Nel Manifesto di Marx e di Engels ci sono chiare proclamazioni del carattere scientifico del loro socialismo, ma anche della bellissima utopia:
“Al posto della vecchia società borghese con le sue classi e i suoi antagonismi di classe subentra un’associazione nella quale il libero sviluppo di ciascuno è la condizione per il libero sviluppo di tutti”.
Con questa magnifica armonia d’individualismo e di comunitarismo, infatti, si chiude la seconda parte del Manifesto.
In Critica del programma di Gotha, Marx, nel 1875, contro la proposta di retribuire i lavoratori secondo quanto ciascuno produce, scrive addirittura:
“In una fase più elevata della società comunista, dopo che è scomparsa la subordinazione asservitrice degli individui alla divisione del lavoro, e quindi anche il contrasto fra lavoro intellettuale e fisico; dopo che il lavoro non è divenuto soltanto mezzo di vita, ma anche il primo bisogno della vita; dopo che con lo sviluppo onnilaterale degli individui sono cresciute anche le forze produttive e tutte le sorgenti della ricchezza collettiva scorrono in tutta la loro pienezza, solo allora l’angusto orizzonte giuridico borghese può essere superato, e la società può scrivere sulle sue bandiere: Ognuno secondo le sue capacità; a ognuno secondo i suoi bisogni!”.
Qui l’utopia di Marx arriva, nel suo motto conclusivo, a far completamente sua l’ideale comunione di cuori e di beni del cristianesimo primitivo:
“La moltitudine di coloro che avevano abbracciato la fede aveva un cuore e un’anima sola. Non v’era nessuno che ritenesse cosa propria alcunché di ciò che possedeva, ma tutto fra loro era comune. […] Erano tutti circondati da grande benevolenza. Non c’era, infatti, tra loro alcun bisognoso: poiché quanti possedevano campi o case, li vendevano e portavano il ricavato delle vendite mettendolo ai piedi degli apostoli. Veniva poi distribuito a ciascuno secondo che ne aveva bisogno”.[1]
Se, poi, si pensa che, questa idilliaca armonia di una piccola comunità animata dalla fede paradossale in Cristo risorto, Marx la prospetta per l’intera umanità, come punto d’arrivo necessario di un corso storico mosso dalla lotta di classe, la sua natura utopica si esalta all’ennesima potenza, anche molto di più che nel sogno della ragione di Kant in Per la pace perpetua del 1795.
Utopia scientifica è un ossimoro, un sogno della ragione, fecondo e salutare, se non si vuole restare sepolti in un presente insopportabile o perdersi nelle nuvole dei sogni.
Per riflettere su quest’ossimoro, su questa vitale contraddizione in termini, si potrebbe riprendere in mano la sua prima e più illustre espressione nella storia della filosofia occidentale, la Repubblica di Platone. E, come avvio di questa divagazione riflessiva, propongo, un po’ rivisto nella forma, un mio testo del 2002, un dialogo sul filosofo della caverna platonica.
https://www.asterios.it/catalogo/facchiotami
Il filosofo della caverna
Dialogo tra Socrate e Sofronisco, suo padre.
Socrate sta parlando con dei suoi amici. Arriva Sofronisco molto agitato.
“Che cosa ti succede, padre mio? Perché sei così agitato?”
“Ho bisogno di te. Scusami se ti disturbo mentre parli con i tuoi amici, ma molti amici miei sono in difficoltà e solo tu puoi aiutarli”.
“Non mi disturbi affatto, padre mio. I discorsi che sto facendo con i miei amici
possono attendere. Anzi, nell’attesa magari maturano e poi si ripresentano con più chiarezza. I miei amici sono comprensivi ed io parlo con te con vera gioia. Parlami pure. Dimmi: perché i tuoi amici sono in difficoltà e che cosa posso fare io per loro?”.
“I miei amici in difficoltà sono gli abitanti della caverna del settimo libro della Repubblica di Platone. Sono stati portati in tribunale per il delitto che si è consumato in chiusura di quel mito. Sono accusati di aver ucciso il filosofo che tentava di avviarli alla filosofia, alla ricerca della verità.
I miei amici temono che abbia successo il tentativo dell’accusa di assimilare quel delitto alla condanna a morte che hai subito ingiustamente tu e di farli quindi condannare per rimediare all’ingiustizia fatta a te e alla filosofia.
Si stanno, infatti, imponendo discorsi di questo tipo: la caotica e malata Atene democratica ha condannato a morte la filosofia, ma, adesso, nella città ideale del tuo allievo Platone, la filosofia, giunta al potere, sta per condannare il popolo refrattario, fino all’omicidio, alla sua salutare educazione filosofica.
Devi venire tu a spiegare che non è così, che tu non saresti affatto vendicato dalla loro condanna; che il loro delitto, peraltro solo ipotetico, non è stato compiuto contro la filosofia; che non hanno messo a morte uno come te”.
“Perché, padre mio, parli di omicidio solo ipotetico?”.
“Perché gli abitanti della caverna platonica non hanno, in realtà, ucciso il filosofo. Ho qui con me il testo e posso farti vedere che Platone non dice che hanno ucciso il filosofo, ma che l’avrebbero ucciso se avessero potuto averlo tra le mani”.
Socrate legge il testo platonico.
“Hai ragione, ma il delitto si è forse consumato fuori del racconto platonico”.
