La notte dell’Europa e le peripezie dell’umano in Jan Patočka

 

“In tutti i fenomeni precedenti, diviene manifesta la perdita di mondo dell’Europa d’oggi, la perdita del terreno originario, su cui l’esistenza umana si muove. La perdita non viene mai vista o sentita in quanto tale, ma si atteggia in modo positivo, fornisce delle prestazioni, degli sviluppi […] Ma proprio in questo modo si caratterizza lo spirito europeo, messosi in cammino da tre secoli sul sentiero del dominio del mondo […] La maledizione dello spirito europeo consiste nel fatto che esso fugge nelle cose, ma non trova nulla in esse.”

Premessa

 

Jan Patočka è forse il pensatore del ‘900 che, assai più degli altri, si è spinto fin dentro gli abissi della storia europea, diagnosticandone patologie ed aporie sepolte. La questione dell’Europa travolta dalle due guerre mondiali significa tante declinazioni, anche contraddittorie: cura dell’anima, responsabilità, razionalità tecno-scientifica, superciviltà, sacrificio, destino dell’uomo d’oggi e tante altre cose.

Il dato più drammatico, nella lettura patočkiana della storia contemporanea, è il declino della nostra civiltà ormai accecata dall’abbagliante luce del Giorno che ha provocato tanti disastri in nome della pace e del progresso. In altri termini, il trionfo della Ragione illuministica volta all’utile, al profitto, all’accumulo vertiginoso della Forza ha portato al suicidio dell’Europa, al crollo della sua identità spirituale e della sua responsabilità verso il mondo intero. Qui è il punto cardine dell’intera riflessione di Patočka che si è articolata lungo vari decenni alternando l’insegnamento universitario, quando gli è stato permesso dal duro regime comunista cecoslovacco, ai cosiddetti seminari di appartamento (samizdat): la mancanza di una visione dell’uomo che emerge dalle forze misteriose delle tenebre che solo possono rischiarare il senso e la problematicità della storia e dell’esistenza autentica. Nel fondo oscuro di quest’esperienza abissale l’uomo contemporaneo, sospeso negli ingranaggi del dominio tecnico, può, in definitiva, riacquistare la sua autenticità e disinnescare il conflitto distruttivo generato dall’ideologia del giorno e della quotidianità. Nell’accettazione consapevole di questo nesso insolubile che lega giorno e notte, manifestazione e velamento, chiarezza e oscurità, ci si può addentrare nella complessa riflessione sull’Europa, sulla sua crisi e in generale sul declino della civiltà contemporanea.  Già in un passaggio cruciale dei Saggi eretici sulla filosofia della storia (1975) leggiamo: «Il fenomeno, il manifestarsi e il nascondersi sono dunque fra loro collegati nel modo più stretto. Non si dà nessuna manifestazione senza nascondimento. Il nascondimento è primario nel senso che ogni manifestazione può intendersi solo come di-svelarsi»[1]. L’occultamento, l’assenza, il celarsi co-appartengono al fenomeno, lo penetrano nella sua totalità. Parimenti, questa duplicità delle strutture fenomeniche va colta nell’ambito dei processi storici e negli insondabili movimenti dell’esistenza umana. Ciò significa che facendo esperienza del nascondimento da cui le cose vengono alla luce, è possibile rigenerare e ripensare la storia e la vita nella costante oscillazione tra elevazioni e cadute, tra nascita e declino, Con questo sguardo duplice si può esplorare l’inesplorabile per consentire all’essere umano di passare dall’informe alla forma, dal pre-istorico allo storico, di posizionarsi  nella dimensione dell’ampiezza che è la consapevolezza più alta delle vere altezze e dei veri pericoli della nostra esistenza. «Nell’ampiezza reale l’uomo acquisisce potere non solo rispetto ai suoi limiti esteriori, ma anche rispetto al suo limite interiore […] il dolore, catturato e sostenuto nell’ampiezza, ci insegna a scoprire il mondo e ci mostra che siamo liberi nell’interpretare il suo significato»[2]. Fare esperienza del dolore o della perdita ci apre alla dimensione dell’inestirpabile profondità, ci aiuta a guardare alla vita in modo più completo. «Vivere nell’ampiezza significa mettere alla prova se stessi, implica una protesta. Nell’ampiezza l’uomo si espone a quelle possibilità estreme che, nella vita quotidiana, rappresentano mere possibilità astratte e lontane»[3].

Parole profetiche e di grande lucidità intellettuale scritte dall’Autore nel 1939 in uno dei momenti più tragici della storia dell’Europa e della Cecoslovacchia in particolare. Vivere nell’ampiezza implica una resistenza al negativo che avanza nella storia, significa esporsi alle fratture e alle crepe che connotano l’esistenza umana. Non si può essere indifferenti al proprio essere. Anni dopo, nelle celebri lezioni su Platone e l’Europa del 1973, Patočka preciserà questo motivo: «L’uomo, per il fatto che sta tra il fenomeno e l’ente puro e semplice, ha la possibilità o di cadere e di abbassarsi al livello del semplice ente, o di realizzarsi come essere di verità, essere del fenomeno»[4]. A questa consapevolezza tragica di cadere o di elevarsi che si manifesta nell’essere umano si situa l’origine della storia medesima che coincide con la resistenza dell’essere umano contro l’immediatezza del mondo naturale e i fatali incantesimi della quotidianità, con il risvegliarsi della responsabilità verso ciò che è propriamente umano[5].

