Frattale del discredito

 

In un momento in cui tutte le forme di credenza collettiva sono in generale discredito, cosa rimane dei nostri miti? Ci stiamo dirigendo verso una società governata da algoritmi Gafam, un universo gelido privo di simbolismo e storia? L’ideologia della narrazione non sarebbe altro che uno schermo per mascherare questo vuoto di credenze. Oppure è portatrice di contro-miti che ribaltano le categorie del sacro e del profano, del nobile e del volgare, del bello e del brutto?

“Puntiamo il dito, ci indigniamo, facciamo confusione, per sbarazzarci delle cose,
per prendere le distanze da se stessi e dagli altri — da se stessi agli occhi degli altri — la cosa stessa che ci mette in pericolo.
La cosa stessa da cui rischiamo di essere attratti, sedotti o intrappolati.
Marcel Détienne, L’invenzione della mitologia

 

Spesso imitato, mai eguagliato, il saggio Mitologie di Roland Barthes, sin dalla sua pubblicazione nel 1957, si è imposto come modello per chiunque cerchi di analizzare i miti che governano la vita quotidiana nelle nostre cosiddette società dei consumi. Le Mitologie di Barthes non hanno mai smesso di interessare i lettori, anche se la maggior parte degli oggetti, delle situazioni e dei personaggi che ne costituiscono l’argomento sono scomparsi nell’oblio.
Chi oggi è affascinato dal wrestling, dalla plastica e dalla formica, dall’Abbé Pierre, dall’attore Harcourt, da Pierre Poujade, dallo striptease e dalla nuova DS Citroën? Chi si ricorda del marchio Astra, di Minou Drouet, della crociera Batory, dell’affare Dominici, dell’euforia dell’Omo, del matrimonio tra la figlia del Duca di Castries e il Barone di Vitrolles, di Fiévet Bichon, di “Bichon chez les nègres”?

L’aura che emana dalle mitologie barthesiane non appartiene agli oggetti stessi, alla loro sostanza, ma al mitologo che li raccoglie, li descrive e li decifra… Roland Barthes rivela significati nascosti sotto la superficie delle cose silenziose. Il suo lavoro consiste nello scegliere cose ordinarie e banali come miti, spogliate della ganga della loro funzionalità. Le trasforma in miti per demistificarle. La sua scrittura agisce come un pennello che spolvera la pellicola ideologica che le avvolge prima di esporle alla vista. L’aura di nostalgia che le circonda è come la patina del tempo sui resti di un mondo perduto. Le Mitologie di Barthes ci parlano di un universo stregato, popolato da false credenze e feticci che chiedono di essere interpretati.

Era un periodo felice per la coscienza critica, che stava imparando a giocare con i segni e le equivalenze agli albori della linguistica e della semiologia. Era il momento di ricostruire una società distrutta dalla guerra e di smantellare i suoi codici ideologici. Gli edifici stavano sorgendo, i nuovi materiali stavano diventando malleabili e una profusione di oggetti e immagini stavano invadendo il mondo, pronti per essere consumati. La cosiddetta ‘società dei consumi’ poteva essere letta nell’immenso accumulo dei suoi oggetti, immagini e rituali, come un meccano di segni le cui istruzioni per l’uso apparivano nei volantini, nelle brochure e nei flyer che li accompagnavano. Le immagini venivano offerte all’occhio critico, che le faceva parlare.

Le ‘Mitologie’ di Barthes, per quanto demistificanti, erano intrise dell’ottimismo del loro tempo, il tempo della ricostruzione. Barthes ci parlava di un mondo in ricostruzione, al quale poteva applicare la sua ironia corrosiva e la sua allegria, ed è questa allegria che ancora oggi alimenta la nostra nostalgia. Le automobili, gli articoli per la casa, lo sport, i nuovi materiali come la formica e la plastica, la moda, le icone della stampa femminile o dei cinegiornali, il turismo, persino la guarnizione del dessert o l’asciugatura della casalinga potevano essere visti come parte dell’impulso modernizzante, il desiderio di stile di un’intera società in preda alla febbre consumistica.

L’ironia di Barthes era diretta contro una società che ammaliava e mistificava, producendo non solo un’immensa accumulazione di merci, come scrisse Karl Marx, ma anche un’immensa accumulazione di immagini e miti. Il suo potere mistificatorio era legato alla fede collettiva in queste immagini, in questi codici simbolici e in queste narrazioni. Oggi non c’è nulla di simile! Dalla fine degli anni 2000, le nostre mitologie contemporanee hanno trovato la loro fonte non nella credenza collettiva, ma nel discredito che ha continuato a corrodere l’immaginario collettivo.