“È vero, figliolo, che in Platone la loro intenzione omicida è evidente, ma non si possono processare le intenzioni”.
“Se sono finiti in tribunale, padre mio, una qualche prova sarà stata trovata. Spetta ai giudici valutarne la validità; ma, se veramente avessero ucciso il filosofo, perché, padre mio, dovrei difenderli proprio io?”.
“Perché, come ti ho già detto, gli accusatori sostengono che quel delitto è simile alla tua messa a morte da parte degli Ateniesi e propongono una condanna riparatrice”.
“Perché io non dovrei sentirmi risarcito dalla loro condanna? Non sono stato io ingiustamente messo a morte da una giuria popolare, dal popolo di Atene, per la mia filosofia? Loro non avrebbero commesso contro quel filosofo, contro la filosofia, un delitto analogo?”.
“Figlio mio, il filosofo della caverna non è stato ucciso perché filosofo, ma per legittima difesa. E, come filosofo, non assomiglia affatto a te.”
“Che cosa dici, padre mio?”.
“Sì, era un violento e uno sprovveduto. Tu sei stato molto sprovveduto, e ne abbiamo già parlato, ma non sei mai stato violento. Quel filosofo non ti assomiglia, se non nel tentativo ingenuo e maldestro di voler cambiare al popolo in massa rapidamente la testa, come avresti voluto fare tu in un solo giorno al processo. Tu, però, non hai mai usato la forza, se non quella delle parole: hai messo in difficoltà con la tua ironia molte persone, irritandole talvolta fino all’esasperazione e davanti a tutti, ma non li hai mai sottoposti a rieducazione forzata”.
“Certo – dice Socrate – l’ironia scuote l’anima ma non la violenta come l’educazione forzata. Ma tu come fai a dire che il filosofo della caverna praticava l’educazione forzata?”.
“Ho letto attentamente il mito di Platone. Certo non parla di rieducazione forzata. Dice però che chi prendesse a sciogliere e a condurre fuori della caverna quei prigionieri certamente verrebbe ucciso, se potessero averlo tra le mani e ammazzarlo”.
“Mio buon padre, come hai letto tu stesso, non c’è alcun riferimento alla violenza rieducativa di cui accusi il filosofo. Anzi, Platone non dice neppure che a fare quell’azione rieducativa sia stato il filosofo, parla di un soggetto ipotetico e non identificato. Del filosofo dice solo che viene deriso, perché uscendo dalla caverna si è rovinato gli occhi e, rientrato, non sa più vedere le ombre con l’abilità di prima e dei suoi ex compagni di prigionia”.
“Se il filosofo sia stato veramente ucciso e se sia stato lui a provocare il delitto, cercando di trarre fuori a forza dalla caverna il popolo, verrà chiarito dal dibattito. Ma non è per questo che sono venuto a cercare il tuo aiuto. Io voglio che tu venga a spiegare alla giuria che il trattamento filosofico a cui tu sottoponevi i tuoi interlocutori, fatto di ironia e di maieutica, ha ben poco a che fare con quello a cui è stato sottoposto prima il filosofo della caverna e a cui lui avrebbe poi cercato di sottoporre il popolo della caverna, andando incontro alla morte. Devi venire a spiegare che quel filosofo non è Socrate, non è socratico e che tu non ti ritieni assolutamente vendicato, per l’ingiustizia subita, da un’eventuale condanna del popolo della caverna.”
“Adesso ho capito che cosa vuoi da me. Andiamo, quindi, a leggere attentamente il mito di Platone e cerchiamo di capire bene la natura dell’educazione filosofica di cui si parla”.
“Grazie, figlio mio. Sono ben contento di rileggere con te il mito di Platone. È breve e bellissimo. Capirai subito come stanno le cose e farai in tempo ad andare in tribunale ad aiutare i miei amici. Proprio in apertura del libro settimo, Platone propone l’immagine di una caverna con …”.
“Fermati, padre mio. Ho letto anch’io il mito, e ho ben presente il quadro della caverna, degli uomini incatenati, delle ombre e dell’eco. Possiamo cominciare a leggere dal punto in cui uno dei prigionieri si libera e si muove verso l’uscita della caverna”.
“D’accordo, Socrate. È proprio quello un punto da leggere con molta attenzione. Perché non è che quel prigioniero si liberi: viene sciolto, costretto improvvisamente ad alzarsi, a girare intorno il capo, a camminare e levare lo sguardo alla luce”.
“Tu, padre mio, metti l’accento sulla costrizione e parli di rieducazione forzata. Ma è proprio così?”.
“Sì. Platone dice che il prigioniero prova dolore, che la luce lo acceca. Dice che, a quella liberazione forzata, il prigioniero si sarebbe sottratto, se avesse potuto farlo. È stato legato tutta la vita, senza possibilità di muoversi, di girarsi e di voltare la testa. Improvvisamente, cioè senza alcun preavviso e senza alcuna possibilità di prepararsi alla novità, viene sciolto e costretto a fare quel che non aveva mai fatto, a muoversi, a girare il capo, a camminare e a levare lo sguardo alla luce”.
“Una violenza! Una tortura!”.
“Dici bene, Socrate. Tu hai messo a disagio, molte volte, i tuoi interlocutori con domande inquietanti, ma loro hanno sempre avuto la possibilità di non rispondere, di sottrarsi alle tue domande educative e l’hanno fatto spesso”.
