Promotore di “Fake News” e altre “post-verità”, alleato oggettivo di neofascisti e altri suprematisti, oscillanti tra l’alt-right e tante realtà alternative, l’elezione di Donald Trump, tra l’immensità delle domande che pone comporta, pone per noi anche un problema di qualificazione. Come possiamo dare un nome e qualificare la campagna, le elezioni e la visione politica che difende e promuove?
Molti articoli e analisi hanno proposto il termine “fascismo”, richiamando giustamente i 14 segnali di Umberto Eco che consentono di riconoscere e qualificare questo regime. E dobbiamo riconoscere… che l’essenziale è lì.
Altri si sono opposti all’uso di questa qualificazione, ritenendola eccessiva sul piano giuridico e rischiando anche indirettamente di squalificare gli elettori che non sono tutti fascisti e non aspirano necessariamente a diventarlo. E poi preferisce il termine “illiberalismo” con ciò che ciò comporta di appropriazione dell’apparato statale e di deviazione delle sue regole ad esclusivo vantaggio suo o dei suoi amici.
Da parte sua, Donald Trump ha ovviamente esagerato con la dimensione del vittimismo invertendo lo stigma di ciò che ha presentato come la caricatura che è stata fatta di lui. Ha potuto così, se non nella stessa frase almeno nello stesso discorso, affermare a distanza di pochi minuti che avrebbe “organizzato la più grande deportazione (sic) della storia” per poi irridere gli avversari accusandolo di essere un nazista insistendo “Io sono l’opposto di un nazista” (sic).
I 4 anni che si aprono per gli USA, come per il mondo, ci daranno l’opportunità di vedere dove posizionare il cursore dell’azione politica di Trump tra nazionalismo, autoritarismo, illiberalismo, fascismo o neofascismo…
Ma la sfida per ora è capire come questa incapacità di nominare chiaramente ciò che rappresenta sia stata molto probabilmente uno dei punti di forza della sua vittoria elettorale.
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Fake News + fascismo = “falsocismo”
Poiché le parole esistenti sembrano troppo eccessive o troppo annacquate o troppo segnate storicamente, cerchiamo parole nuove. Ciò che Donald Trump sta inventando può essere descritto come “Fakecism”**, un neologismo che propongo aggregando da un lato la dimensione delle “Fake News”, espressione divenuta la sua identità e la sua firma discorsiva e linguistica più significativa, e dall’altro il termine “fascismo” che è almeno l’orizzonte di dispiegamento di una politica e di un’ideologia che già comprende un buon numero di indicatori.
** pronunciato in inglese [Feike Cizeum]. In francese potrebbe dare, tra fascismo e falsificazione, qualcosa come “Fascisfication” ma suona meno (almeno credo).
Promotore delle Fake News e di altre post-verità, alleato oggettivo dei neofascisti e degli altri suprematisti, Donald Trump inventa quindi il “Fakecism”, una brutale miscela di menzogne al servizio di un illiberalismo pronto al collasso, un attentato alle libertà.
Nella difficoltà di definire la campagna di Trump, in questo chiaroscuro che ci impedisce di nominarla in modo chiaro e inequivocabile, il discorso di Trump è quasi paradossalmente chiaro. Gioca (con più o meno finezza) con tutti i codici retorici che sono quelli del fascismo (vedi il lavoro di Eco riassunto sopra). Ma anche in questo caso, ciò non sembra sufficiente ai suoi avversari, detrattori e perfino agli analisti per qualificarlo come “fascista” e questo gli lascia sempre spazio per prendersi gioco di loro insistendo “Io sono l’opposto di un nazista.”
L’altro modo di affrontare il problema è interrogarsi sulle ragioni per cui il discorso di Trump circola così efficacemente in così tanti spazi mediatici, siano essi massivi o interstiziali, siano essi trasmissioni di opinioni esplicite o affermati avversari ideologici. E il motivo è molto semplice: il discorso di Trump può avvalersi di una forma di “pubblicità” senza precedenti (in ogni caso di questa portata).
