Si è eroi si vive con onore la sconfitta, cioè basta immolarsi o morire imprudentemente in guerra mostrando ostentazione del pericolo, insomma… alla fine basta solo morire. E le medaglie d’oro alla memoria fioccano in moltissimi casi. Vediamone alcuni del passato che in qualche caso, più che la lacrima ispirano la rabbia o appaiono fin vergognosi e incolpevoli. Responsabilità e mentalità del militarismo, una questione di prospettiva che ritroviamo anche oggi nelle guerre in corso.
La carica dei 600 della cavalleria britannica a Bataklava, il 25 ottobre 1854 durante la guerra di Crimea, avanza per più di tre quarti di miglio contro con le batterie russe che sparano a palle piene e a mitraglia da entrambi i fianchi, davanti a loro un quadrato di fucilieri. Non venne completamente distrutta, solo… 118 morti, 127 feriti e 362 cavalli perduti. Dopo essersi raggruppati, 195 uomini erano ancora a cavallo pronti per la seconda ondata fino a essere annientati completamente. L’incoscienza dell’azione e la sua audacia sconsiderata fecero affermare: al maresciallo di Francia Pierre Bosquet: “È magnifico, ma questa non è battaglia, è una follia”. Ecco l’estetica del suicidio eroico. Il generale Onorato Rey de Villarey a Custoza a capo della brigata “Pisa” mandò i suoi uomini al massacro e fu colpito tra i primi, così meritò cippi e busti per le sue virtù marziali. Altri eroi a Lissa, il comandante della corazzata “Re d’Italia” venne fatto a pezzi come Alfredo Cappellini della “Palestro” così affondarono gloriosamente con le loro navi: nella battaglia si erano affrontate 12 corazzate e 17 vascelli italiani contro 7 corazzate austriache e 11 vascelli, ma le perdite italiane (oltre alla corazzata e alla cannoniera) furono di 620 morti 120 feriti contro quelle austriache, di 38 morti e 138 feriti, ma con nessuna nave perduta. E che dire dei sessanta legionari francesi che a Camerone nel 1863 si lanciarono all’assalto alla baionetta contro 2.000 messicani? La prima avventura militare in Africa (1887-1912) fu un capolavoro di incompetenza e di incapacità militare: a Dogali nel gennaio del 1887 in Eritrea, 500 morti nella colonna guidata dal colonnello De Cristoforis. Vittime della presunzione militare europea già accaduta agli inglesi: 1800 morti contro gli zulù nel 1879 e poi a Khartoum nel 1885, perché l’onore non ammetteva alcuna ritirata.
Così il comune di Roma dedicò un obelisco agli eroi di Dogali da collocare davanti alla stazione Termini (oggi è alle terme di Diocleziano). La seconda spedizione in Etiopia fu ancora più “eroica”, il corpo di spedizione di 17 mila uomini fu annientato il primo marzo dalle forze di Menelik II. Non bastò, così si concentrarono in Eritrea 40.000 uomini per vendicarli. Una colonna di duemila uomini guidata dal maggiore Pietro Toselli venne annientata ad Amba Alagi, mentre i 1.500 agli ordini del maggiore Galliano furono circondati nel forte di Macallè e costretti ad arrendersi. “Meglio perdere due o tremila uomini in battaglia che andare incontro a una ritirata disonorevole”, parole del generale di brigata Vittorio Dabormida, ma solo 48 ore dopo venne ucciso con i suoi uomini. Infine, si abbandonò il territorio accusando i soldati di codardia per sopperire al peso umiliante della sconfitta, mentre ci furono ufficiali che con i loro uomini si persero nel deserto e morirono di sete, anche una compagnia di alpini combatté tra le dune di sabbia con l’equipaggiamento di montagna.
Questo era il XIX° secolo, riassumibile con le parole di Abramo Lincoln: “l’immortalità come premio di una nazione riconoscente ai propri figli che si erano immolati nobilmente”.