“Anche il popolo della caverna avrebbe potuto sottrarsi all’educazione forzata: erano in molti contro uno solo”.
“Hai ragione, figliolo. A differenza del filosofo, loro, in molti contro uno solo, potevano difendersi e, in realtà, l’hanno fatto”.
“E la loro rieducazione è fallita, padre mio”.
“È così. L’educazione cui è stato sottoposto il filosofo è perfettamente riuscita, mentre quella che ha cercato d’imporre agli altri è fallita sul nascere. Riflettiamo allora sui diversi casi di rieducazione fin qui incontrati:
- una rieducazione forzata e riuscita;
- una rieducazione forzata e fallita sul nascere;
- molti tentativi di rieducazione inquietante, ma non forzata, libera, quelli praticati da te e spesso falliti sul nascere”.
“Molto bene, padre mio, presenti perfettamente le differenze. Aggiungerei solo che la prima e la seconda differiscono tra loro per grado diverso d’investimento della forza, mentre differiscono dalla terza come la costrizione dalla libertà”.
“Sì, figlio mio, nelle pagine platoniche c’è costrizione, travolgente nel primo caso, insufficiente nel secondo caso”.
“Nella mia pratica filosofica, invece, c’era dialogo e libertà. Anche il contesto è radicalmente diverso: io ho sempre parlato in pubblico, nelle piazze, nei simposi, sempre alla presenza di altre persone; il filosofo della caverna viene a trovarsi in una condizione eccezionale ed è solo a subire la costrizione”.
“Dici molto bene, Socrate. È sempre solo. Sia quando subisce la violenza, sia quando cerca di praticarla a sua volta. La solitudine è la sua debolezza in tutti e due i casi. Per questo perde sempre. Non può che perdere”.
“Non perde sempre. Nel primo caso, padre mio, quello dell’educazione che gli è stata imposta, guadagna la verità, anzi la Verità. La sua radicale sconfitta è, in realtà, una vittoria, la più importante delle vittorie umanamente possibili”.
“Figlio mio, mi stai travolgendo con l’avvio di un discorso estremamente interessante, ma io ho bisogno che tu vada subito in tribunale a difendere i miei amici. Ti prego, vai subito! Ricordati di insistere sul carattere dialogico, pubblico e libero della tua pratica filosofica. Fai capire bene ai giudici che non riparano l’ingiustizia che tu hai subito condannando il popolo della caverna platonica. Poi riprenderemo il discorso su costrizione e verità, su dialogo, libertà e verità”.
“D’accordo. Vado subito”.
Socrate interviene in tribunale.
Gli uomini della caverna vengono assolti per legittima difesa.
Sofronisco festeggia la vittoria con i suoi amici e poi torna a riprendere la discussione con suo figlio Socrate.
“Grazie, figliolo, il tuo intervento è stato decisivo e i miei amici te ne sono molto grati”.
“Benissimo! Siamo tutti contenti! Adesso possiamo riprendere il nostro discorso in condizioni di serenità, più propizie alla riflessione”.
“Molto bene, Socrate.
Ripartiamo dalla via della costrizione alla verità, anzi, alla Verità. Sei proprio convinto, figlio mio, che il prigioniero della caverna, portato di forza al cospetto della verità, abbia raggiunto la verità? La verità è una cosa che sta da sé, tutta piena in se stessa e del tutto indipendente dal percorso di chi la raggiunge? Alla verità è indifferente l’avventura di chi la cerca? È come una moneta il cui valore non dipende da chi la guadagna o la perde, né dallo spirito di chi se la trova in tasca?
La ricerca della verità è una caccia al tesoro?”.
“Padre mio, imposti molto bene il problema. Ti chiedi cioè se la verità sia un ente con una sua identità ben definita in se stessa e perciò ben definibile concettualmente. È così?”.
“Sì, è così e penso anche che ci siano delle verità con queste caratteristiche”.
“Pensi alle verità matematiche, padre mio?”.
“Sì, Socrate, ma non solo a quelle. Anche alle verità di fatto e a quelle scientifiche. Credo, cioè, che si possa insegnare la matematica col bastone, con le buone maniere o con il bastone e la carota e che, se le imprese riescono nella stessa misura, le verità acquisite siano le stesse. Il teorema di Pitagora, capito in libertà educativa o in regime di rigorosa costrizione, è sempre quello. Anche un fatto io posso riconoscerlo con libero movimento dell’anima o perché ci sono costretto ed è sempre quello. Se qualcuno mi porta con la forza a vedere che fuori piove, io scopro la stessa cosa che avrei potuto scoprire uscendo fuori di mia libera iniziativa.
Credo che la stessa considerazione si possa fare per le scienze fisiche e naturali, ma non per le questioni etiche e politiche.
Se io mi domando: «Come posso organizzare la mia esistenza nel migliore dei modi? E in quale città? Che cos’è bene per l’individuo e per la sua comunità? Qual è la città ideale? Che cos’è il bene morale e politico?», posso arrivare alla stessa risposta con percorsi diversi, liberi o forzati?
Io non credo che la libertà e la coercizione portino alle stesse risposte”.
“Padre mio, sei un bravo filosofo. Hai impostato molto bene il problema. Vuoi anche provare a dire il perché di questa differenza?”.