 

La storia nasce con un risollevarsi da uno stato di decadenza, con l’intuizione che la vita è stata finora una vita nella decadenza e che esiste un’altra possibilità, o più possibilità, di vivere, anziché, da un lato, arrabbattarsi per riempirsi lo stomaco nella miseria e nelle privazioni […] dall’altro, abbandonarsi a momenti orgiastici privati e pubblici, cioè la sessualità e il culto[6].

 

Di fatto ci si può aprire verso un’altra esistenza possibile e la pólis, l’epica, la tragedia e la filosofia sono l’espressione di questo slancio vitale, di questo risollevarsi dallo stato di decadenza. Eppure le forze del declino non riguardano esclusivamente la vita pre-istorica ma anche la civiltà degli ultimi secoli che si è sempre più fondata sulla tecnica e sulla volontà di dominio. Le guerre mondiali e le catastrofi del XX secolo rappresentano l’esito naturale di quella Forza che crea e distrugge ogni cosa, e che tutto e tutti servono.

La vita e la storia, dunque, si intrecciano e si saldano come solidi pilastri del pensiero patočkiano che non esita ad autodefinirsi “eretico” e “resistente” nello scrutare gli aspri fondali della condizione umana del XX secolo. La sua opera concepita nelle furibonde tempeste del secolo breve (il nazismo, la Seconda guerra mondiale, il comunismo staliniano, il crollo del sogno della Primavera di Praga, la dissidenza e la persecuzione) si chiede con urgenza come ripensare gli accadimenti collettivi e restituire senso alla politica e alla storia. «E soprattutto al fatto che il suicide (suicidio) dell’Europa nell’epoca della tecnica e delle due guerre mondiali non sia una casualità, ma il frutto coerente di tutta la formazione dell’uomo da parte di tale tradizione umanista»[7]. Non serve solo fotografare le macerie sepolte nei fondali della storia ma provare a ricostruirne i nessi, i motivi sciagurati che hanno condotto l’Europa e l’Occidente a provocare quelle macerie. Si tratta di capire in primo luogo che cosa sia stata veramente l’Europa e dove è nata e perché il suo destino e il suo futuro si leghino inevitabilmente alla condizione dell’uomo contemporaneo[8].

In questo breve saggio proverò ad enucleare questo tema provando a cogliere il filo conduttore dell’analisi patočkiana: per ricucire i brandelli di un mondo capovolto o sottosopra è la frequentazione degli abissi, è avere “l’oscurità sempre dinnanzi a sé”. «La vita politica intesa come vita che si svolge sotto l’urgenza del tempo, nel ‘tempo-verso’, è anche una continua vigilanza, una continua assenza di basi, di ancoraggio. La vita […] ha quest’oscurità- e cioè la finitezza e la continua precarietà della vita – sempre davanti a sé»[9].

In uno scritto coevo del 1975, L’uomo spirituale e intellettuale, due anni prima dell’esperienza di Charta 77 e della sua tragica morte in quello stesso anno a seguito del brutale interrogatorio della polizia, leggiamo: «Essere esposti al negativo comporta un particolare programma di vita, implica una vita completamente nuova […] È impossibile vivere su un suolo stabile; ci è consentito vivere esclusivamente su un terreno ondeggiante, in uno stato di sradicamento»[10]. È questa coscienza del senso duplice, quest’appello alla non-evidenza della realtà a generare smarrimento e turbamento anche in tre grandi pensatori della contemporaneità, Paul Ricoeur, Jacques Derrida e Michel Foucault che hanno tratto dall’insegnamento di Patočka l’idea di una filosofia come pensiero “ereticamente” responsabile in grado di contemplare l’abisso, cioè il coraggio di fissare lo sguardo dentro la condizione di problematicità della vita e della storia e di interrogare l’esperienza della perdita di senso per ritrovarvi il nuovo senso che chiama alla responsabilità.

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Angoscia. Radiografia e ricognizione del presente 1/2. Noi siamo Angoscia

La notte dell’Europa

Il mondo della vita e il mondo della storia si caratterizzano nella lettura di Patočka all’insegna della perdita: ogni fenomeno umano o storico deve potere radicarsi in questa consapevolezza di finitezza e fragilità. La specificità dell’Europa, ad esempio, che ha conosciuto nei secoli della modernità crolli e catastrofi consiste nella sempre ardente necessità di confrontarsi con una problematica sempre aperta e inesauribile del senso dell’esistenza sia individuale che storico-comunitaria. L’uomo vive perennemente in una situazione di crisi perché esposto alla duplicità fondamentale del bene e del male, del chiaro e dello scuro, dell’abisso e della vetta. Una volta fatta esperienza della problematicità si compie una scelta: o aderire responsabilmente alla problematicità della vita o consumare se stesso nella dimensione dell’inautentico.

La civiltà europea che si è consolidata negli ultimi secoli sul sentiero del dominio del mondo appare, ora, lacerata e colpita al cuore da cadute e catastrofi generate dalla sua pretesa di essere una superciviltà. In uno scritto del 1974, La razionalità europea e il segreto del mondo, Patočka scrive:

 

In tutti i fenomeni precedenti, diviene manifesta la perdita di mondo dell’Europa d’oggi, la perdita del terreno originario, su cui l’esistenza umana si muove. La perdita non viene mai vista o sentita in quanto tale, ma si atteggia in modo positivo, fornisce delle prestazioni, degli sviluppi […] Ma proprio in questo modo si caratterizza lo spirito europeo, messosi in cammino da tre secoli sul sentiero del dominio del mondo […] La maledizione dello spirito europeo consiste nel fatto che esso fugge nelle cose, ma non trova nulla in esse[11].

