Il deficit simbolico delle istituzioni europee

 

L’Europa è piuttosto

una missione, qualcosa da fare, creare, costruire. Per compiere quella missione occorrono un sacco di inventiva, determinazione e duro lavoro. Forse un lavoro che non finisce mai, una sfida cui rispondere in toto, una prospettiva per sempre straordinaria […] È una negoziazione continua che prosegue a dispetto della alterità e della differenza che divide coloro che sono impegnati nella negoziazione stessa […] È un processo continuo di rifacimento di se stessa, sempre imperfetto eppure ostinatamente in lotta per raggiungere la perfezione.

Introduzione

Nonostante tutto quello che è stato fatto, o per meglio dire, nonostante tanto sia stato realmente fatto, in questi anni di cammino comune, persiste, in buona parte degli abitanti dei Paesi dell’Unione Europea, un radicato sentimento euroscettico.

Certo, non sono molti quelli che si riconoscono in un euroscetticismo cosiddetto forte, ovvero nell’opposizione per principio all’appartenenza all’Unione europea. Ma probabilmente più di un terzo dei cittadini dell’Unione prova una moderata disaffezione nel progetto, contestando gli attuali esiti istituzionali e lamentandone una sostanziale lontananza.

Puntualmente rintracciato dai sondaggi effettuati da Eurobarometro, questo diffuso malumore, sebbene oscillante negli anni, appare persistente e difficile da mitigare[1].

Sebbene il deficit democratico fornisca argomenti di un certo peso a sostegno della disaffezione popolare[2], molti analisti concordano nel rintracciare in una insufficienza simbolica la radice di scarsa adesione emotiva all’Unione. Per usare un eufemismo, l’Unione non scalda gli animi dei suoi concittadini. A poco meno di settant’anni dagli accordi di Roma che diedero vita il 25 marzo del 1957 al suo nucleo iniziale, la Comunità economica europea, essa appare ancora, nella migliore delle ipotesi, una istituzione distante e complessa.

Ad onor del vero, all’Unione Europea si riconosce la capacità di fornire rassicurazioni e di offrire opportunità, persino in questi tempi di guerre e di crisi. Essa, tuttavia, rimane comunque una entità astratta, calata dall’alto, quasi aliena, nel complesso quanto vasto orizzonte semantico che la parola esprime. Estranea come solo gli apparati burocratici più pervasivi finiscono con l’essere.

Anzi, più l’Unione Europea, con le sue direttive e i suoi regolamenti, cerca di avvicinarsi alla vita concrete delle persone, magari solo con la nobile intenzione di uniformare le trame normative del vivere quotidiano, più questa appare invadente, indesiderata, persino oppressiva.

Pur senza arrivare alle disastrose considerazioni dell’intellettuale dissidente russo, Vladimir Bukovskij che considera l’UE un’unione di repubbliche socialiste dominata da una élite tecnocratica[3], il problema esiste ed ha ormai assunto le ingombranti fattezze del famigerato elephant in the room[4].

Un deficit di rappresentatività

Il problema di fondo, in accordo con il giurista tedesco Dieter Grimm, sembra declinarsi nella considerazione che le istituzioni della UE e, in particolare, il Parlamento europeo non siano sufficientemente rappresentative della comunità di cittadini di cui dovrebbero essere il riferimento.

Questo, in parte, è dovuto alle tendenze socioculturali ormai affermatesi nel Ventunesimo secolo, come il diffuso pluralismo dei valori e un convinto individualismo espressivo, che portano a diffidare dei processi decisionali di natura assembleare e a privilegiare le mobilitazioni singol issue, focalizzate su un singolo oggetto rivendicativo. Tendenze che rendono più incerto ed esclusivamente strumentale il rapporto con l’agone politico istituzionale, alimentando astensionismo, indifferenza, quando non insofferenza, verso una persistenza dell’agire politico tradizionale che si percepisce estraneo, anacronistico, respingente ed inefficace.

 

Il mutamento socioculturali altera profondamente il rapporto tra individuo e sfera collettiva, il ruolo e le modalità di funzionamento delle istituzioni politiche, e quindi le forme e le finalità della partecipazione. Le direzioni di questa trasformazione sono molteplici e ambivalenti. La riduzione di salienza delle pratiche “convenzionali” di partecipazione – e degli attori che ne erano protagonisti – è accompagnata da una crescente disaffezione dei cittadini e dallo sviluppo di atteggiamenti e valori antipolitici, se non apertamente antidemocratici. La letteratura sulle trasformazioni della democrazia, da decenni si è interrogata su cause ed effetti della crescente apatia politica associandola, oltre alle trasformazioni di identità e valori e alla crisi degli attori collettivi, allo “svuotamento” di sovranità degli Stati-nazione e al deficit democratico caratterizzante il modello tecnocratico di governance adottato in primis dalla UE. Negli ultimi anni, complice la crisi economica, gli atteggiamenti di apatia – e di critica silente alle istituzioni nazionali ed europee – si sono trasformati in esplicito dissenso[5].

 

Proprio all’interno della UE la situazione si mostra in tutta la sua complessità, evidenziando come la rappresentatività del Parlamento europeo non possa competere con quella dei parlamenti nazionali.