Nel primo decennio del Novecento la voglia di misurarsi sul campo di battaglia non si riuscì a trattenere, prima sui Balcani e poi in tutta Europa. Nella guerra Italo-Turca e in seguito nella Grande guerra, “i giornalisti in Italia e in Europa non si limitarono a deformare la realtà: ne crearono una parallela per scopi bellici, in questo caso inventando di sana pianta una terra appetibile che chiedeva solo di essere conquistata”.[1] Ritornarono in uso pax romana, Mare nostrum, terre irredente, così la prima campagna di disinformazione di massa sedusse l’opinione pubblica e la spinse ad agire, chiedendo al governo a gran voce armi e guerra … Ci sembra di essere ritornati ad oggi, sia per l’Ucraina e sia per il silenzio assordante e sanguinante del territorio palestinese. L’Italia mobilitò 35.000 uomini per invadere la Tripolitania nell’ottobre del 1911, ma nel corso dell’anno, – dopo la disfatta di Tripoli e di Shara al Shatt con la perdita di 500 uomini dell’11° reggimento bersaglieri – si giunse a mettere sul terreno 10.000 soldati, dopo un anno di combattimento, le perdite furono di 3.500 uomini perché “un grande popolo non si poteva costruire senza ardue prove e sangue”.
L’ingresso dell’Italia nella Grande guerra, dopo il patto segreto di Londra nel 1915, contro la volontà popolare e la maggioranza parlamentare, mise il capo di stato maggiore Cadorna nelle condizioni di preparare piani e strategia in pochi mesi e… si vide. Uno schieramento lunghissimo su un fronte a ridosso delle Alpi ad altezze elevate, poi qualche obiettivo assolutamente senza importanza come l’attacco al fortino del Basson da parte della 34ª divisione Treviso del colonnello Marco Riveri con il suono della “Marcia Reale”, bandiere e sciabole e baionette in pugno contro cannoni e mitraglie, comportò la perdita di oltre 1.200 uomini su 2.800. Sul fronte orientale, l’assalto al San Michele costò la vita a 6.000 fanti, cioè la metà degli effettivi e a quasi tutti i comandanti dei battaglioni. Ma il vate D’Annunzio cantò i fanti del Basson paragonandoli agli opliti di Maratona, quasi mille medaglie al valore e alla bandiera dei reggimenti. Anche sul Monte Nero stessa strategia e analoghi i dati dell’inutile sacrificio: 500 bersaglieri caduti e una ventina tra ufficiali e sottufficiali. E doveva ancora esserci Caporetto…
La conquista dell’Etiopia, dove il tenente Ennio Flaiano che vi partecipò, scrive in Tempo di uccidere (1947), “fu una conquista sordida e violenta contro la popolazione, senza alcun eroismo, semmai uno sgabuzzino delle porcherie”, con un’armata di mezzo milione di uomini, 1.500 cannoni, una flotta di oltre 400 velivoli, costò oltre 12 miliardi di lire dell’epoca.
Andò ben diversamente nel 1941-42 all’ARMIR composta inizialmente da 150.000 uomini, ma nel gennaio del 1943 ne rimasero quasi la metà tra i ghiacci: 70.000 furono fatti prigionieri, e ne ritornarono solo 10.000. Dei 60.000 delle divisione alpine della Julia, se ne salvarono solo 25.000.
Dopo l’8 settembre la ripresa di una guerra civile contro l’ex alleato e la Repubblica di Salò con guerriglia, contro guerriglia e bombardamenti a tappeto degli alleati, causò la scomparsa di 250.000 italiani (solo 25.000 per mano dei nazisti e dei Repubblichini). Quasi ovunque in Europa dopo il 1945 con la fine delle ostilità, non avrebbe comportato affatto la fine della violenza. Tra il 1945 e 1946, la sete di sangue avrebbe reso lecito ogni delitto in nome del “giusto castigo” con la celebrazione di caduti-eroi da una parte e dall’altra.
In tempo di pace “l’eroe della strada” è una metafora rovesciata poiché salva una vita, ma finisce per essere aneddotica, esclusa dalla storia patria, contemplata per un attimo alla “velocità di un proiettile” o per un giorno o due sulle pagine dei giornali, per essere subito dimenticata. Infatti, per secoli l’idea della guerra aveva avuto una missione civilizzatrice, idea aberrante visto che non ci si riverisce mai ai civili caduti sotto le bombe o colpiti da una cannonata o da un mitragliamento: stavano dormendo, oppure mangiando o passeggiando, privi di alcun statuto di eroico, soltanto vittime inconsapevoli.
[1] Marco Mondini, Il ritorno della guerra, il Mulino, Bologna, 2024.