La nuova età dell’ansia

 

Sarebbe da mettere sotto accusa la politica mondiale e i governi, ma non lo si fa, tanto sarebbe ancora una volta inutile e deludente, si preferisce (complice la famiglia e le istituzioni educative, spacciatori anche loro di anestetici ma di scarsa efficacia), non mettere in discussione il sistema mediatico, ormai una specie di placebo, atto ad agire per la sua economica sopravvivenza. Mettere in discussione sé stessi? Eppure, la falsa giustificazione, la firma falsificata all’occasione come si faceva da adolescenti, regna sovrana.

 “Quando il processo storico giunge al collasso e gli eserciti con i loro massicci dibattiti cercano di riempire il vuoto che ne consegue e che essi non possono mai consacrare; quando la necessità si unisce al terrore e la libertà alla noia, allora, per i bar, è tempo di buoni affari. In tempo di pace esiste sempre un certo numero di persone che ogni mattina si svegliano eccitate alla prospettiva di un altro giorno di lavoro difficile e interessante, o felicemente sicure che chi fu loro compagno di letto la notte precedente lo sarà ancora nella successiva, e che, di conseguenza da un proprietario non possono essere certo considerati vera e propria clientela. Non che questi se ne debba preoccupare. Ci sarà sempre un numero sufficiente di solitari e di falliti che hanno un bisogno disperato di ciò che egli può offrire – ossia uno spazio libero da pregiudizi in cui non accade mai nulla di particolare, e una scelta di ausili fisiologici per l’immaginazione in virtù dei quali ciascuno, uomo o donna, può figurarsi quello spazio come un suo mondo privato di graziose forme di pentimento, massicci oggetti di gran prezzo, o di fiamme e inondazioni di vendetta”. Inizia così il poema di Wystan Hugh Auden, scritto nel 1948, ma estremamente profetico e attuale.

Dall’uomo nero delle fiabe per spaventare i bambini, nell’arco di parecchi decenni siamo giunti all’immigrato di colore, al “negro”, – pensate che negli anni Ottanta i primi venivano tutti identificati con l’epiteto di “marocchini”, ma ancora oggi non sappiamo distinguere un nigeriano da uno proveniente dal Mozambico, dalla Costa d’Avorio o dallo Zimbabwe, nemmeno un pakistano da un indiano – semplicemente è uno straniero e in quanto tale, diverso da noi, vi gettiamo tutta l’ostilità repressa in termini di diffidenza, timore e distanza, fino a quando non appare la paura, allora la percezione è che non vi sia un luogo sicuro nelle strade, di giorno o di notte, nemmeno sul lavoro o in casa. Si deve stare insieme per difendere i nostri oggetti, la nostra fragilità con la percezione che soltanto una reazione possa essere la risposta. Il perturbante ci ha lentamente avvolti. “Padroni in casa nostra”, fu un celebre slogan di qualche anno fa di gran successo, spesso reiterato, senza domandarci mai di cosa davvero siamo padroni… di oggetti, di emozioni o sentimenti, di ansia e di panico, figurarsi di altri esseri umani! “Padroni di cosa nostra?”, col punto interrogativo, può rappresentare il velo che ricopre di smarrimento e di ansietà – polizia e magistratura – non proteggono, anzi rilasciano, perché loro possano cominciare a fare di nuovo paura.

Dopo trent’anni, la politica del terrore ha fatto crescere a dismisura l’ansietà sociale, pur di raggiungere un consenso istintivo, irrazionale, a tal punto che una percentuale significativa ha messo la X sulla scheda di razzisti d’ogni specie, quelli di un tempo, quando giravano aggressivi e violenti in camicia… nera, o da quasi in cinquant’anni, per differenziarsi, nei vestimenti-travestimenti di verde, fingendosi seguaci di un carroccio medievale pieno di spade, diventati improvvisamente legittimi e necessari. E la sua diffusione attraverso un rimbalzo continuo e ossessivo, grazie ai media è avanzata a tal punto, da mostrarci come la violenza si sia diffusa quando un individuo è accanto all’altro, in strada, in palestra, negli stadi, nelle discoteche. È diventato necessario individuare un nemico, quello da colpire prima che lo possa fare lui. Senza parole, senza linguaggio – a meno che siano sintetici e primitivi slogan –, senza alcun dialogo, senza conoscenza reciproca, preparandosi psicologicamente all’attimo della azione-reazione, si beve, ci si droga, si picchia per “allenarsi all’effetto che fa”, e contemporaneamente servono anestetizzanti, perché l’ansia è il vuoto, il baratro dove ci specchia – in un celebre aforisma di Nietzsche.

La logica del nemico proveniente dal lontano è tuttora psicologicamente vincente, la violenza è diventata la prima risposta alla reazione dell’ansia, ormai diffusa e soltanto tacitata da un aberrante consumo di anestetici o psicofarmaci. Perché è impossibile prevedere un futuro – specie per le giovani generazioni – sempre più esasperate, e l’ansia genera il bisogno di affermarsi, quale percezione di una paura irreversibile, che si presentifica come devastante. Un affanno senza parole, che non fa discorsi, un’agitazione che appare normale “si dice… di tutti”, un pericolo non più rinviabile. Un segnale di una società antagonista, malata se non alle radici, nella crescita della pianta stessa.

Ma se il poeta angloamericano cercava di cogliere la drammaticità negli individui provati interiormente dalla Seconda guerra mondiale – dove la paura e la morte erano sovrani delle cose e delle vite, oggi la percezione sembra aver ridotto ogni distanza, vero e reale solo ciò da cogliere con gli occhi o con il corpo e non quando appare lontano o meglio invisibile, per non dire soffocato da noi dentro il nostro egocentrismo. Si lascia ai “moralisti” d’un tempo, l’orrore di quanto accade a Gaza o in Ucraina, o in altre cinquanta guerre a cui, per la stessa logica della distanza, i media non si interessano, perché non “fanno notizia” e noi non ne abbiamo proprio voglia o interesse, perché ci darebbe fastidio sentirlo. Si imputa al Covid 19 il rinchiudersi, ma è una favolistica narrazione, è stato il sintomo dove si è affacciato il vuoto, una pandemia di buio dimenticata o non visibile. Forse la giustificazione di un processo nato lontano, negli anni Novanta, dove non c’era una particolare ansietà sociale durante il terrorismo di qualche decennio prima. Addirittura, minore, eppure, sangue e cadaveri erano nelle strade, quasi ogni giorno. Bastava non essere coinvolti per sentire già un senso di sicurezza.

Sarebbe da mettere sotto accusa la politica mondiale e i governi, ma non lo si fa, tanto sarebbe ancora una volta inutile e deludente, si preferisce (complice la famiglia e le istituzioni educative, spacciatori anche loro di anestetici ma di scarsa efficacia), non mettere in discussione il sistema mediatico, ormai una specie di placebo, atto ad agire per la sua economica sopravvivenza. Mettere in discussione sé stessi? Eppure, la falsa giustificazione, la firma falsificata all’occasione come si faceva da adolescenti, regna sovrana.

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