Sebbene l’affluenza al voto, dopo i minimi registrati nel 2014, quando si era recato alle urne solo il 42.61% degli aventi diritto, sembra essersi risollevata, nel 2024 hanno votato il 50,74% dei cittadini, la sensazione non solo di estraneità, ma anche di strumentalità e subalternità, rispetto alla sfera pubblica nazionale appare palese. Del resto, già nel 1980 uno studio di Karlheinz Reif e Hermann Schmitt aveva dimostrato come l’intera campagna elettorale per le europee fosse stata investita da argomenti riguardanti solo questioni nazionali, mentre le elezioni europee finivano per essere utilizzate dagli elettori per punire i loro governi a medio termine, rendendo le elezioni del Parlamento europeo di fatto elezioni nazionali di secondo grado[6].

I partiti nazionali stessi hanno accettato e favorito questa declinazione della rappresentatività, accentuata dall’evidenza che gli stessi non siedono sugli scranni del Parlamento europeo, nel quale invece operano i cosiddetti partiti europei, ovvero alleanze di partiti nazionali, certo ideologicamente affini ma sostanzialmente prive di radicamento nella società.

 

I partiti europei non possono ottemperare al loro ruolo di mediatori tra i cittadini dell’Unione e gli organi europei giacché non stanno a contatto con gli elettori, né devono rendere loro conto. I partiti nazionali, invece, non sono in grado di assicurare in modo credibile che il programma da loro promosso sarà adottato, dopo le elezioni, dai gruppi del Parlamento europeo. In Europa appare difatti interrotto il nesso, imprescindibile per la democrazia, tra elezioni e lavoro del Parlamento, tra delega e responsabilità. I partiti nazionali per i quali si può votare non sono determinanti nell’operato del Parlamento, mentre i partiti europei che determinano l’operato del Parlamento non sono eleggibili. Anche la designazione di candidati di punta, pertanto, intesa come soluzione per conferire maggiore democraticità alle istituzioni, promette più di quanto non possa mantenere[7].

 

Si sostanzia così la tesi di una democrazia europea priva di demos, di una procedura che auto alimenta la propria struttura con l’ambizione presuntuosa e pretestuosa di normare e condizionare a posteriori le condizioni di accesso e di riconoscimento della nozione di popolo[8].

Leggere Luca Mencacci in acro-polis.it ⇓

Dalla guerra delle fazioni al confronto tra i partiti. Presupposti della stasiologia di Maurice Duverger

Un deficit di identità

La idea stessa di Europa, del resto, rifugge da una appropriazione che ne limiti la direzione spirituale ne riduca la portata simbolica[9].

Più prosaicamente, Margaret Thatcher, aveva già ricordato nel famigerato discorso di Bruges del 1988 come l’Europa non fosse nata con il Trattato di Roma, né potesse essere definita come prodotto delle stesse istituzioni comunitarie.

 

Lei, però, si opponeva all’unione politica: temeva che avrebbe annullato le specificità nazionali in un superstato invasivo. Come ricordò il primo ministro in quell’occasione, il Regno Unito aveva prosperato da solo, ma grazie al suo cosmopolitismo; aveva sempre contribuito all’identità europea, ricevendo comunque benefici dall’interazione con gli altri Stati nazionali; e, soprattutto, combatteva una battaglia culturale in favore del capitalismo[10].

 

La sua ricostruzione, che ricordava e giustamente esaltava il protagonismo della Gran Bretagna, nel corso della storia europea, piuttosto che spingere verso l’unità, da raggiungere anche con “piccoli passi”, finiva con il radicare quell’euroscetticismo di cui si sarebbe nutrita la campagna elettorale per la cosiddetta Brexit.

Che l’idea di Europa non appartenga alla Unione è persino pleonastico. Che l’argomento, tuttavia, venga usato per rinunciare ad un cammino comune è sprezzante quanto autolesionistico.

L’Europa non è semplicemente un territorio che si scopre una volta per tutte e del quale ci si appropria in via esclusiva per goderne i frutti, scrive il sociologo polacco Zygmut Bauman facendo eco alle parole di Denis de Rougemont de L’aventure mondiale des Européens. L’Europa è piuttosto

 

una missione, qualcosa da fare, creare, costruire. Per compiere quella missione occorrono un sacco di inventiva, determinazione e duro lavoro. Forse un lavoro che non finisce mai, una sfida cui rispondere in toto, una prospettiva per sempre straordinaria […] È una negoziazione continua che prosegue a dispetto della alterità e della differenza che divide coloro che sono impegnati nella negoziazione stessa […] È un processo continuo di rifacimento di se stessa, sempre imperfetto eppure ostinatamente in lotta per raggiungere la perfezione[11].

 

Nel linguaggio dello scrittore svizzero di lingua francese, l’Europa dunque appare oggi, come allora, una avventura, «un’operazione o un esperimento pieni di incognite, un’impresa nuova o eccitante, mai tentata prima»[12]. Ma una avventura che sembra non richiamare più l’interesse degli stessi avventurieri, di coloro che accettano di mettere a repentaglio la propria fortuna «per inseguire un esperimento pieno di incognite, una impresa nuova ed eccitante, mai tentata prima»[13]. Soprattutto di quelli appartenenti alla più giovane generazione, che fina dai banchi di scuola sperimentano come l’impresa europea sia un argomento sostanzialmente rimosso[14].