 

La civiltà europea nel suo ritmo ciclico di potenza e declino, di elevarsi da un lato a superciviltà e di crollare dall’altro stremata da quelle forze della scienza e della tecnica che essa stessa ha prodotto è giunta alla fine della sua corsa dopo aver dominato il mondo intero. «L’Europa, come potenza dominatrice del mondo, non esiste più, ma il suo spirito, che, credendo di compiere qualcosa di positivo, ha portato tanta distruzione, è ancora vivo e cerca di assoggettare a sé l’intera umanità»[12]. La nozione di superciviltà è attraversata da un insanabile conflitto interno come spiega lucidamente Patočka in un saggio degli anni Cinquanta incompiuto[13]. La superciviltà è il risultato di un processo di razionalizzazione che non ha termini di paragone nelle altre civiltà: «Ogni civiltà tende a salvaguardare la propria sicurezza, non tramite una forma di conservatorismo, ma attraverso un moto di espansione: essa si scatena e offre un modello di contaminazione o di soppressione degli avversari e di chi si trova al di fuori di essa»[14]. In altri termini, la superciviltà tende ad imporre modelli razionali e omologanti che la rendono invasiva e dominante su altre forme di vita e di cultura. Il destino dell’Europa degli ultimi tre secoli si è retto sulla logica della potenza e del dominio marginalizzando quel nucleo religioso ed orgiastico attorno a cui le civiltà si sono normalmente organizzate. Patočka, interrogandosi sulla genealogia dell’Europa, registra il conflitto interno e le lacerazioni in due fronti contrapposti che hanno tormentato la civiltà europea e il suo fallimento come “una superciviltà razionale”: da un lato la componente moderata e atlantica e dall’altro quella rivoluzionaria e radicale, figlie entrambe legittime della storia europea.

Queste due varianti configurano due opposte concezioni di razionalità, anche due diverse modalità di gestione del potere e di organizzazione della vita sociale.

Nel moderatismo predomina una tecnica oggettiva, orientata verso le macchine, gli utensili, gli strumenti […]. L’ambito naturale della tecnica moderata riguarda, innanzitutto, l’aspetto materiale delle cose; in tale ambito rientra ciò che facilita la vita, per mezzo di un controllo su ciò a cui la scienza, ossia un sapere generalmente vincolante, può accedere. Nel radicalismo c’è un’altra tecnica che prevale, di carattere politico, umano-sociale: la tecnica del dominio sugli uomini, sugli individui così come sui gruppi sociali[15].

Moderatismo e radicalismo denunciano la crisi profonda della civiltà europea e la sua incapacità di produrre veri valori universalistici. Qui si si radica in maniera irreversibile il conflitto interno alla super-civiltà, sospesa tra sistemi diversi tra loro inconciliabili e votati a perpetuare le proprie contraddizioni. Questa scissione della superciviltà è avvenuta, secondo il filosofo boemo, durante e in seguito alla Rivoluzione francese: la corrente moderata ha mantenuto l’egemonia sull’Europa borghese, quella radicale a partire dai montagnardi, da Babeuf, si è imposta con l’entrata in scena di Lenin e della sua teoria dell’imperialismo e dello sfruttamento economico. «Entrambe le correnti partecipano al grande processo di storicizzazione che vede coinvolte le civiltà extra-europee e che avviene attraverso il loro inglobamento nell’ambito della superciviltà razionale»[16]. Con l’Illuminismo l’Europa assume una posizione egemonica a livello mondiale. L’organizzazione capitalistica e l’industria, unite alla tecnologia, hanno contribuito infine a consolidare il predominio europeo su altri Paesi incapaci di opporsi. Coerentemente con questa linea di sviluppo della storia, il mercato mondiale ha lavorato per il benessere dell’Europa e per l’affermazione della sua potenza fisica.

Senza addentraci in una dettagliata analisi delle splendide pagine patockiane si può affermare che siamo di fronte ad un disegno di una lucida contro-filosofia della storia che mette in crisi paradigmi, certezze, linee di continuità, schemi di causalità storica. Il fenomeno della perdita da parte dell’Europa e del suo ruolo guida nello scenario mondiale è stato determinato soprattutto dalla catastrofe delle due guerre mondiali e della divisione in blocchi tra Est e Ovest.

Questa specie di maledizione aleggia sul destino dell’Europa che può risollevarsi solo dal fondo del suo declino e di un disincantato ritorno a sé stessa[17].

 

La constatazione non farebbe problema e la questione potrebbe considerarsi chiusa se il crollo della civiltà europea riguardasse solo gli europei, se nella situazione dell’Europa non si manifestasse qualcosa che coinvolge il rapporto dell’uomo con il pianeta […] Scomparendo “forse per sempre” dal proscenio, l’Europa trasmette i benefici e i malefici della super-civiltà ai suoi eredi “ipertrofici”[18].

 

Il vecchio continente è stato così superato e messo all’angolo da un punto di vista tecnico, economico e militare da nuovi imponenti soggetti politici, primo fra tutti gli Stati Uniti e, ai tempi di Patočka, l’Unione Sovietica, oggi diremmo la Cina, fra i suoi eredi ipertrofici, e dalla sua ineffabile via della seta.