Il discredito è ovunque. I rituali e le forme di legittimazione del potere sono screditati. Il linguaggio autorizzato è screditato. Il discorso pubblico e le forme di conoscenza e di merito sono screditati. Il discredito della rappresentazione. Questo mostro dai mille volti obbedisce al ritmo febbrile dei nostri tempi, saltando dalla sfera privata al palcoscenico pubblico, dai social network alle prime pagine delle riviste. Soddisfa i desideri inespressi degli individui e accende le grandi passioni collettive. Ispira le inflessioni della moda e i lenti cambiamenti di opinione, le più assurde teorie di cospirazione e le ‘fluttuazioni del mercato azionario’. Viaggia intorno al pianeta giorno e notte come un’onda invisibile, che improvvisamente esplode in uno tsunami di odio e rabbia. Ogni atto, ogni pensiero, ogni parola è in debito con essa. Ma il silenzio dell’epoca è anche opera sua. Lui è il silenzio e il grido. La rivolta e il terrore.

Dalla vittoria della Brexit e dall’elezione di Donald Trump nel 2016, gli sono stati attribuiti poteri occulti e affinità segrete con gli algoritmi. Si dice che sia il carburante dei social network, che soffia sul malcontento delle folle, infiammando i commenti. Il discredito alimenta le rivolte popolari, dando libero sfogo ai peggiori istinti xenofobi e al malcontento legittimo. Assume le forme più diverse, prendendo in prestito i suoi slogan dalla vendicatività popolare e infiammando le classi superiori non appena l’ordine morale viene minacciato.

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Francia. La logica di un mondo politico in decomposizione

Scavando tutti gli spazi di legittimità (della parola, della conoscenza, del merito, della rappresentazione), distruggendo i miti più profondamente radicati nella memoria collettiva e coltivando un credo paradossale, la profanazione di ogni credo. Il discredito non propaga la fede, ma l’incredulità. Ispira nuove mitologie che capovolgono l’inconscio collettivo. Il discredito rende l’abietto desiderabile, l’indegno ammirevole, lo scandaloso stimabile.

Di fronte al ‘circolo della ragione’ che ha portato il mondo alla crisi del 2008, è emerso un ‘circolo del discredito’, infiammato dalla rabbia della gente, che ha trovato la sua camera d’eco nelle reti sociali, ma anche il suo ‘formato’, la sua sintassi e i suoi codici, creando quella che potrebbe essere definita una ‘sottocultura dell’incredulità’. Lo scollamento tra il discorso ufficiale e l’esperienza reale delle persone ha minato la credibilità di tutte le narrazioni ufficiali. Le nozioni dell’inconscio collettivo e degli archetipi sono state messe alla prova del discredito; imbevute nell’acqua salmastra dei social network, hanno iniziato a riflettere il mondo alla rovescia, il degrado dei valori, il mascheramento delle norme.

Il ‘teatro del mondo’, per usare la vecchia metafora della rappresentazione, è irriconoscibile, distrutto da cima a fondo come all’indomani di un disastro. Né il teatro della guerra, né il teatro politico delle assemblee, né il teatro sociale delle strade sono stati risparmiati dal potere corrosivo del discredito. Sul palcoscenico dei media sovraeccitati si aggirano le ultime figure della politica e della cultura, zombie che vagano senza meta e senza convinzioni, il politico buffone padrone delle reti, il cinico conduttore di talkshow, gli influencer di YouTube, le star dei reality TV, i commercianti corrotti eretti a vittime, i teenager delle reti sociali milionari per numero di iscritti.

Questi antieroi trionfano sotto i segni del volgare, dello scatologico e del derisorio… Incarnano una sorta di idealtipo negativo, l’insulso, l’offensore, l’attaccabrighe, rivestito di una patina di notorietà. Le loro esibizioni consacrano una forma di sacralità kitsch, una statuaria degradata di cui il rapper gangster è la polena.

Il ‘trash-talk’ (provocazioni verbali, buffonate, battute, autocelebrazione, insulti) praticato dalle star del pugilato e del basket per ottenere notorietà e promuovere i loro leggendari combattimenti, si è diffuso a tutti gli sport, al poker o ai videogiochi online, e più in generale a qualsiasi attività soggetta a competizione, fino a diventare uno strumento permanente di gestione aziendale e di marketing. Il trash-talk è un modo di dire che consiste nel destabilizzare gli avversari o galvanizzare le proprie truppe utilizzando metafore e altre iperboli provocatorie. È diventato così dominante da avere un proprio lessico, la “Lexique du TrashTalker”, una sfilza di sinonimi e neologismi che il sito specializzato #trashtalk suggerisce di aggiungere al Petit Larousse.