 

Ricordiamo in proposito il monito a suo tempo lanciato da Carlo Azeglio Ciampi: «Fatta l’Europa bisogna fare gli Europei». Prima di lui, Jean Monnet, uno dei padri fondatori dell’Unione europea aveva detto che se si potesse ricominciare a costruire l’Europa, bisognerebbe iniziare dalla cultura («Si c’était à refaire, il faudrait commencer par la culture») e promuovere una scuola ed una università in cui si spossa sentire, pensare, vivere l’Europa La scuola può fare molto per l’Europa attraverso la proposta di una pedagogia europea, tesa a costruire e ad accrescere tramite la cultura il senso di appartenenza ad una Europa cosmopolita, intesa non tanto e non solo come potenza economica e politica, quanto come «spazio di libertà, sicurezza e giustizia» (preambolo della carta di Nizza del 2000), capace di andare alla radice della pace e dell’ordine internazionale. [15].

 

Nel tempo, sembrano aver perso molto del loro fascino agli occhi delle nuove generazioni la istanza di una pace perpetua che emergeva dal Manifesto di Ventotene di Altiero Spinelli o l’affermazione di un modello europeo di società come terza via rispetto agli eccessi del liberalismo capitalistico e al collettivismo comunista, delineata a partire dagli scritti Denis de Rougemont.

Né i numerosi dibattiti che si susseguono sulle radici dell’Europa hanno finito per produrre un nuovo consenso sull’identità europea.

Nel 2019, lo scrittore e filosofo francese, Bernard-Henri Lévy, ha girato i teatri delle capitali dei Paesi aderenti alla Unione, mettendo in scena Looking for Europe, il monologo interiore di un intellettuale chiamato a pronunciare un discorso in favore della comune identità dei popoli europei. Relegato idealmente in una camera d’albergo, non a caso, a Sarajevo, la città dove «poco più di un secolo fa, nel 1914, l’Europa ha commesso il suo primo tentativo di suicidio», il protagonista della pièce teatrale stenta a trovare le parole per il suo intervento. Nella sua mente si impongono le immagini desolanti di un vecchio continente, stanco e disilluso, incapace di reagire alle pressioni disgregatrici di beceri populismi. A soccorrerlo con parole di speranza, giungono provvidenziali i fantasmi di Dante, Goethe e Václav Havel.

In modo molto simile, si era espresso nel 2017 Gianfranco Pasquino, in conclusione di L’Europa in trenta lezioni, una approfondita ricostruzione dei delicati equilibri di potere sui quali l’architettura istituzionale dell’Unione si regge. Riconoscendo nel deficit culturale l’instabilità normativa della intera costruzione, l’illustre politologo cercava nella esplorazione dei vizi e delle virtù del potere di William Shakespeare, nella riflessione pedagogica degli illuministi Voltaire, Diderot, Rousseau, ed in quella etica di Kant, nella valorizzazione dell’attività politica di Max Weber, quella ispirazione ideale che cementasse le conquiste politiche raggiunte. Soprattutto quell’amalgama culturale capace di fornire le fondamenta stabili di un’autentica quanto orgogliosa crescita futura, capace di andare oltre la sterile alternativa tra sopravvivenza o declino, che paventava Jacques Delors[16].

Ci rendiamo conto di quanto sia importante competere con successo con le altre nazioni?

Non ce ne vogliano gli illustri intellettuali se i loro riferimenti culturali e valoriali finiscano per essere un po’ troppo aulici per la stragrande maggioranza dei quasi 450 milioni di abitanti dell’Unione europea.

Indipendentemente dalla bontà degli autori citati, e di quelli che si potrebbero citare, il declino degli studi umanistici, letterari e filosofici, appare evidente e ben difficilmente possiamo pensare che, almeno nel breve periodo, le loro testimonianze possano tornare ad ispirare un sentimento di comune identità europea come potrebbero e dovrebbero. Se anche fossero studiati, «l’Europa è una grande assente dei curricula di educazione alla cittadinanza. Questi, stretti nella morsa delle preoccupazioni comportamentali e delle conoscenze relative alla società nella quale l’alunno vive, non si preoccupano affatto dell’Europa»[17].

Forse ci vorrebbe qualcosa di più immediato, più vicino alle passioni delle persone. , Qualcosa per il quale siamo ancora abituati a fare il tifo!

Curiosamente, a suggerire una possibile risposta, potrebbe non essere un personaggio pubblico europeo, ma un politico americano, quel Robert Francis Kennedy, che amava ripetere, parafrasando George Bernard Shaw, «ci sono coloro che guardano le cose come sono, e si chiedono perché… Io sogno cose che non ci sono mai state, e mi chiedo perché no?»

Fratello del più celebre John Fitzgerald, di cui condividerà il tragico destino, l’allora Procuratore generale degli Stati Uniti d’America, si trovò a commentare l’approssimarsi dei Giochi della XVIII Olimpiade che si sarebbero svolti a Tokyo nel 1964.

Memore della pesantissima sconfitta subita a Roma quattro anni prima, quando l’Unione sovietica aveva umiliato gli americani, non solo aggiudicandosi il primo posto nella classifica finale, ma infliggendo ai rivali un distacco abissale in termini di medaglie, Robert F. Kennedy rilasciò una significativa intervista sulle pagine della prestigiosa rivista sportiva, Sports Illustrated.