“Pubblicità” è una nozione così definita da Valérie Patrin-Leclère :
un adattamento della forma, del contenuto e di un insieme di pratiche mediatiche professionali alla necessità di accogliere la pubblicità. Questo adattamento consiste in un dispositivo volto a ridurre la rottura semiotica tra contenuto editoriale e contenuto pubblicitario – risulta, ad esempio, nell’aumento dei contenuti editoriali che rientrano nelle categorie “società” e “consumo” o nell’impiego di formati facilitando l’integrazione della pubblicità, come i “reality TV”, ma anche tenendo conto, a livello editoriale, degli attori economici che potrebbero apportare entrate pubblicitarie ai media. È il caso in cui un trattamento editoriale di favore, o comunque non sfavorevole, viene riservato ai fornitori di reddito per non correre il rischio di essere vittima di un provvedimento di censura che si concretizzerebbe in assenza di acquisto di spazi pubblicitari
La “pubblicità” senza precedenti che Trump può rivendicare ha ovviamente a che fare con la pubblicità, ma ha anche molto a che fare con l’adattamento di tutti gli spazi discorsivi (principalmente digitali) alla ricezione e alla promozione dei fondamenti discorsivi che mobilitano la semantica o il simbolismo relativo al fascismo.
O per dirla più semplicemente: se il discorso di Trump è così efficace (anche nelle sue espressioni più violente, volgari o abiette) è perché si dispiega in universi (di discorso) già allineati con queste modalità, già pronti ad accoglierlo e a renderlo risuonante. Universi (di discorso) fabbricati e “designati” (nel senso di “Design”) che già si adattano perfettamente a tutti i suoi argomenti e funzionano come altrettante vetrine di una presunta retorica fascista (ricordiamo le “deportazioni ”, ricordiamo l’animalizzazione del stranieri che “mangiano cani e gatti ”, ecc.)
E il primo di questi universi (di discorso) è ovviamente quello offerto da Musk con suprematisti, razzisti, sessisti, omofobi che dal canto loro beneficiano anche di una superficie di esposizione e di un pubblico considerevole e saturano gli spazi mediatici, sia dal vivo che in eco quando vengono costantemente ripresi per essere permanentemente commentati e denunciati.
In altre parole, se il discorso di Trump ha potuto vincere così “facilmente” è perché gli restava ben poco da fare se non “incarnare” ed essere l’ultimo avatar di queste radicalità discorsive estremamente polarizzate e quasi tutte inclinate verso lo stesso lato del pensiero, lo stesso spettro politico (poiché sì, Internet, i social network e gli algoritmi sono di destra e anche per molti di loro di estrema destra).
Dove Trump era stato “vittima” della deplatformizzazione che aveva visto la sua (momentanea) esclusione da Facebook, Instagram e Twitter, e dopo aver dal canto suo creato un proprio spazio e un proprio canale (chiamato “Truth Social” e circondato da altri far- reti di destra ), eccolo in un certo senso “super-platformizzato” da Elon Musk nel quadro di un social media, X, che è il modello archetipico che riunisce tutte le condizioni di produzione, di propagazione e di legittimazione di un discorso, se non da oggi fascista, almeno da diversi lunghi mesi già chiaramente “Fakecista”.
Autore: Olivier Ertzscheid è docente di scienze dell’informazione e della comunicazione presso l’Università di Nantes (IUT di La Roche-sur-Yon). Potenza degli algoritmi, questioni etiche legate all’automazione, cambiamenti nella nostra ecologia cognitiva e informativa sono i temi che si sforza di seguire, interrogare e includere nel dibattito pubblico. Nel 2016 ha pubblicato in particolare con Publie.net Les Fables Connectées, un pastiche futuristico di testi classici rivisitati, L’appetito dei giganti:potere degli algoritmi, ambizioni delle piattaforme (C&F Éditions, 2017) e Il mondo secondo Zuckerberg: ritratti e pregiudizi. (Edizioni C&F, 2020).