Qui emerge il concetto di post-Europa coniato dall’Autore nel saggio “Europa und Nach-Europa”[19] del 1973. Il concetto di post-Europa è legato alla fine dell’Europa. Si tratta di un’altra Europa dopo quella Europa implosa nelle tempeste novecentesche ed estinta in quanto centro della storia del mondo. Sulla scia del suo maestro Husserl e della sua opera consacrata al rinnovamento della razionalità, La crisi delle scienze europee, Patočka intende «chiarire la situazione dell’umanità dopo la catastrofe, cioè per rischiarare i suoi primi passi nel cammino che conduce al mondo post-europeo»[20] e lo fa distinguendo tre precisi momenti: il principio europeo (il principio della riflessione razionale), l’Europa come realtà storico-politica e spirituale (le istituzioni storiche concrete) e l’eredità dell’Europa (la scienza, la tecnica, l’economia). Patočka si sforza di unire la riflessione più teorica sull’essenza spirituale dell’Europa, la rammemorazione della sua storia e della sua tradizione, l’urgenza (teorica e storica, etica e politica unitamente al rinnovo delle sue Istituzioni) di una diagnosi e di una possibile risposta alla sua crisi. Ciò che anima questa meditazione è il tentativo di rilanciare il “principio spirituale europeo” nella sua forma più pura e più carica di promessa – tentativo che non deve essere confuso con una forma di riappropriazione identitaria della civiltà europea, ma come una lotta proprio contro ogni chiusura assolutizzante per mantenere aperto ciò che l’eredità europea ha di più universale e universalizzabile. E questo significherà inevitabilmente anche pensare l’Europa nella sua esposizione e apertura all’alterità.

Sono riflessioni, come ha scritto Karel Novotnў[21],

 

secondo le quali noi vivremmo ormai dopo la fine della storia determinata, nel suo carattere essenziale, dall’Europa; in un’epoca in cui la storia non avrebbe più il suo centro in Europa […] Si può trovare paradossale la coesistenza di queste due constatazioni: non ci sarebbe storia diversa da quella dell’Europa, ma noi viviamo oramai, almeno dagli anni ‘60 del XX secolo, una nuova era caratterizzata come “post-europea”[22].

 

Quest’idea di Europa dal senso duplice è l’elemento unificante dell’analisi patočkiana: una storia concretamente universale non può prescindere dal vecchio continente benché non occupi più la centralità nell’assetto geopolitico del mondo.

Patočka, pur insistendo sulla necessità che nel mondo post-europeo si trovi una misura comune per le diverse sostanze spirituali, ritiene che siano ancora i principi di universalità sorti in Europa ad offrire delle possibili soluzioni alla crisi. Occorre riflettere sulla paradossale compresenza, all’interno della riflessione patočkiana, di una prospettiva planetaria posteuropea e di un’intonazione eurocentrica che coglie nella disconosciuta eredità europea – fondata sulla cura dell’anima – l’unico possibile rimedio per risollevarsi dalla crisi mondiale[23]. Il problema è capire se le nazioni extra-europee saranno in grado di raccoglierne l’eredità spirituale e se saranno in grado di vigilare sugli effetti della tecnica e della razionalità strumentale, dilaganti in ogni angolo del pianeta. Solo se l’Europa dismette consapevolmente la funzione di gendarme del mondo, allora si può parlare di un orizzonte post-europeo per il mondo. «L’Europa stessa ha conosciuto per molto tempo, a titolo di componente essenziale del suo proprio destino, nella sua abissalità, questo fenomeno delle umanità straniere, la messa in questione della e attraverso quell’alterità per la quale essa ha coniato e usato il termine “barbaro”»[24]. Poi ha prevalso la natura delle relazioni che l’Europa ha da sempre intrattenuto con l’alterità, sforzandosi di riconoscere nell’altro non un polo inerme della propria pulsione appropriativa ma un partner attivo dotato della propria specificità.

Si tratta di preservare per il futuro dell’umanità quel principio spirituale dell’Europa che è il principio della cura dell’anima sfaldatosi nello spazio intercorso tra le due guerre mondiali, il motivo centrale dell’opera di Patočka dai suoi primi lavori sulla filosofia antica fino agli studi genealogici sulla storia e sulla sorte dell’Europa degli anni Settanta. L’indagine sull’epimeleia tes psyches trascende il piano della speculazione teorica e si propone come la tonalità etica che fa da sfondo all’insieme della sua ricerca.

La cura dell’anima

L’Europa ha dimenticato la sua origine spirituale, la sua essenza. C’è da recuperare il suo patrimonio disperso negli abissi della storia. Come i suoi maestri Husserl e Heidegger, anche per il filosofo ceco, l’Europa non è primariamente un concetto geografico o politico, ma è una tradizione, un’eredità che poggia su solidi fondamenti spirituali. Alla storia e all’eredità dell’Europa Patočka dà il nome di cura dell’anima: Già in Platone e l’Europa, in particolare, la cura dell’anima è concepita come lo sguardo in ciò che è che ha dato origine non solo alla filosofia greca del periodo classico, ma anche all’Europa, alla nostra storia. In poco più di trent’anni, l’Europa, che per secoli è stata “maestra del mondo”, si è condannata all’autodistruzione.