Partendo dal presupposto che l’opzione nucleare imponeva una situazione di stallo nei conflitti istituzionali, per il politico americano lo sport aveva finito con il diventare l’occasione per una muscolare, sembra proprio il caso di dirlo, esibizione di forza.

Bisognava riconoscere che

parte del prestigio di una nazione durante la Guerra Fredda si conquista con i Giochi Olimpici … In questi giorni di stallo internazionale, le nazioni usano il quadro di valutazione dello sport come un metro visibile per dimostrare la loro superiorità sullo stile di vita democratico molle e decadente. È quindi nel nostro interesse nazionale riconquistare la nostra superiorità olimpica, dare ancora una volta al mondo una prova visibile della nostra forza interiore e vitalità[18].

Fin dalla sua prima apparizione ad Helsinki nel 1952, la squadra sovietica era del resto diventato un efficace strumento di propaganda della superiorità del modello sociale sovietico nei confronti di quello decadente occidentale. Grazie alla copertura mediatica, l’Olimpiade forniva un «un palcoscenico privilegiato in cui le azioni potevano essere strombazzate e manipolate per un significato psicologico»[19]. L’influente editorialista sportivo Arthur Daley aveva acutamente sostenuto sul New York Times che i sovietici si stavano dirigendo in Finlandia solo per promuovere la propaganda comunista. In un’epoca in cui il dilettantismo nello sport ancora affascinava per la sua testimonianza ideale, Daley ammoniva sul cambiamento in atto. «Questa non è solo un’altra nazione amante dello sport che si unisce ai suoi compagni sportivi. Questa è l’Unione Sovietica dove il Cremlino controlla i muscoli proprio come controlla i pensieri»[20].

Convinto della voglia di rivincita degli atleti statunitensi a Tokyo 1964, il presidente Lyndon B. Johnson autorizzò ad impiegare un satellite della Nasa per trasmettere la competizione olimpica live in tutto il mondo[21]. Allora, gli Stati Uniti prevalsero per il conseguimento di un maggior numero di medaglie d’oro, ma l’URSS, comunque, primeggiò nel medagliere complessivo. Si sarebbe dovuto aspettare i Giochi di Città del Messico del 1968, per assistere ad un completo trionfo statunitense. A Monaco di Baviera, nell’edizione del 1972, tragicamente funestata dall’omicidio di undici atleti israeliani da parte di un commando terrorista, invece, furono di nuovo gli atleti sovietici a prevalere in entrambe le classifiche. Il ritorno in auge della squadra sovietica era stato ampiamente paventato tanto che il vicepresidente Gerald Ford si era speso invano dalle pagine della stessa rivista in un accorato appello. «Ci rendiamo conto di quanto sia importante competere con successo con le altre nazioni?»[22].

Che le citazioni non siano solo un anacronismo da guerra fredda, lo testimonia il fatto che, in Cina, i media di Stato, all’indomani della bruciante sconfitta proprio sul filo di lana ai Giochi di Tokyo 2020 (celebrati per la pandemia l’anno successivo), abbiano diffuso una singolare narrazione, completamente diversa da quella ufficiale del Comitato Olimpico Internazionale. Essi, infatti, dopo aver rivendicato le medaglie vinte da Hong Kong, Taiwan e Macao, territori che competono in forma autonoma, hanno dichiarato ad un pubblico di quasi un miliardo e mezzo di telespettatori come non siano gli Stati Uniti d’America ma la Cina il Paese vincitore delle Olimpiadi. Narrazione che si è puntualmente ripetuta dopo Parigi 2024.

La competizione olimpica come catalizzatore del processo di nation building

Con quanto detto non vogliamo certo auspicare che anche lo sport e lo sport olimpico, in particolare, siano annoverati tra gli altri mezzi alternativi alla guerra con il quale si ricerca l’egemonia politica, né tantomeno sottomettere i suoi ideali alla latente volontà di potenza di una organizzazione sovranazionale alla ricerca della sua identità. Allo stesso tempo, però, sottovalutare le ricadute geopolitiche dei successi sportivi, nonché la loro capacità di ispirare un forte sentimento di coesione sociale e di alimentare un importante processo di nation building appare come lo spreco di una clamorosa occasione.

Che ci piaccia o meno lo sport si è evoluto ben oltre i campi da gioco. Non riguarda solo una questione economica che arricchisce i diretti interessati, il mondo delle professionalità che orbita intorno a loro e i media che ne trasmettono le imprese. Né tanto meno si riduce alla testimonianza di uno stile di vita salutare. Lo sport, oggi, investe in modo sostanziale la rappresentazione geopolitica di un Paese. Ha il potere di ispirare i propri concittadini e di suscitare il rispetto di quelli degli altri Paesi. Le maglie di ciascuna nazionale sono tessute con quell’unico filo capace di unire le persone aiutandone a sviluppare un sentimento di identità e unità che può contrastare la faziosità regionali e gli anacronismi indipendentisti.