“Forse, se insistiamo ancora un po’ sulla differenza, troviamo qualche indicazione nella differenza stessa”.
“Insistiamo pure, padre mio, ma io ho l’impressione che tu abbia già qualche idea e che stia giocando un po’ con me. Scopri bene le tue carte e subito”.
“D’accordo. Arrivo subito al nodo. La differenza è tra essere e dover essere. Tra la parola essere, da sola, e il binomio dover-essere. Tra l’essere che è e l’essere che deve essere. Tra l’identità univoca, pulita e coerente dell’essere e l’identità ambigua e contraddittoria del dover essere”.
“Padre mio sei stato a scuola da Parmenide, da Eraclito e, per finire, da Gorgia?”.
“Sono stato ad ascoltarli, ma un po’ da lontano, per non farmi bruciare dal fervore dei loro seguaci. E, da lontano, ho potuto riflettere e mettere un po’ di ordine nella mia testa”.
“Hai messo molto bene a fuoco la differenza. Bravo, padre mio!
Avere a che fare con una sola parola è ben diverso che avere a che fare con due parole esigenti strettamente congiunte: il significato di una viene profondamente modificato dal significato dell’altra.
Il dover essere è molto più e molto meno dell’essere.
È molto più dell’essere, perché, a differenza di ciò che è, esige di essere, incombe e si propone, si fa avanti, non resta fermo nel suo essere.
È molto meno dell’essere, perché è sempre il non ancora, per quanto sia prossimo a essere; manca sempre del tratto fondamentale dell’essere.
E, per diventare essere, ha bisogno dell’essere più incerto e più fragile degli esseri, l’uomo.
E della parte più leggera e più indefinibile dell’uomo: la sua libera volontà.
Il dover essere è sempre al di là e al di qua dell’essere: nuota nel mare della libertà.
Si può provare a semplificare le cose fondendo le due parole in una sola, quella del bene, ma i problemi riemergono subito intatti, come avrai notato leggendo Platone e i suoi tentativi di chiarire la posizione ontologica del Bene”.
“È vero Socrate, le parole da tenere insieme, per capire il bene, sono tre: essere, dovere e libertà. E si tratta di tre parole invadenti, che o sono piene o non sono. La parola libertà, tirata in ballo dal dovere, non sempre si fa vedere, ma è quella che manda all’aria ogni quadro di certezze, ogni sistemazione. Ogni volta che tutto sembra sistemato, interviene lei con la sua grazia e rimette tutto in forse”.
“Bravo, padre mio. Grazia è la parola che ci aiuta a capire la libertà.
C’è sempre nel comportamento libero qualcosa che sfugge a ogni spiegazione e rende gratuito l’atto che si deve compiere: è la libertà di compierlo o di non compierlo. Questo elemento gratuito è la risorsa fondamentale delle città libere. Però, è come l’aria che si respira: si avverte quando comincia a mancare. Nella città di Platone non c’è libertà, non c’è l’aria, nulla è gratuito ma tutto è rigorosamente determinato, sistemato dal sapere dei sapienti”.
“Perché?”
“Platone è diverso da me: nato in una famiglia dell’alta aristocrazia, di tendenza antidemocratica, è stato sì mio allievo, ma ha frequentato anche i Pitagorici; teme la libertà popolare e la vede solo come licenza; ha vissuto la sua gioventù in tempi di crisi e di guerra, e si è convinto che la sua città fosse profondamente malata”.
“È vero, figlio mio, che Platone è vissuto in una situazione eccezionalmente grave e si è convinto che fosse necessaria una cura eccezionale per la città”.
“La libertà ha, però, bisogno di tempi normali. La libertà o è normale o non è. In tempi eccezionali la prima a essere sacrificata è sempre la grazia della libertà, se non c’è il coraggio di vivere l’emergenza con il lusso della libertà. In Platone il coraggio della libertà non c’è. C’è il rigore inflessibile del medico, la gravità della malattia, medicine solo amarissime e nessuna fiducia nella possibilità del malato si prendersi cura di sè”.
“Hai ragione, figlio mio. Delle tre parole da tenere sempre insieme, Platone ha imparato solo le prime due. Ma il dovere, non accompagnato dalla libertà, diventa obbligo. E il bene perde un suo elemento fondamentale: la libertà di raggiungerlo e di realizzarlo. Platone non immagina neppure che nella caverna i prigionieri possano sciogliersi da soli e muovere avventurosamente e liberamente verso l’uscita e la verità. Potresti provare tu a riscrivere questo mito nel senso della libertà”.
“Sai bene che non mi fido della scrittura. Piuttosto vorrei ancora fare due parole con te sulla sentenza”.
“D’accordo, Socrate. Che cosa vuoi dire?”.
“Non mi convince molto la legittima difesa di molti contro uno: potevano neutralizzare la violenza del filosofo senza ucciderlo”.
“Come hai potuto vedere anche tu, al processo è risultato che la determinazione del filosofo era incredibile e che non c’era modo di fermarlo. Agiva come un automa, come una macchina. Senza libertà. Agiva senza libertà, perché non aveva mai conosciuto la libertà. Prigioniero, prima dell’errore poi della verità, inchiodato prima all’uno e poi all’altra. Determinato sempre, obbligato. Senza grazia, senza respiro”.
“Senza libertà, padre mio, che cos’è la filosofia?”.