Le due guerre mondiali hanno dimostrato che l’Europa non è più il centro del mondo: nuovi colossi – politici, demografici, economici – si sono affacciati sulla scena mondiale facendo valere le loro ragioni1 Tuttavia, sebbene l’Europa non sia più la dominatrice indiscussa dei destini internazionali, è la sua storia che ha determinato la forma del mondo contemporaneo ed è la sua eredità, troppo spesso svilita e dimenticata, che può rappresentare una chance nel disorientamento della crisi attuale. Patočka non propone tanto un modello teorico da seguire, quanto uno “slancio esistenziale” sostenuto da una forte tensione morale che denomina “cura dell’anima”. In effetti, se stiamo alle considerazioni che Patočka dedica a Platone e a Democrito nelle pagine di Platone e l’Europa, l’anima emerge come l’istanza capace di offrire stabilità e nitidezza alla transitorietà e alla molteplicità del mondo fenomenico, come la tensione in-quieta, della vita nella sua potenza dinamica e nel suo slancio transindividuale. Un motivo che oggi ci consente di parlare di “noi” in quanto europei pur lasciando che questo “noi” si allarghi fino a comprendere chi nella tradizione europea, in via di principio, risiede in questo motivo della cura. Un “noi”, dunque, che non è quello dell’appartenenza ad un’origine esclusiva ed escludente, ma un “noi” che si riveli accogliente nella misura in cui accetta di essere continuamente ridefinito. L’ispirazione maggiore per tale “tensione morale” non è altro che la figura di Socrate. La genialità socratica consiste, infatti, nella consapevolezza che il punto focale che rigenera la società e tiene vivo il desiderio della virtù, non è altro che la domanda di senso. L’esercizio vivo di questa domanda, che possiamo definire “morale”, non è altro che la cura dell’anima ripresa in seguito da Patočka. Il filosofo ceco si accorge del fatto che, come per l’antica Atene, anche per il mondo contemporaneo l’unica salvezza risiede nel coraggio di esporsi allo “sconvolgimento del senso”. Il concetto di cura dell’anima come eredità essenziale dell’Europa include «qualcosa come un ideale della vita autentica, l’ideale di una vita che, sia nella prassi sia nella sua attività di pensiero, si regola sempre sull’intuizione»[25].

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La cura dell’anima, quale eredità della filosofia greca, è un compito infinito ed incessante perché va tradotta nella cura dello Stato e della comunità. Patočka, pur scorgendo i segni di una profonda trasformazione destinata a cambiare nel profondo la configurazione del vecchio mondo, non rinuncia all’idea che siano i motivi spirituali della tradizione europea a rappresentare una chance contro la possibilità che il nuovo equilibrio internazionale precipiti nell’ostile contrapposizione di potenze incapaci di riconoscersi l’un l’altra e impegnate esclusivamente nella conquista vorace del mondo o nel gioco perenne della competizione.

Nel tentativo di comprendere il senso del destino storico di ciò che si deve intendere con “Europa”, Patočka rivendica a più riprese il retaggio socratico-platonico che questa stessa tradizione di pensiero incarna. Occorre andare all’origine della nostra storia per trovare quell’energia produttiva che ha cercato di opporsi all’inevitabilità della caduta. La cura dell’anima come chance storico-politica collettiva. La storia vera e propria è la storia dell’Europa e nello stesso tempo la storia della cura dell’anima. O ancora, come suggerisce Jacques Derrida in uno dei saggi più intensi Donare la morte, “la storia della responsabilità”. «Dato che si tratta di una genealogia della responsabilità in Europa o della responsabilità come Europa, della responsabilità-Europa attraverso la decifrazione di una certa storia dei misteri, della loro incorporazione o della loro rimozione»[26]. La cura dell’anima è un progetto di vita, un orizzonte di responsabilità, un’idea embrionale di Europa. La storia medesima comincia con «la genesi dell’uomo che risolve il dilemma originario delle opposte possibilità che gli si aprono davanti, grazie alla scoperta dell’autentico, unico, io, essa è in primo luogo storia dell’anima […] e per questo Socrate definisce la comunità, che è il vero e proprio luogo della storia, anche luogo per la cura dell’anima»[27]. Per questo anche Platone, riflettendo sulla genesi dello Stato, gli serve da modello la struttura dell’anima individuale. In generale si può dire che nel pensiero greco, la cura dell’anima solleva la vita da uno stato di decadenza e di oblio ad una nuova dimensione che si autoindaga, si autocontrolla e si autounifica. Rimedio alla perdita, la cura dell’anima rimotiva e rigenera le vicende umane, le istituzioni, la democrazia, la storia. Il pensiero filosofico greco, con la sua esigenza di una trasparenza cristallina dell’anima[28], si concepisce come una risposta radicale al problema del quotidiano e della decadenza naturale. L’idea di Europa si è modellata su questa eredità.

Il lato dark della storia

Tuttavia, questa avventura dello spirito umano, nel momento stesso in cui giunge ad altezze conoscitive ed espressioni culturali inarrivabili, precipita negli abissi. Di questa decadenza, secondo Patočka, sembra essere testimone inappellabile il XX secolo con le sue contraddizioni e le sue guerre, che per la prima volta vengono definite “mondiali”. Ma è veramente possibile che gli ideali di quella Europa erede “spirituale” della Grecia antica e dell’apertura originaria, in cui emerge per la prima volta il senso autentico dell’esistenza umana, diventino espressione della decadenza del mondo?

I Saggi eretici sulla filosofia della storia, pubblicati nel 1975 a Praga,

 

tentano di praticare un esercizio genealogico volto a individuare la matrice del logos europeo, a seguirne gli sviluppi e a coglierne le derive patologiche»[29]. Soprattutto «gli ultimi due intitolati, La civiltà tecnica è destinata al declino? e Le guerre del XX secolo e il XX secolo come guerra, costituiscono una delle più spettacolari letture filosofiche della condizione umana del ventesimo secolo e del suicidio dell’Europa nel suo protrarsi fino al ventunesimo secolo[30].

 

Procediamo per rapidi passaggi.