Senza tralasciare la lezione seminale di Murray Edelman che già nel 1964 aveva pubblicato The Symbolic Uses of Politics, dimostrando la rilevanza di forme simboliche di comunicazione politica nella formazione dell’opinione pubblica, appare ormai evidente come nella manifestazione sportiva si può rinvenire una espressione identitaria e costruire un processo di identificazione che si avvicina al concetto di “comunità immaginata” proposto da Benedict Anderson[23]. Lo storico britannico Eric Hobsbawm, del resto, ne Nation and Nationalism since 1780: Program, Myth, Reality, sentenziava con una certa arguzia che «le comunità immaginate di milioni sembrano più reali in una squadra di undici persone. L’individuo, anche quello che fa solamente il tifo, diventa un simbolo della nazione stessa»[24].

Giova ricordare che qualche tentativo di costruire un comune sentire europeo era stato fatto sin dai primi giorni all’indomani del secondo conflitto mondiale e persino agli inizi del cammino istituzionale della CEE e delle sue consorelle.

 

Già nel 1945 giornali quali Libre Soir, Sport e La Gazzetta dello Sport, segnalarono come alcuni organizzatori legati alla Federazione ciclistica francese avessero proposto per il 1946 di svolgere un Giro ciclistico d’Europa con partenza e arrivo a Parigi e “la Svizzera (Ginevra), l’Italia (Milano), la zona di occupazione francese (Austria oppure Germania del sud), Lussemburgo, Belgio e Olanda” come sede di tappa (La Gazzetta dello Sport, 1945). […]  Quest’idea inizialmente visionaria vide concretamente la luce nel 1954. La prima edizione del Giro ciclistico d’Europa, che fu vinta dall’italiano Primo Volpi, si corse in 13 tappe da Parigi a Strasburgo passando per Gand, Namur, Lussemburgo, Remich, Saarbrücken, Scheveningen, Ausburg, Innsbrück, Mantova, Bologna, Como, Lugano e Montreux. La carovana passò per molti luoghi simbolici dell’Europa politica. Tuttavia, la manifestazione ciclistica in sé ebbe un successo relativo; ci fu ancora una seconda edizione nel 1956, ma poi sparì definitivamente dal calendario internazionale. Inoltre, sulla scia di corse motoristiche come la Liegi-Roma-Liegi e della Liegi-Milano-Liegi, che fin dal primo dopoguerra avevano attraversato il cuore nevralgico della futura Europa politica, nel settembre del 1954 si disputò una gara sportiva che conteneva un riferimento esplicito alla CECA: il Rally Internazionale del Carbone e dell’Acciaio. Questa corsa automobilistica, attraversando proprio i Paesi della neonata comunità, aveva un obiettivo che potremmo definire “federalista”, ovvero quello di rafforzare i legami non solo economici fra i Paesi che vi avevano aderito[25].

 

A ben vedere, qualche timido tentativo di affacciarsi ai Giochi anche l’Unione Europea lo aveva fatto. L’allora presidente della Commissione, Romano Prodi, all’indomani di Atene 2004, aveva auspicato «di vedere nel 2008 le squadre degli Stati membri dell’UE partecipare a Pechino portando la bandiera dell’Unione Europea accanto alla propria bandiera nazionale come simbolo della nostra unità». Ma l’augurio era rimasto lettera morta per via della contrapposizione di forze politiche fortemente euroscettiche.

A Tokyo 2020, Margaritis Schinas, vicepresidente della Commissione europea per la promozione dello stile di vita europeo, aveva invece chiesto agli organizzatori che alla delegazione slovena, in occasione del semestre di presidenza Ue, fosse permesso di sfilare con due bandiere, la propria e quella della UE, quale «simbolo di convivenza pacifica, tolleranza e solidarietà». Anche questa volta la richiesta si era risolta in un nulla di fatto. Il CIO, appellandosi al regolamento, aveva rifiutato in maniera molto elegante. Ogni nazione, infatti, può ostentare una sola bandiera e un solo simbolo.

Conclusione

La strada appare comunque lunga e non da tutti condivisa. L’esempio dei golfisti della Ryder Cup non è certo rassicurante. Alla storica competizione di golf, una squadra di atleti europei, che nel 1979 ha preso il posto di una esclusivamente britannica, si misura ogni due anni contro una selezione americana. Dal 1991 per il team del vecchio continente viene utilizzata la bandiera dell’Europa, ma a distanza di oltre trent’anni il simbolo e l’accostamento non è stato ancora del tutto metabolizzato né dai giocatori né dai tifosi. Anche se, per i primi, i maligni sussurrano che sarebbe solo una questione di sponsor, l’onestà intellettuale impone di ammettere che di bandiere blu ed oro se ne vedono poche sventolate durante l’evento. Proprio il confronto con gli americani e il loro attaccamento alle stars and stripes rende il fatto più imbarazzante. Tuttavia, un dato non dovrebbe sfuggire. Dal 1927 al 1979, la squadra inglese aveva conseguito solo 3 successi. Da quando l’intero vecchio continente è sceso in campo, la squadra europea ha invece battuto quella americana dodici volte contro nove. E il confronto è diventato di gran lunga più equilibrato e attraente.

Come dimostrarono proprio gli studiosi inglesi Richard Holt and Tony Mason, la rivalità sportiva verso i rivali d’oltreoceano contribuisce a rafforzare la solidarietà comunitaria, al punto che in Gran Bretagna, in occasione di questa sfida biennale, l’antiamericanismo finisce per prevalere sull’euro-scetticismo e i successi dei golfisti continentali nel trofeo hanno avuto un ruolo nel consolidare l’ancora debole senso di identità europea dei britannici[26].