“Adesso capisco perché al tuo processo non hai neppure preso in considerazione la possibilità dell’esilio: solo la città di Atene ti consentiva di essere il suo filosofico, fastidioso e libero tafano”.
“Grazie, padre mio, per la comprensione della mia intransigenza al processo contro di me”.
“Capisco, adesso, ancora meglio la differenza tra la tua filosofia e quella dell’uomo della caverna platonica. Tu hai affrontato la morte per la libertà di ricerca della verità, che hai sempre detto di non possedere, lui è stato martirizzato dalla forza di una verità raggiunta a forza e creduta in suo possesso, da condividere e da imporre agli altri”.
“Forza della verità, padre mio, è un’espressione che fa torto alla verità. La verità raggiunta a forza e imposta a forza, quando non si tratti di certezze scientifiche o di fatto, ma del senso da dare alla vita individuale e associata, è solo forza. Me l’hai spiegato bene tu”.
“E vero: non si tratta di forza della verità o di pensiero forte, ma solo di forza”.
“E di legittima difesa. Adesso, padre mio, devo andare ma vorrei poi riprendere la discussione su quel che mi hai detto l’altro giorno del discorso che Lisia aveva preparato per me. Ci ho pensato su e vorrei parlartene”.
“A presto, figliolo”.
E, per andare un po’ più in profondità:
Il filosofo della caverna è veramente Platone?
Platone pensava veramente di realizzare la sua città ideale con lo stesso rigore con cui si fanno i calcoli in aritmetica e le dimostrazioni in geometria? Pensava veramente che fosse possibile matematizzare la scienza politica? Era diventato un pitagorico dimentico della lezione socratica?
O il vaccino socratico ha agito anche nella stesura della Repubblica e sempre di più nel pensiero successivo?
https://www.asterios.it/catalogo/il-cammino-di-kallipolis
La divagazione sull’utopia scientifica continua
Socrate e Sofronisco riprendono la discussione sulla Repubblica di Platone.
“Socrate, ricordi le domande fatte in chiusura della divagazione precedente?”
“Le ricordo bene, padre mio, e sono pronto a riprendere il nostro discorso”.
“Vuoi avviare tu la discussione?”
“Sì. Alla domanda se il filosofo della caverna sia veramente Platone, comincerei con il rispondere che quel filosofo è una creatura del poeta-filosofo, un personaggio cui Platone nella Repubblica fa rappresentare l’idea di filosofia che gli sta a cuore in quella fase della sua ricerca, ma che non coincide con il concetto di filosofia che si può ricavare dalla considerazione dell’intera opera platonica: ne è solo un elemento, un momento. Penso, pertanto, che Platone e quel filosofo non siano la stessa cosa”.
“Credo anch’io che sia così. Vuoi anche indicare qualche tratto che distingua Platone dal suo filosofo della caverna?”
“Se hai un po’ di pazienza, padre mio, comincerei a presentare in sintesi quel dialogo di Platone, così avremo sotto gli occhi tutti gli elementi per discutere”.
“Ti sto ad ascoltare con vero piacere, anche se ho letto anch’io più volte quel testo, tanto è bello. Comincia pure così, Socrate”.
“La Repubblica, dialogo dedicato al tema della giustizia, si apre con le considerazioni di Cefalo, il padre di Lisia, sulla vecchiaia e si chiude con il mito di Er sul destino delle anime dopo la morte: i problemi esistenziali dell’individuo trovano la loro collocazione adeguata nel più ampio problema della giustizia della città. L’individuo è in piccolo quel che la città è in grande e, in una riflessione sulla giustizia della città, merita il centro dell’attenzione”.
“Anche a me sembra importante che al centro di questioni di architettura politica costituzionale, che si vogliono affrontare col rigore proprio dei matematici, ci sia l’individuo con i suoi problemi più personali”.
“Bene. Siamo in sintonia. A questo punto, però, salterei nel bel mezzo del dialogo, anzi un po’ oltre, all’inizio del libro VII, dove c’è il mito della caverna, metafora dell’educazione filosofica nella città ideale di Platone”.
“Mi sta bene. Andiamo subito al sodo, Socrate”.
“La Giustizia, come tutta la vera realtà, è fuori della caverna.
Nella caverna arrivano solo ombre della realtà esterna.
Per capire le ombre bisogna sapere di che cosa sono ombre.
Bisogna uscire dalla caverna per capire bene quel che si vede nella caverna”.
“Con il mito della caverna, Platone offre una metafora poetica molto efficace alla distinzione che la filosofia (Eraclito, Pitagora e Parmenide) ha elaborato fra doxa e alètheia, fra opinione e verità, fin dai suoi primi passi”.
“Bisogna uscire dalla caverna per trovare la giustizia della città e degli individui della caverna. Il problema della giustizia è una questione di conoscenza, di vera conoscenza. Prima e fondamentale condizione per realizzare la giustizia è la conoscenza della Giustizia, di cui nella caverna si riesce a vedere solo l’ombra”.
“Molto bene, Socrate, ma Platone prevede l’uscita dalla caverna per tutti?”
“No. L’uscita dalla caverna non è per tutti. E’ per pochi.
I più restano nella caverna e i pochi che ne escono devono poi tornare nella caverna a governare, guidati dalla giustizia che hanno visto.
La città giusta va, infatti, costruita nella caverna.