All’inizio del terzo capitolo dei Saggi eretici, ritorna il motivo della perdita:

Le cose stanno invece diversamente se assumiamo in tutta la sua portata l’esperienza della perdita di senso quale indubbiamente si presenta nel corso della nostra vita. In quest’ultimo caso, questa esperienza non dimostra soltanto la nostra inadeguatezza, la nostra incapacità di afferrare e comprendere il senso, ma significa la radicale possibilità che ogni senso si perda, che possiamo trovarci di fronte alla sua completa assenza. Le cose non hanno un senso di per se stesse, ma il loro “senso” esige che qualcuno abbia un “senso” per loro. Infatti, il senso non è originariamente negli enti, ma nell’apertura, nella comprensione delle cose, vale a dire in quel processo, in quel movimento che non si differenzia dal nucleo stesso della nostra vita[31].

Se le cose stanno così, allora siamo noi a dare un senso alle cose. Quando la vita non è più protetta, deve mettere in gioco se stessa ed è proprio in questo modo che essa diventa liberamente umana. Il ruolo di motore propulsivo in questa ricerca del senso è svolto dalla filosofia. Essa interroga la vita e la storia, ma è anche un procedere rischioso perché rende possibile un mutamento del senso aprendo la storia al rischio, e facendone un problema continuamente aperto e non preliminarmente definito. Il fenomeno della perdita di senso non va solo costatato, ma altresì interrogato, e questo mutamento ha un valore positivo perché rappresenta un approfondimento del senso. La vita esposta al rischio, e non più protetta da nulla, si distanzia da una vita semplicemente accettata, diventa «una vita alla frontiera»[32].

Nei Saggi eretici, la cura dell’anima si presenta come un’esperienza tellurica che scuote le certezze immediate e sradica la condizione naturale dell’uomo Il filosofo ceco descrive in pagine tormentate il passaggio tra il mondo naturale vissuto dal punto di vista del Giorno, ossia della vita meramente accettata, e il mondo storico problematico vissuto dal punto di vista della Notte. Guardare le cose e giudicare gli eventi della storia dal lato notturno, oscuro, demonico è come esplorare gli abissi degli Oceani, quella zona “adopelagica” costituita di chilometri di oscurità dove c’è la vita senza luce, «l’altro mondo nel nostro mondo» da cui è possibile estrarre il senso della vita.

Paul Ricoeur nella sua prefazione all’opera parla di un suo smarrimento e turbamento di fronte a queste drammatiche pagine patočkiane.

 

Eraclito quale lo considera Patočka non è il pensatore dell’esistenza selvaggia o dell’azione terroristica, ma colui che ha pensato la nascita di ogni legame a partire dalla scossa più estrema. Ѐ questo pensiero che segna la cesura tra la vita pre-istorica e la storia. Al di là di questo punto critico, occorre intendere la vita non dal punto di vista del giorno, cioè della vita accettata, bensì della notte ossia di Polemos[33].

 

Fissare lo sguardo nella notte e nell’oscurità provoca una sorta di turbamento del grande pensatore francese che fatica a comprendere come possano stare insieme logos e polemos e a dare quella piena legittimità ai diritti della Notte. C’è la piena consapevolezza che la lettura patockiana della storia novecentesca dichiari la bancarotta della migliore tradizione umanistica europea. La Prima guerra mondiale “l’evento decisivo della storia del XX secolo”[34] è la drammatica dimostrazione della fine dell’identità spirituale dell’Europa e la messa in crisi del senso della storia, il suo rovescio. «Ma che la guerra stessa contenga in sé qualche valore esplicativo, che abbia di per sé il potere di conferire un senso, è una concezione sostanzialmente estranea a tutte le filosofie della storia e pertanto anche a tutte le interpretazioni della guerra mondiale che ci sono note»[35].

La virata patočkiana nell’oscurità sovverte la logica ordinaria di ogni filosofia della storia nel punto in cui la verità è custodita nelle tenebre e nella notte, nel campo di tensione tra le forze del Giorno e le forze della Notte. Sono queste forze del giorno, della razionalità pianificatrice, ad aver inviato per quattro anni milioni di uomini a morire, hanno mobilitato e indirizzato allo scopo bellico tutte le attività produttive dell’industria e della tecnica, liberando energie distruttive, impensabili nei secoli precedenti. Si può così comprendere che il giorno e la vita dominano proprio tramite una volontà di guerra, ossia con l’aiuto della morte. Per liberarsi dalla guerra occorre pertanto liberarsi da questa forma di “pace”, di dominio del giorno e della vita che «rinnega la morte e chiude gli occhi davanti ad essa»[36]. Per inciso, se la vita non nasce solo dallo slancio verso il Bene, ma anche dal guardare in faccia la morte solo allora si diventa responsabili e liberi, liberi di scegliere il proprio destino, e questo vale anche per i grandi accadimenti collettivi. Paradossalmente, è la grande esperienza del fronte con la sua linea di fuoco ad evocare la notte in tutta la sua urgenza e inevitabilità.

La scoperta più profonda del fronte consiste in «questo sporgersi della vita nella notte, la lotta e la morte, l’impossibilità di eliminare dalla vita questa posta in gioco che, dal punto di vista del giorno appare come mera non esistenza; il mutamento del senso della vita che qui inciampa nel niente, in un confine invalicabile oltre il quale tutto cambia»[37]. Proprio nell’esperienza della guerra di trincea sorge la possibilità di vedere la Notte e l’istanza di un nuovo allenamento dell’uomo nella civiltà della tecnica. Qui si può piantare il principio eretico della cura dell’anima. Come ha scritto Jacques Derrida, siamo di fronte ad «una paradossale fenomenologia della notte ma anche della segreta alleanza tra il giorno e la notte»[38].