Ricordando che la stessa idea di Europa ha radici ben più profonde ed ampie rispetto alle sue istituzioni politico-economiche, sembra esistere una convergenza di interessi dell’una come delle seconde a investire in una formazione sportiva comune.

Se andassimo a vedere i risultati di un’ipotetica squadra olimpica unica per i 27 Paesi dell’Unione, il medagliere offrirebbe uno spettacolo a dir poco entusiasmante e il confronto per coloro che si sono sempre mostrati grandi sarebbe imbarazzante. Un divario così ampio che rende superfluo in questa sede esibire i numeri.

Unita nella diversità è dal 2000 il motto della Unione Europea e forse poche immagini come quella della “trionfante” potrebbero restituire il senso e il valore di quelle parole, che, come aveva profetizzato alla fine degli anni ‘50 il liberale Gaetano Martino, testimoniano non la soppressione delle singole nazioni, ma la loro esaltazione nella comune unità.

 

Note

[1] Sulla definizione di euroscetticismo basti qui rimandare al lavoro seminale di P. Taggart, A Touchstone of Dissent: Euroscepticism in Contemporary Western European Party Systems, in «European Journal of Political Research» vol. 33, pp. 363 – 388; in particolare sulla differenza tra scetticismo hard (quando il sentimento di opposizioni riguarda l’appartenenza stessa all’Unione Europea) e soft (quando l’opposizione non mette in discussione il processo di integrazione, ma le modalità della sua realizzazione o l’adozione di determinate politiche), P. Taggart, A Szczerbiak, The Party Politics of Euroscepticism in EU member and Candidate States, SEI working Paper n. 51, 2002 / EPERN Working Paper No. 6, April 2002, Sussex European Institute, Brighton, 2002. Per una ricostruzione storica del sentimento di euroscetticismo, M. Gilbert, D. Pasquinucci, Euroscepticism. The Historical Roots of a Political Challenge, Brill Publishers, Leiden, 2020. Sulla attuale persistenza dell’euroscetticismo si legga B. Romano, Elezioni europee, cresce l’interesse per il voto ma gli italiani sono sempre più euroscettici, in Il Sole 24ore, 17 aprile 2024. «A meno di due mesi dalle prossime elezioni europee, un sondaggio Eurobarometro pubblicato oggi, mercoledì 17 aprile, mostra il crescente interesse dell’elettorato per un voto che quest’anno giunge in un frangente politico delicatissimo. […] Il 60% delle persone interpellate si dicono interessate al voto di giugno, con un aumento di 11 punti rispetto alle consultazioni del 2019. Anche tra gli italiani vi è crescente attenzione per le prossime consultazioni: il 59% degli interpellati in Italia esprime interesse, con un aumento di otto punti rispetto a cinque anni fa. […] Il sondaggio rivela che il 71% degli europei e il 70% degli italiani prevede di votare tra il 6 e il 9 giugno. Il tasso di partecipazione nel 2019 superò (di pochissimo) il 50%. […]. Ciò detto in Italia e in Europa lo stesso sondaggio fa notare che le elezioni nazionali continuano a essere ritenute più importanti di quelle europee. Il 54% degli italiani è di questo avviso, rispetto a una media a livello comunitario del 69%. […] Negativa è la visione italiana dell’Europa, a conferma di uno strisciante euroscetticismo ormai radicato da qualche anno. Alla richiesta di un commento sulla partecipazione dell’Italia all’Unione europea, appena il 45% degli interpellati italiani ritiene che sia “una buona cosa” (la media europea è del 60%). Alla domanda se nel corso dei decenni l’Italia abbia beneficiato della partecipazione alla UE solo il 59% degli italiani risponde di sì, rispetto al 71% della media europea». (in https://www.ilsole24ore.com/)

[2] Sulla definizione di deficit democratico nell’UE che si sviluppa tra due polarità, una strutturale e istituzionale e l’altra sociopsicologica, e sulle sue conseguenze politiche, la letteratura è davvero vasta. Basti qui citare l’esauriente sintesi di K.D. Azman, The Problem of “Democratic Deficit” in the European Union, in «International Journal of Humanities and Social Science», vol. 1, n.5, 2011, pp. 242-250; sulle aspettative politiche dopo il trattato di Lisbona, C. Pinelli, Il deficit democratico europeo e le risposte del Trattato di Lisbona, in «Rassegna Parlamentare», n. 4, 2008, pp. 925 – 939; C. Fasone, N. Lupo, Il Parlamento europeo alla luce delle novità introdotte nel Trattato di Lisbona e nel suo regolamento interno, in «Studi sull’integrazione europea», VII, n. 2 – 3, 2012, pp. 329-357; F. Donati, Trattato di Lisbona e democrazia nell’UE, in «Rivista AIC – Associazione Italiana Costituzionalisti», n. 3, 2014. Sull’assenza di una sfera pubblica europea e la «presenza di un Parlamento suddiviso in quote nazionali e di conseguenza basato su elezioni parziali nazionali, e, soprattutto, senza una reale competizione per il potere esecutivo che mobili gli elettori e renda più chiari ed evidenti i legami di responsability e responsiveness», quali ostacoli presunti insormontabili al superamento del deficit democratico, G.C.S. Giraudi, Note critiche sul ‘teorema dell’impossibilità di un’Ue pienamente democratica’. Un breve commento al saggio di Dieter Grimm, in «Nomos», n. 2, 2014. Il saggio cui l’autore fa riferimento è La forza dell’Unione sta in un’accorta autolimitazione, pubblicato dal giurista tedesco sullo stesso numero della rivista Nomos, per evidenziare come il deficit democratico si alimenti del progressivo svuotamento del processo legislativo dei parlamenti nazionali attraverso le continue limitazioni di competenza operate dalle istituzioni europee, in particolare dalla Commissione europea e dalla Corte di giustizia dell’Unione europea, viste ormai come del tutto autoreferenziali.