Ovunque, il trash-talk suscita passioni, mobilita i sostenitori e cerca di sbilanciare gli avversari. I politici lo usano per minare la credibilità dei loro avversari (si veda il famoso “chiudi quella cazzo di bocca” rivolto a un avversario politico all’epoca della presidenza del Senato). Più che un linguaggio scurrile, il trash-talk è diventato il principio performativo alla base di tutto l’intrattenimento popolare, dai reality TV ai dibattiti televisivi, in cui gli opinionisti sportivi e politici utilizzano piccole domande portate all’estremo per produrre scontri generici. È l’arte di creare rivalità, qualunque sia l’argomento. Può essere il bene contro il male, il grande contro il piccolo o l’offensivo contro il difensivo. La stessa tendenza è replicata online, dove gli account di social media aziendali cercano di conquistare gli abbonati scatenando guerre su Twitter o TikTok.

Mentre la logica del discredito, osservata in molti settori della vita sociale e in molti nodi delle reti sociali, non è discutibile, rimane una domanda. Come fa il fenomeno del discredito a imporsi su universi sociali molto distanti tra loro? Come si diffonde il discredito in tutte le forme di discorso (politico, scientifico, mediatico, ecc.)? Come si trasmette così rapidamente, saltando da un campo di attività all’altro (politica, crisi sanitaria, crisi ecologica, arte e cultura, discorso sulla guerra, ecc.) Attraverso quali canali questo principio si impone a tutti questi livelli discorsivi e simbolici come caratteristica distintiva di un’epoca, la crisi del nostro tempo?

Ovunque, il discredito stabilisce la sua legittimità in modo paradossale, non basandosi sul credito al centro del patto di rappresentazione, ma sul discredito che mina ogni credenza. Ciò che è famoso è ciò che causa problemi, trasforma il sacro in profanazione, trasforma la reputazione in infamia e prende in prestito le sue forme dal carnevale e dal travestimento grottesco.

In che modo la bruttezza, l’infamia e l’indegnità sono diventate desiderabili nelle nostre società?

Di fronte alla pandemia di coronavirus, il discredito ha dimostrato pienamente il suo potere di diffusione. Si è diffuso in tutti i discorsi autorizzati, politici, mediatici, scientifici ed epidemiologici. I ciarlatani si sono improvvisati esperti epidemiologi e gli esperti epidemiologi si sono rivelati ciarlatani. L’antica paura delle epidemie è mutata sui social network in una diffusa teoria della cospirazione. Ha forgiato una nuova classe di politici che hanno elevato il potere grottesco al rango di un modello post-weberiano di dominio legittimo.

In che modo il brutto, l’infame e l’indegno sono diventati desiderabili nelle nostre società? Come si acquisisce la notorietà sui social network, a costo di screditare tutte le forme di discorso e di azione legittimi? Per spiegare questa diffusione del discredito, spesso si ricorre al concetto un po’ generico di populismo o alle nozioni di contagio, di “epidemie tematiche” (Peter Sloterdijk) o di “viralità” (Jean Baudrillard), o anche di “affinità elettiva”, un concetto che deriva dall’alchimia o dalla letteratura romantica (Goethe). Max Weber usava questo termine per descrivere il rapporto di attrazione e convergenza che esiste tra forme culturali — religiose, intellettuali, politiche o economiche — che sono a priori eterogenee. Ma questa spiegazione è più intuitiva e soggettiva che razionale e non sostituisce altri paradigmi analitici.

La teoria dei frattali del matematico franco-americano Benoît Mandelbrot è particolarmente illuminante. Descrive figure frammentate con contorni irregolari ma con una struttura ripetitiva; la loro forma è identica, indipendentemente dalla scala in cui vengono osservate. Nel corso di una carriera ricca di scoperte, Mandelbrot si è distinto per aver trovato la semplicità e persino la bellezza laddove altri vedevano solo un disordine inestricabile. La chiave di volta della sua teoria è un’idea tanto semplice quanto difficile da comprendere: l'”auto-similarità”, in base alla quale la parte è strutturata come il tutto. La teoria dei frattali permette di considerare sia l’estrema frammentazione degli habitus culturali che la loro convergenza reticolare.