Platone, di origine aristocratica, propone, sotto influenza pitagorica, una rivoluzione dell’aristocrazia e mette a suo fondamento e a sua legittimazione il sapere più che la nascita. Non rinnega, però, del tutto, l’aristocrazia del sangue: nella sua città ideale i figli delle classi dirigenti, i figli dello Stato, se non sono particolarmente inadatti diventano guardiani e filosofi; i figli dei lavoratori, invece, nascono in famiglia ed ereditano la sorte dei genitori, a meno che non abbiano doti eccezionali che ne rendano possibile la promozione sociale all’educazione statale. Platone propone sì come fondamento dell’aristocrazia il sapere, ma un sapere elitario”.
“Propone un’aristocrazia del sapere, Socrate.
Siamo lontanissimi da Protagora e dal suo discorso sui doni politici di Zeus.
Siamo molto lontani anche dalla tua maieutica praticata in piazza, per strada e, tendenzialmente, a disposizione di tutti. Tu, Socrate, l’hai praticata, e con successo, anche su uno schiavo, come ha scritto proprio Platone”.
“Platone è affascinato dalla razionalità pitagorica: per lui si arriva alla giustizia con la conoscenza, e la matematica, nell’educazione alla conoscenza, ha una funzione fondamentale: determina il distacco dell’attenzione dalle ombre e la dirige agli enti veramente reali, alle forme pure, alle idee.
Platone propone la funzione educativa della matematica per le stesse ragioni per cui condanna l’arte imitativa: questa abitua a prendere sul serio le ombre della caverna e le riproduce, realizzando ombre delle ombre della realtà; il distacco matematico dalle ombre, invece, avvia all’educazione filosofica”.
“E così, una volta arrivati agli enti ideali matematici, si può continuare con lo stesso rigore razionale fino alle idee-valori, fra le quali c’è la Giustizia”.
“Il sapere matematico introduce al sapere filosofico, alla conoscenza del dover essere, del Bene. L’educazione matematica determina il passaggio dall’opinione alla scienza, l’educazione filosofica, poi, promuove il passaggio dalla scienza dell’essere (gli enti numerici e geometrici, le Idee della matematica) alla scienza del dover essere (le Idee-valori, al vertice delle quali c’è il Bene).
Platone si serve dell’evidenza che caratterizza il primo passaggio conoscitivo per proporre anche il secondo e ben più decisivo passaggio, dopo il quale la consegna del potere ai filosofi diventa una conseguenza scontata”.
“Se si può raggiungere la scienza del Bene, di cui la Giustizia è parte, se questa scienza ha i caratteri di certezza e di stabilità della scienza matematica, perché non consegnare la città a chi possiede questo sapere?
Il vero, nella sua forma più alta, è il Bene”.
“Padre mio, l’identità di vero e di bene è il principio cardine della filosofia platonica. E’ dato per scontato, ovvio. E fonda la corrispondente identità di sapere e potere; quindi promuove il sapere al potere”.
“E’ la soluzione di Platone alla crisi di Atene che ha mandato te, Socrate, a morte”.
“E’ la prima costruzione teorica di una rivoluzione fondata sul sapere, la prima utopia scientifica”.
“Che cosa dici, figliolo? Che cos’è l’utopia?”
“Scusami, padre, se uso una parola che, costruita con elementi della nostra lingua, comparirà solo tra molti secoli, quando i lontani discendenti di quei barbari che abitano le terre del tramonto scopriranno un po’ dei nostri libri. È, però, una parola che da sola esprime i molti elementi che alimentano la speranza e l’impegno di uscita da una realtà insopportabile”.
“E che cosa vuol dire esattamente?”.
“È il nome dell’isola che non c’è e che sarebbe bello che esistesse. Lo creerà un filosofo che, molto amareggiato per i gravi mali della sua isola, scriverà un libro per far conoscere quei mali a tutti e per indicarne il rimedio nel prendere a modello un’isola che non c’è, ma dove regna la ragione”.
“Quel filosofo farà un po’ come Platone”.
“Sì, scriverà anche lui di un mondo politico ideale”.
“Sarebbe bello andare a visitare quell’isola ideale. Adesso però fermiamoci alla città ideale di Platone, alla sua isola che non c’è”.
“Sì, fermiamoci a guardare attentamente questa creatura platonica. E cominciamo dall’idea di Giustizia che ne è il perno”.
“Sono d’accordo”.
“Vuoi cominciare tu, visto che hai letto più volte la Repubblica?”
“Si. L’idea di Giustizia della Repubblica è l’idea della città tripartita, con i filosofi al potere e senza leggi”.
“Una giustizia senza leggi!?”
“Sì. L’aristocratico Platone, rifondando l’aristocrazia sulla scienza del bene, recupera l’arcaica diffidenza aristocratica nei confronti delle leggi: se la città è in mano ai migliori, a coloro che conoscono il bene, che bisogno c’è di leggi? Esse non possono che introdurre con la loro astrattezza elementi di rigidità nel governo dei filosofi, che merita, invece, totale libertà discrezionale. Se i filosofi sono arrivati a conoscere la Giustizia, perché vincolarli con elementi rigidi, generali e astratti di giustizia quali sono le leggi?”.
“Si, padre mio, l’idea delle leggi a difesa dei cittadini dal potere dello Stato è lontanissima dalla Repubblica: se il potere è nelle mani di chi conosce il Bene, quali pericoli corrono gli individui?”.