[3] V. Bukovskij; P. Stroilov, Eurss. Unione Europea delle Repubbliche Socialiste Sovietiche, Spirali Edizioni, Milano, 2007.

[4] Curiosamente, l’origine della espressione idiomatica diffusamente nella lingua inglese sembra essere russa. Nel 1814, il poeta Ivan Krylov aveva scritto una favola intitolata “L’uomo curioso”, nella quale si raccontava di un uomo che all’interno di un museo nota ogni sorta di piccole cose, ma non riesce a notare un elefante. La frase divenne proverbiale e Fëdor Dostoevskij nel suo romanzo Demoni pubblicato nel 1873 scrisse che «Belinskij era proprio come l’uomo curioso di Krylov, che non notò l’elefante nel museo…».

[5] L. Raffini, A. Pirni, Atomizzata o connessa? L’agire politico nella società individualizzata tra de-politicizzazione e ri-politicizzazione, in «Cambio. Rivista sulle trasformazioni sociali», vol. 9, n. 17, 2019, p. 30. Sul tema, in relazione al presente tema, L. Hooghe, G. Marks, A Postfunctionalist Theory of European Integration: From Permissive Consensus to Constraining Dissensus, «British Journal of Political Science», vol. 39, n.1, 2009, pp. 1-23.

[6] K. Reif, H. Schmitt, Nine Second-Order National Elections: A Conceptual Framework for the Analysis of European Election Results, In «European Journal of Political Research», vol. 8, n. 1, pp. 3–45. In questo senso, le elezioni europee finiscono per rappresentare un chiaro paradigma di quelle che vengono chiamate barometer elections, ovvero di quelle elezioni che riflettono i cambiamenti negli atteggiamenti dei cittadini nei confronti del governo in risposta a condizioni politiche ed economiche mutevoli, in assenza dell’opportunità di installare un nuovo esecutivo. Cfr. C.J Anderson, D.S. Ward, Barometer elections in comparative perspective, in «Electoral Studies», vol. 15, n. 4, 1996, pp. 447-460.

[7] D. Grimm, La forza dell’Unione sta in un’accorta autolimitazione, in «Nomos», n. 2, 2014. p. 3.

[8] In tal senso, oltre il lavoro seminale di D. Grimm, Does Europe Need a Constitution?, in «European Law Journal», vol. 1, n. 3, pp. 282-302, basti qui citare per la questione della mancanza di un spazio pubblico europeo e le sue conseguenze sulla formazione di identità collettiva, capace di dare legittimità autentica alla soluzione alle decisioni europee di policies, V. Kaina, and I.P. Karolewski, EU governance and European identity, in «Living Review of European Governance», vol. 8, n. 1, 2013. Richard Bellamy e Sandra Kröger hanno sostenuto che un vasto gruppo di persone può trasformarsi in un demos solo quando i suoi membri sono «vincolati da relazioni cooperative di reciproco vantaggio che favoriscono l’uguaglianza politica». Ciò presuppone tanto un requisito ontologico, ovvero la comunanza di interessi nelle decisioni da prendere, quanto una epistemica, l’effettiva possibilità di un cittadino di giudicare l’operato dei decisori politici. (R. Bellamy, S. Kröger, Representations Deficits and Surpluses in EU policy-making, in «Journal of European Integration», vol. 35, n. 5, pp. 477-497). In senso contrario si esprime, Daniel Innerarity, che parla della UE in termini di esperimento innovativo «L’Unione Europea è una confutazione dell’idea che lo Stato nazionale sia l’unico luogo delle politiche comunitarie e identitarie. Un’identità nazionale uniforme non è esigenza di democrazia né di solidarietà. La comunità politica può costituirsi sulla base di tre presupposti: l’espressione di una comunità socioculturale, una utilità calcolata o l’adesione a principi politici. L’Europa dovrebbe essere intesa come un equilibrio dinamico tra tutti, ma nella sua articolazione il passato condiviso gioca un ruolo minore rispetto al futuro desiderato. La forza dell’UE, la sua coesione interna e l’intima capacità di solidarietà, non dipende da alcuna determinante passata, ma sul suo rapporto con il futuro. La difficile costruzione europea sarebbe quindi l’occasione per far sì che i progetti futuri sostituiscano quelli comuni del passato quale una fonte di identificazione e legittimità. Piuttosto che lamentandoci delle nostre limitate fonti di coesione identitaria, avremmo l’occasione per sviluppare una nuova nozione di demos: coloro che si confrontano con certi problemi comuni pur preservando e addirittura celebrando le proprie differenze. L’idea di destino condiviso ci permetterebbe di costruire ciò che è comune senza una comunità». (D. Innerarity, Does Europe Need a Constitution? in «European Law Journal» vol.1, n. 3, 2014, pp. 23̵-24).