Il sacrificio di milioni di uomini ha mutato completamente il paesaggio dei significati fondamentali della vita, restituendole tutta la problematicità nel cuore degli illusori e seduttivi ideali del giorno e di un finto umanesimo. La tematica del sacrificio è un altro grande tema del pensiero patočkiano che si sviluppa a partire dall’esperienza dei soldati al fronte. Il sacrificio è la scossa tellurica che contiene in sé il mistero delle cose, un impegno etico che espone l’uomo ad affrontare frontalmente il pericolo. Quella del sacrificio è un’esperienza del senso duplice: non solo del soldato al fronte, vittima di un ordine sociale coercitivo nel senso che deve conformarsi a regole e a norme indiscutibili   e quella del dissidente che mette a repentaglio la sua vita per la libertà e la dignità umana.

L’uomo si sacrifica quando compie un’azione tenendo fede unicamente alla propria responsabilità personale di fronte al mondo, al di fuori di qualsiasi calcolo economico e utilitaristico. È un “andare oltre” il punto in cui l’uomo crede di avere praticato con grande impegno tutte le sue energie secondo le ragioni del Giorno. Ma l’umanità non si è resa conto che la guerra è opera del Giorno e la pace si è trasformata in una volontà di guerra e di dominio. In base agli ideali del falso Giorno e della falsa pace non si può comprendere il contenuto del Novecento e del suo precipitare nelle catastrofi belliche. L’interrogazione patočkiana è radicale ed estrema: essa verte sul senso e sulla funzione della guerra all’interno della storia occidentale. Infatti, la pace e il giorno contano sulla morte come mezzo per realizzare una servitù umana estrema, la considerano una catena davanti a cui gli uomini chiudono gli occhi, ma che è sempre lì come vis a tergo, sotto l’aspetto del terrore che precipita gli uomini perfino nel fuoco: l’uomo è incatenato alla vita dalla morte e dal terrore, dunque è estremamente manipolabile[39].

L’esperienza del fronte è un’esperienza di liberazione da questa schiavitù. Si tratta di resistere ai motivi ingannatori e seduttivi del giorno, di svelarne la loro vera natura. È proprio questo il “luogo” in cui si svolge il dramma della vera libertà che «non comincia “solo dopo”, quando la lotta è finita, ma è al suo posto proprio nella lotta: questo è il punctum saliens, la vetta ben situata da cui si può dominare con un colpo d’occhio il campo di battaglia»[40]. L’esperienza della libertà è l’esperienza più rischiosa perché espone l’uomo al pericolo del proprio fallimento, lo costringe a guardare alla propria caducità e alla propria finitudine, ad inabissarsi nel proprio destino. Come è stata l’esistenza di Patočka vissuta pericolosamente fino alla morte tragica nel marzo 1977.

La libertà non è un privilegio aristocratico, ma si rivolge a tutti e vale per tutti; senza di essa l’uomo non sarebbe uomo. Quand’anche gli individui siano inconsapevoli di tale libertà, è unicamente da essa che proviene la “dignità umana”, e non dal fatto che l’uomo è il più potente degli organismi viventi[41]. Questo è il punctum da cui si può comprendere che chi si trova esposto alla pressione della Forza è comunque libero, anzi «è certo più libero di chi se ne sta in retroguardia e spia preoccupato il momento in cui forse verrà il suo turno»[42]. Solo la lotta è l’accettazione della lotta questo stato delle cose. Perché l’esperienza del fronte diventi un fattore storico e non si ricada ancora nella banalità del giorno a guerra finita, occorre realizzare la solidarietà tra gli scossi «tra coloro che sono in grado di comprendere che cos’è in gioco nella vita e nella morte, quindi nella storia»[43]. Si tratta di una solidarietà tellurica che mette insieme coloro che sono in grado di discernere tra la nuda vita incatenata dal terrore e la vita in cima alla vetta. Coloro che possono comprendere hanno una grande responsabilità perché nelle loro mani sono riposte le forze in grado di far vivere l’uomo.

La solidarietà tra gli scampati è in grado di dire «no» a quelle misure di mobilitazione che mirano a eternizzare lo stato di guerra. Essa non formulerà dei programmi positivi, ma si esprimerà, come il demone di Socrate, in ammonimenti e proibizioni[44].

Questa solidarietà è accostata, dunque, al demone socratico perché si esprime in ammonimenti e proibizioni, ossia non in positivo, proprio come il demone socratico. E a differenza di esso, il filosofo ceco, novello Socrate, punta “obliquamente la via dell’abisso”, la via del magma profondo dell’esistenza capace di misurarsi con il “segreto del mondo” [Weltgeheimnis], «che interamente cinge e penetra ogni mondo storico sino ad ora presentatosi e che arriva persino a fissare il nostro moderno mondo scientifico-tecnologico, sempre più soggetto alla tecnica»[45].

Nel segreto del mondo sta l’essenza del mondo della vita, la sua componente più inafferrabile, il suo rovescio più indescrivibile.

Questa è la cifra più profonda del pensiero patočkiano, la sua sfida alla tradizione razionalistica del pensiero europeo e al paradigma della potenza e della dominazione che ha contrassegnato l’Occidente. Se Patočka intravede una via d’uscita alla logica decadente della superciviltà, essa non andrà cercata sul versante positivo della potenza, ma su quello negativo della mancanza e della salvezza nel sacrificio e nella sofferenza umana. Mettersi su questa strada significa abbandonare le velleità di dominio e riconoscere il potenziale trasformativo di queste esperienze che, nutrendosi della dissidenza, dello scarto e della resistenza, possono rigenerare il senso del vivere e dell’agire umano.