“Ma, così, Platone ha travolto nella sua radicale rivoluzione anche Solone”.
“È così, ma Solone temeva il potere arrogante e presuntuoso, mentre Platone aveva conosciuto il potere di pitagorici come Archita di Taranto”.
“Ma Platone è proprio così sicuro e determinato nella sua proposta rivoluzionaria? Tu che l’hai conosciuto bene, pensi che ritenesse veramente possibile realizzare la sua città ideale?”.
“Mi piace molto, padre mio, questa tua domanda e ti dirò che …”.
“Aspetta un momento, figliolo, perché potremmo cercare Platone e fare a lui stesso la domanda? Sicuramente non s’irriterà se riprenderai a fargli domande, come quando ti frequentava in gioventù.”
“Sarebbe molto interessante, ma mi hanno detto che è partito per un lungo viaggio: non ci sarà possibile incontrarlo per un bel po’ di tempo. Noi, però, abbiamo nei suoi scritti molti elementi per impostare una risposta plausibile”.
“D’accordo, Socrate, facciamo così. Da dove cominceresti?”
“Padre mio, comincerei dal Fedro, scritto negli stessi anni della Repubblica. Anche lì c’è un mito bellissimo: è il mito del volo celeste dell’anima verso l’iperuranio, un volo molto difficile, al seguito degli dei che si muovono con la facilità dovuta alla loro natura divina. Soltanto poche anime umane raggiungono la pianura della Verità, ma a fatica e solo in parte riescono a contemplare le realtà che sono sopra la volta celeste. Il mito, analogo a quello della caverna, sottolinea che l’uscita dei filosofi dalla caverna è molto difficile, parziale e per breve tempo”.
“Quindi, i filosofi, tornati nella caverna e messi al potere della città, sanno che la verità delle ombre è fuori della caverna, ma sanno anche che la loro conoscenza non è divina, che la stabilità scientifica della Giustizia resta un ideale, raggiunto sempre solo in parte, da non usare con la sicurezza con cui ci si muove con i numeri e con le figure geometriche”.
“E la guida della città dev’essere affidata a più filosofi che, collegialmente e attraverso il dialogo, cercano di rinnovare il ricordo di ciò che hanno visto fuori della caverna”.
“Apprezzo molto questa misura, che tiene insieme il valore del dialogo e il senso dei limiti umani”.
“Coscienza dei limiti umani che porta Platone a riprendere in considerazione la funzione delle leggi, fino a presentarla come fondamentale nel Critone”.
“Dialogo questo che Platone avrebbe scritto non a ridosso della tua morte, come verrebbe da pensare, ma in età matura, magari quando già aveva scritto o pensava di scrivere l’esperimento mentale della Repubblica”.
“Sì. E questo fatto sarebbe un altro indizio di quanto Platone fosse cauto nel progettare una città in mano ai filosofi senza l’argine delle leggi scritte”.
“Cautela che cresce col passare degli anni, vero?”.
“Sì, padre mio. Infatti, nel Politico, opera della vecchiaia, Platone riconosce il valore delle leggi, perché la forma di governo perfetta, quella che si distingue dalle altre «come dagli uomini un dio», non è di questo mondo. E questo impone che della città ideale ci si accontenti di «seguire le tracce», e, sulla base di queste, si redigano leggi alle quali i governanti devono attenersi. Anche a questo punto, però, con acuto senso del limite, egli osserva che «la legge non potrà mai cogliere ciò che è il meglio e il più giusto esattamente per tutti e stabilire così ciò che è perfettamente conveniente: giacché la differenza che c’è tra i vari uomini e le varie azioni, e l’infinita, inquieta variabilità dei casi umani non permettono che nessuna arte definisca nulla di assoluto che valga per tutti i casi e per tutti i tempi».
“Prudenza anche nel seguire le leggi: non sono da prendere alla lettera”.
“Sì, nessun fondamentalismo, neanche nel ricorso alle leggi, che, però Platone, col passare del tempo, ritiene sempre più importanti. Nelle Leggi, ultima opera, infatti, affida alle leggi la fondamentale funzione educativa. E così la saggezza soloniana è pienamente recuperata”.
“Se, poi, prendiamo in considerazione anche la Lettera VII, Platone si allontana ancor di più dal filosofo della caverna e diventa sempre più chiaro come questi sia solo un momento della ricerca platonica sempre aperta a nuovi dubbi. Socrate, Platone non ti ha frequentato invano: il tuo sapere di non sapere ha influito su di lui in profondità”.
“Sì, padre mio, nella Lettera VII salta agli come al vecchio Platone i limiti della conoscenza apparissero tanto più evidenti quanto più lui cercasse di renderla rigorosa. È un bellissimo testo autobiografico sulla sua vocazione politica e sui suoi tentativi di praticarla con filosofia. Tentativi molto rischiosi e falliti”.
“È vero. Platone non si è risparmiato nell’impegno di realizzare la sua utopia. È andato tre volte a Siracusa e ha poi scritto pagine straordinarie di riflessione sui fallimenti dei suoi progetti, in particolare sul suo rapporto con il giovane tiranno di Siracusa, che gli era stato presentato aperto alla filosofia”.
