. Certo, è alquanto dubbio che Renzi possa essere annoverato tra i politici di sinistra. È però interessante quanto ricordato dal senatore di Italia Viva Enrico Borghi, nella dichiarazione di voto a nome del suo gruppo a proposito del disegno di legge sul premierato (18/6/24): “per noi discutere di elezione diretta del Capo del Governo non era né un’eresia, né un atto di sovvertimento democratico […] Abbiamo portato in quest’Aula le riflessioni riformiste di pensatori come Maurice Duverger, Mario Segni, Cesare Salvi, tra gli altri, e le conclusioni della Commissione bicamerale presieduta da Massimo D’Alema, che, nel 1997-1998, immaginò l’introduzione in Italia del premierato”. I renziani hanno motivato il loro voto contrario non con ragioni di principio, ma perché a loro parere lascia varie questioni irrisolte, a cominciare dalla legge che dovrebbe regolare l’elezione del premier. In ogni caso, autorevoli esponenti dell’allora PDS come Cesare Salvi e Massimo D’Alema hanno condiviso la posizione di Mario Segni. Per concludere, si può notare un fatto curioso: il primo a spingere in direzione del rafforzamento dell’esecutivo è stato Craxi, come si è visto; ma proposte del genere sono state poi spalleggiate da alcuni esponenti del partito erede del PCI, che duramente si opponeva a Craxi negli anni del suo governo: un tipico caso di “eterogenesi dei fini”.

Autore: Giorgio Graffi (Bologna, 25 novembre 1949) è un glottologo e linguista italiano.

Fonte: altraparolarivista.it


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