Nella storia non è questione di ciò che si può rovesciare o sconvolgere, ma dell’apertura verso ciò che sconvolge[46]. Questo significa comprendere la vita dal punto di vista della lotta e della notte, penetrarla consapevolmente fino al suo centro che è poi è lo sguardo profondo all’essenza di responsabilità che ritma la storia e la vita tra elevazioni e cadute.

Note

[1] J. Patočka, Saggi eretici sulla filosofia della storia, introd. di M. Carbone, tr.it. di D. Stimilli, Torino, 2008, p.11.

[2] J. Patočka, La cura dell’anima, tr.it. di S.A. Matrangolo e di B. Penna, Orthotes, Napoli-Salerno, 2019, p.76.

[3] Ivi, p.74.

[4] J. Patočka, Platone e l’Europa, a cura di G. Reale, tr.it. di M. Cajthaml e G. Girgenti, Vita e Pensiero, Milano 1997, p.65.

[5] La questione relativa alla responsabilità è centrale in Jacques Derrida nel suo Donner la Mort, Galilée, Paris 1999; tr.it. di L. Berta, Donare la morte, S. Petrosino- G. Dalmasso (a cura), Jaca Book, Milano 2002, pp. 41-75. Derrida vede in questa accezione della responsabilità il senso dell’eresia patočkiana: «L’eterogeneità che intravediamo qui tra l’esercizio della responsabilità e la sua tematizzazione teorica, ovvero dottrinale, non è anche ciò che vota la responsabilità all’eresia? All’airesis come scelta, elezione, preferenza, inclinazione, partito preso, cioè decisione?» (p. 63).

[6] J. Patocka, Saggi eretici, cit., p.113.

[7] P. Perticari, Il lato dark del fronte nei Saggi eretici di J.Patočka in Pensare (con) Patočka oggi. Filosofia fenomenologica e filosofia della storia, a cura di M.Carbone e C.Croce, Orthotes, Napoli 2012, p. 210.

[8] J. Patočka, Platone e l’Europa, cit., p.208.

[9] J. Patočka, Saggi eretici, cit., p.44.

[10] J. Patočka, La superciviltà e il suo conflitto interno. Scritti filosofico-politici, a cura di F. Tava, Edizioni Unicopli, Milano, 2012, pp.161-162.

[11] Ivi, p.154.

[12] Ivi, p.155.

[13] Ivi, p.51.

[14] Ivi p.53.

[15] Ivi p.74.

[16] Ivi, p.85.

[17] G D. Neri, L’Europa dal fondo del suo declino, in «Aut Aut», n.283-284, gennaio-aprile 1998.

[18] Ivi p.136.

[19] J. Patočka, Europa e Post-Europa, a cura di V. Mori, tr.it. di F. Fraisopi, Gangemi editore, Roma, 2019.

[20] Ivi, p.63.

[21] Aa.Vv., K. Novotný, L’Europa e la post-Europa nella riflessione di Jan Patočka, in Pensare (con) Patočka, cit., pp.97-98.

[22] Ibid.

[23] «La post- Europa è la sintesi irriducibile di un doppio movimento: il decentramento dell’Europa, conseguente alla fine del suo dominio, e la generalizzazione della sua eredità su scala globale». (R. Terzi, Il mondo plurale:Patočka e la post-Europa, in eussein, Rivista di studi umanistici, Anno IV- 1, 2012. cit., p.123).

[24] J. Patočka, Europa e Post-Europa, cit., p.79.

[25] J. Patočka, Platone e L’Europa, cit., p.137.

[26] J. Derrida, Donare la morte, cit., p.85.

[27] J. Patočka, Saggi eretici, cit., p.113.

[28] Ivi, p.91.

[29] C. Croce, Storia e responsabilità nell’Europa dopo l’Europa, in Pensare (con) Patočka oggi, cit., p. 90.

[30] P. PerticarI, Il lato dark del fronte nei Saggi eretici di Jan Patočka, in Pensare (con) Patočka oggi, cit., pp.201-202.

[31] J. Patočka, Saggi eretici, cit., p.63.

[32] Ivi, p.45.

[33] P. Ricoeur, “Prefazione” a J. Patočka, Saggi eretici, cit., p. XXXIII.

[34] Ivi, p.138.

[35] Ivi, p.133.

[36] Ivi, p.144.

[37] Ivi, pp.146-147.

[38] J. Derrida, Donare la morte, cit., p.55.

[39] J. Patočka, Saggi, cit., pp.149-150.

[40] Ivi, p.150.

[41] J. Patočka, Platonismo negativo e altri frammenti, a cura di F. Tava, Bompiani, Milano 2015, p.165.

[42] J. Patočka, Saggi, cit., p.150.

[43] Ivi, p.151.

[44] Ivi.

[45] J. Patočka, La superciviltà, cit., p.141.

[46] J. Patočka, Saggi eretici, cit., p.50.

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Autore: Aldo Meccariello, dottore di ricerca in Scienze Filosofiche, docente di filosofia, condirettore della rivista “Azioni Parallele”, presidente del Centro per la Filosofia Italiana. Ha pubblicato saggi e articoli su Ricoeur, Arendt, Anders, Hersch, Weil, Benjamin, Canetti, Patočka. Tra i suoi libri: Bocca (2019); Vie traverse (2019, eds., con A. Infranca); Mounier (eds., con G. D’Acunto (2019); Angoscia (con G. D’Acunto, 2021); Paura (2021); Distanza (2021).


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