“Dionigi, invece, convinto di aver capito tutto, dopo un solo incontro, vuol scriverne un testo. Platone in questa sua autobiografia sottolinea il carattere tutto particolare della scienza necessaria a guarire i mali delle città. Scrive:
«Questa non è una scienza che si possa insegnare come le altre: è qualcosa che nasce all’improvviso nell’anima dopo un lungo rapporto e una convivenza assidua con l’argomento, come la scintilla che scaturisce dal fuoco e poi si nutre di se stessa. E so anche questo: che, a voce o per iscritto, io sarei l’unico in grado di esporre queste dottrine nel modo migliore; e che soffrirei molto se mi capitasse di vederle espresse male per iscritto. Ma se avessi ritenuto possibile che simili argomenti dovessero essere scritti per i più in modo adeguato, o potessero essere espressi in parole, che cosa avrei potuto fare di meglio nella vita se non esporli per iscritto, rivelando agli uomini la loro natura e facendo una cosa utilissima a tutti?
Ritengo invece che trattare questi argomenti nel modo che si è detto non sia un bene per gli uomini, tranne che per quei pochi a cui basta solo una piccola indicazione per trovare la strada giusta; quanto agli altri, o ne ricaverebbero un disprezzo ingiusto e fuori luogo o si riempirebbero di una superba e vana presunzione come se avessero appreso cose venerabili».
È pericolosa l’illusione di avere in mano la scienza divina del bene della città”.
“A Platone brucia ancora quel suo fallimento di educazione alla filosofia di un giovane tiranno in cui aveva sperato”.
“Sì, ma trae da quell’amara esperienza un insegnamento generale e scrive:
«Vi è infatti una seria ragione per cui è meglio che nessuno osi scrivere alcunché su questi argomenti, e io l’ho esposta più volte: ma è bene che la ripeta anche ora».
E, servendosi dell’esempio del cerchio, Platone spiega il processo della conoscenza, individuando i diversi elementi che intervengono in questo percorso dell’anima.
Il primo elemento è dato dal nome «cerchio». Il secondo è la definizione: «La figura che dagli estremi al centro ha da ogni punto distanza uguale». Terzo è «l’immagine che si disegna e si cancella». Tutti questi elementi “si riferiscono al cerchio ma…il cerchio in sé… è altro da esse». Quarto è la scienza «la più vicina al quinto elemento», il cerchio in sé.
«Non si giunge a partecipare pienamente della conoscenza del quinto elemento se non si possiedono gli altri quattro. Inoltre, questi elementi tendono a spiegare tanto la qualità quanto l’essenza con discorsi del tutto inadeguati; perciò nessuna persona assennata correrà il rischio di affidare i suoi pensieri ad essi, soprattutto se si tratta di parole immobili, come sono appunto i caratteri della scrittura».”
“Platone, qui, come te, non si fida della scrittura”.
“Si. Platone ripropone qui la diffidenza nei confronti della scrittura espressa nel Fedro. Non c’è affinità tra il movimento vitale dell’anima verso la verità e l’immobilità dei caratteri grafici. Alle difficoltà rappresentate dai quattro elementi della conoscenza, la scrittura aggiunge un’altra difficoltà, come un freno, un arresto, al viaggio dell’anima verso la verità e aumenta i rischi di presunzione. E scrive: «Quando tutti questi elementi – nomi, discorsi, immagini e sensazioni – vengono, con fatica, messi a contatto gli uni con gli altri e discussi con domande e risposte in dibattiti privi di animosità e ostilità, allora l’intelligenza e la conoscenza brillano all’improvviso intorno ad ogni problema, con quell’intensità che è nei limiti delle capacità umane. E’ per questo che ogni persona seria non deve scrivere di cose realmente serie, col rischio di darle in pasto all’ostilità e all’incomprensione degli uomini».
“Se la scienza del cerchio è solo l’estremo mezzo per promuovere la visione del cerchio, a maggior ragione la scienza del bene è solo l’estremo mezzo per muovere l’anima alla visione del bene. L’utopia scientifica esige sì un sapere molto rigoroso, ma questo dev’essere accompagnato dalla chiara coscienza dei suoi limiti”.
“Sì, in Platone coesistono, in equilibrio, due tendenze filosofiche molto diverse: quella del dubbio e del dialogo, della critica ironica al falso sapere e della maieutica, formatasi alla mia scuola, e quella pitagorica del rigore matematico. Molti hanno visto, con entusiastica approvazione o con aspra condanna, in Platone colui che ha fatto della filosofia la scienza regia, come se in Platone l’influenza mia avesse svolto una funzione solo destruens e propedeutica nella prima parte della vita filosofica platonica, per lasciare poi campo libero al rigore pitagorico del sapere su modello geometrico. Ma l’influenza mia è, invece, ben visibile anche nel vecchio Platone che fa il bilancio della sua vita.
La scienza resta uno strumento, anche se il più alto, per muovere l’anima verso la verità. Non può diventarne possesso, appropriazione della verità. Non bisogna trasformare il culto dell’assoluto, l’amore libero per la verità libera, in assolutismo”.
Autore: Giuseppe Bailone ha insegnato storia e filosofia nei licei. Dal 2005 tiene corsi di filosofia presso la Fondazione Università Popolare di Torino. Con Asterios ha pubblicato: Facchiotami, 2021 e Il cammino di Kllipolis. Alla ricerca della politica, 2021.
Nota
[1] Atti degli Apostoli, 4, 32-35.
https://www.asterios.it/catalogo/utopistica