[9] Sul tema M. Cacciari, Geofilosofia dell’Europa, Adelphi, Milano, 2003.

[10] L. Bellardini, Cosa è andato storto in Europa? Trent’anni dopo, rileggiamo il discorso di Bruges, in «Il sole 24ore», 20 Settembre 2018.

[11] Z. Bauman, L’Europa è una avventura, Laterza. Bari, 2014, pp. 4 e 9. Sul tema si veda F. Chabod, Storia dellidea d’Europa, a cura di E. Sestan, A. Saitta. Bari, Editori Laterza, Bari, 1965; G. Reale, Radici culturali e spirituali dell’Europa. Per una rinascita dell’uomo europeo, Raffaello Cortina Editore, Milano, 2003.

[12] Ibidem.

[13] Ibidem.

[14] Cfr. Aa. Vv., Educare all’Europa. Una sfida per la scuola, G. Deiana, a cura di, Unicopli, Milano, 2007.

[15] M. Amann Gainotti, Fatta l’Europa bisogna fare gli europei. Considerazioni su una educazione e una formazione all’Europa, in «Studi sulla Formazione», vol. 1, 2008, p. 63.

[16] G. Pasquino, L’Europa in trenta lezioni, Utet, Milano, 2017, pp. 159 e ss.

[17] F. Audigier, L’educazione alla cittadinanza in alcuni curricula europei, in Aa. Vv. Cittadinanza e convivenza civile nella scuola europea. Saggi in onore di L. Corradini, S. Chistolini (a cura di), Armando, Roma, 2006, p. 116.

[18] R.F. Kennedy, A Bold Proposal for America Sport, in «Sports Illustrated», 27 luglio 1964, p. 13.

[19] Toby C., Rider, Cold War Games: Propaganda, the Olympics, and U.S. Foreign Policy, University of Illinois Press, Champaign, IL, 2016, p. 30.

[20] A. Daley, What Does It Mean, in «New York Times», 8 gennaio 1952, p. 32.

[21] Cfr. T.M. Hunt, American Sport Policy and the Cultural Cold War: The Lyndon B. Johnson Presidential Years, in «Journal of Sport History», vol. 33, n. 3, 2006, pp. 273-297

[22] G.R. Ford, In Defense of the Competitive Urge, in «Sports Illustrated», 8 Luglio 1974, p. 17.

[23] B. Anderson, Comunità immaginate. Origini e diffusione dei nazionalismi, Manifestolibri, Roma, 1996.

[24] E. Hobsbawm, Nation and Nationalism since 1780: Program, Myth, Reality, Cambridge University Press, Cambridge, 1990, p. 143.

[25] N. Sbetti, Le identità europee nello sport, in «Altre modernità», n 14, 2015, p. 105.

[26] R. Holt, T. Mason, Sport in Britain 1945-2000, Blackwell, Oxford, 2000, in N. Sbetti, Le identità europee nello sport, in cit., p. 108. Dopo la Brexit, l’atteggiamento non sembra essere cambiato, come dimostra N. Sbetti, La lezione della Ryder Cup: l’Europa unita è più forte, in «Domani», 29 settembre 2023.

Autore: Luca Mencacci, giornalista, ricercatore e docente in Scienza Politica e Analisi delle politiche pubbliche presso l’Università degli Studi Guglielmo Marconi. Si occupa prevalentemente di democrazia rappresentativa e di partiti politici. Tra i suoi studi più recenti: Piove, governo ladro! Valore e rilevanza del luogo comune nel linguaggio politico (in «Azioni Prallele», n.2, 2015); The best man. Le campagne elettorali viste da Hollywood (Rubbettino, 2016); Il notabilato come categoria analitica della contemporanea trasformazione dei partiti (in «Rivista di Politica», n.4, 2017).

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“Il tuo silenzio, il loro consenso”. È lo slogan scandito in quelle piazze che tornano in questi giorni a riempirsi inneggiando al complotto sanitario mondiale.

La ricerca di spiegazioni alternative rispetto alla versione ufficialmente diffusa dal mainstream istituzionale non declina certo una evidenza culturale della contemporaneità. A partire dal XXI secolo, tuttavia, la singolare sequenza di eventi catastrofici di matrice terrorista, finanziaria e pandemica ha alimentato un alveo inesauribile per le narrazioni cospirazionistiche.

Il protagonismo mediatico offerto dalla rete ha finito, poi, con esaltare questa narcisistica avventura mitopoietica, volta a colmare il vuoto di ignoranza e il senso di impotenza verso quella complessità sociale che la globalizzazione sembra voler imporre. Il lato oscuro della storia verrebbe così svelato dalla disobbedienza culturale posta in essere da quei pochi che resistono a quella ormai vecchia, forse persino aliena, oligarchia dominante. Una disobbedienza tenace, ma quanto mai appagante nel fornire un profilo identitario anticonformista e autoindulgente, capace di appagare quel desiderio di unicità che viene visto come l’antidoto al disagio di una esistenza individuale non all’altezza delle ambizioni coltivate.