Questo principio di auto-similarità può essere applicato a molti fenomeni naturali. Un esempio di questi frattali che Benoît Mandelbrot era solito dare ai suoi studenti a scopo didattico (e non senza una certa dose di malizia) era… il cavolo romanesco! La sua forma generale è un cono, a sua volta composto da coni più piccoli disposti a spirale. Ma ha esteso il campo degli ‘oggetti frattali’ a soggetti diversi come la trasmissione di segnali, la turbolenza, la struttura dei saponi, il rilievo della Terra, i crateri sulla Luna e la distribuzione delle galassie. Ha iniziato interessandosi alla struttura del linguaggio, alle tassonomie, alla distribuzione del reddito e alle variazioni dei prezzi speculativi. Dal 1975 al 1984, Mandelbrot ha dato importanti contributi alla dinamica dei fluidi…

I frattali hanno avuto numerose applicazioni in idrologia, meteorologia, acustica e processi di diffusione biologica come la respirazione e il metabolismo. Le situazioni critiche sono al centro della sua ricerca, che porta a problemi legati alla propagazione, alle epidemie, alle invasioni, alle esplosioni e a fenomeni culturali come il discredito.

Parlare di frattali del discredito evidenzia tre caratteristiche specifiche del fenomeno:

Ricorsività. I frattali come il discredito sono generati da un processo circolare, un ciclo in cui l’output di un livello diventa l’input del successivo, noto anche come feedback. L’espansione del discredito obbedisce a un principio di ricorsività.
Scala. I frattali di discredito hanno la stessa configurazione su scale diverse all’interno del dominio in esame.
Autosimilarità. I frattali di discredito si riproducono secondo una configurazione identica. Riproducono la forma della loro struttura madre. La configurazione di discredito è la manifestazione del principio di auto-similarità.

“La struttura del web e le dinamiche sociali che si svolgono al suo interno possono essere illuminate dall’analogia con le forme frattali”, spiega il net artist Christophe Bruno. Questa prospettiva rivela come Google, che si posiziona come hub centrale, il web sia organizzato in una gerarchia di hub di importanza decrescente, creando una struttura complessa che si evolve sotto l’influenza di molteplici attori, fino al ‘fondo’ della blogosfera. Le nozioni di ‘forza dei legami deboli’ e di ‘piccolo mondo’ sono fondamentali per comprendere la viralità delle informazioni all’interno di queste reti. La distribuzione della visibilità e dell’influenza segue una ‘coda lunga’, analoga alla legge di Pareto in economia o alla legge dell’80/20. Il collegamento con l’idea del discredito mi sembra eccellente: il credito sociale fa parte di una logica che ricorda la ‘coda lunga’, come qualsiasi ‘sistema informativo stellare’, e lo stesso vale per il discredito sociale, in modo speculare. Le dinamiche iconoclaste del discredito contemporaneo sono legate a questa fenomenologia di reti complesse. (Corrispondenza con l’autore).

In un famoso articolo della rivista Le Débat, “Les fractales, les monstres et la beauté”, Benoit Mandelbrot ci ha ricordato che la cronaca della scienza ha le sue storie di stregoni e fiabe. “Uno stregone crea un mostro… Una volta che il mostro è stato liberato, i contadini si rifiutano di farlo entrare nei loro villaggi, perché le storie raccontate su di lui li spaventano tanto quanto costringono alla loro incredulità. Ecco quindi che il demone del discredito riappare all’incrocio tra la cronaca scientifica e l’antropologia dei miti contemporanei. Non siamo andati molto lontano nell’esaminare le mitologie contemporanee e la loro relazione con il fenomeno del discredito.

I frattali di Mandelbrot fanno luce su una sorta di legge di gravitazione simbolica che trascina tutti i riferimenti culturali verso il basso (la formazione di mitologie minori, icone, mode, ecc.) Assistiamo quindi a un’inversione dell’asse di legittimazione dei comportamenti e degli idealtipi (da dignitoso a indegno, da alto a basso, da bello a brutto, ecc.) che sottopone tutte le rappresentazioni simboliche alla tirannia della notorietà infame. La politica scambia l’incarnazione con l’esibizione, la cultura regredisce a una sottocultura dell’incredulità e le forme grottesche dello svilimento carnevalesco si estendono a tutte le attività soggette al frattale del discredito.

Christian Salmon pubblicherà L’empire du discrédit (L’impero del discredito) in ottobre con Les liens qui libèrent.

Christian Salmon, è SCRITTORE, RICERCATORE PRESSO IL CENTRO DI RICERCA SULL’ARTE E IL LINGUAGGIO.

Fonte: AOCMedia


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