Erdogan potrà impedire il riconoscimento di uno Stato curdo in Siria; Washington, il “Grande Israele” e la lunga fine della fine dell’Impero ottomano

 

Fin dai loro primi passi al governo nel 2002, i neo-ottomani dell’AKP (Partito Giustizia e Sviluppo) avevano tentato di cooptare l’elemento curdo in due modi: in primo luogo, attraverso l’Islam politico e più specificamente con l’ideologia “Noi siamo Turchi e curdi e noi due figli degli ottomani”. In secondo luogo, con la successiva iniziativa di Erdogan per una soluzione politica curda nel quadro dello Stato turco.

In questo contesto si sono svolte trattative informali tra l’allora capo dei servizi segreti turchi, Fidan, e il detenuto Ocalan. In questo modo il partito di Erdoğan era riuscito ad attrarre a livello elettorale la maggioranza dei curdi, che avevano sempre sofferto il regime post-Kemal. Prima del 2020, quando il partito curdo non aveva alcuna speranza di eleggere un proprio candidato, i curdi votavano per l’AKP.

Tuttavia, quando i negoziati per una soluzione politica dell’epoca fallirono e la guerriglia curda si riaccese, i neo-ottomani tornarono nell’impasse dei kemalisti: tentarono anch’essi, senza successo, di risolvere il problema con mezzi militari. Il risultato è stato quello di approfondire la spaccatura che separava l’elemento curdo dallo Stato turco.

Per decenni l’Occidente aveva mostrato una tolleranza piuttosto scandalosa, dando ad Ankara il tempo di risolvere militarmente il problema. I crociati per i diritti umani chiudevano un occhio in nome dell’opportunità geopolitica. Da un momento all’altro, però, hanno cominciato a indicare la necessità di una soluzione politica. Dal momento, infatti, che la Turchia è stata messa sulla via dell’integrazione, si è trovata anche a fronteggiare le pressioni istituzionali dell’UE per l’osservanza delle regole democratiche e il rispetto dei diritti umani. Il clima aveva cominciato a cambiare, da un lato a causa dei metodi repressivi estremi, dall’altro perché la Turchia aveva indirettamente cercato di esportare il suo problema inviando centinaia di migliaia di curdi poveri in Europa.

Per l’ideologia statale turca i curdi erano i “turchi di montagna” ! Oggi questa affermazione è crollata a tal punto che perfino i più irriducibili nazionalisti turchi l’hanno abbandonata. La ferma strategia del kemalismo di assimilare i curdi nella nazione turca è stata definitivamente distrutta. E questo, nonostante ciò sia stato molto facilitato dalla comune religione musulmana e dalla larga prevalenza della lingua turca anche tra le popolazioni curde.

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Coscienza nazionale separata

Il problema curdo, quindi, è eminentemente politico e non è più riconducibile ad una soluzione militare. Anche se l’esercito turco riuscisse a schiacciare i ribelli del PKK, la Turchia non si fermerebbe come Stato di fronte alla richiesta curda di emancipazione e liberazione nazionale. Va notato che, secondo il Servizio statistico turco, dei 75 milioni di cittadini turchi, più di 20 sono di origine curda. La crescita demografica dell’elemento curdo, infatti, è molto maggiore della crescita demografica dell’elemento turco, che sta lentamente ma inesorabilmente modificando il rapporto demografico a favore dei curdi. Presto un cittadino turco su tre sarà curdo, e anche curdi con una spiccata coscienza nazionale, anche se sono soggetti legali nello Stato turco.

C’è una differenza sorprendente tra quelle rivolte e la lotta di liberazione nazionale del PKK. Le prime rivolte curde erano tribali, o avevano un carattere religioso, erano una reazione anche all’abolizione del Califfato. Proprio per questo motivo hanno lasciato spazio al potere kemalista per accompagnare la repressione con politiche di sfollamento forzato e di integrazione dell’elemento curdo nella società turca. Dal momento però che con il moderno movimento di liberazione nazionale i curdi hanno acquisito una coscienza nazionale separata, essi vivono la sovranità turca quasi come un’occupazione.

Ecco perché, di regola, si sono trasformati in oppositori attivi o passivi, visibili o invisibili dello Stato turco. Questo è il motivo per cui le possibilità di raggiungere una soluzione politica mite, che a lungo termine non metta in discussione l’unità della Turchia di oggi, si sono ridotte. Il movimento curdo è di liberazione nazionale e quindi mira a creare uno stato curdo. Il leader storico del PKK detenuto, Öcalan, aveva presentato anni fa, attraverso i suoi avvocati, la proposta di una soluzione politica che avrebbe dato ai curdi l’autonomia all’interno dello Stato turco. Va notato che questa proposta è stata avanzata subito dopo la revoca del divieto di due anni di vederlo dai suoi avvocati.

Erdogan può manovrare su questo fronte, con una recente manovra di apertura ai curdi attraverso Bahceli, ma in realtà non è in grado di percorrere questa strada. I curdi sia in Siria che in Turchia (PKK) hanno fatto propria in primo luogo la richiesta di autonomia (rispettivamente da Damasco e Ankara), cercando in seconda fase la creazione di uno Stato curdo. Il loro modello è lo stato curdo autonomo nel nord dell’Iraq, che in realtà funziona come uno stato semi-indipendente. Si cerca di spingere in questa direzione, ma come in passato il regime post-Kemal, anche il regime di Erdoğan oggi non è nemmeno disposto a discutere una soluzione del genere.

Il movimento armato di liberazione nazionale curdo ha agito da catalizzatore per un più ampio processo di destabilizzazione ed erosione del regime post-Kemal. Al di là di ciò, però, finché il PKK resta in piedi in questa guerriglia pluriennale, i curdi sono i vincitori a livello politico. Sebbene gli insorti nel sud-est della Turchia abbiano subito colpi molto gravi, che li rendono difficili a livello operativo, essi continuano a causare vittime militari, sanguinamento economico, costi politici e, soprattutto, a mettere di fatto in discussione la sovranità dello Stato turco.

L’insurrezione non ha mai cercato di imporsi militarmente sullo Stato turco. Questo era e rimane impossibile. Facendolo però dissanguare a tutti i livelli, ha cercato di delineare i termini di una soluzione politica per i curdi. È ovvio che se ciò accadesse cambierebbe gli equilibri geopolitici nella regione più ampia. Non dimentichiamo che da un lato la Turchia è una potenza regionale e dall’altro è un Paese con un cancro dentro. Temendo che nella congiuntura attuale la coppia israelo-americana stia tramando il riconoscimento di uno Stato curdo, Erdogan ha mescolato le carte in Siria per impedirlo. In primo luogo, ha attivato i fanatici islamici di Idlib controllati da Ankara e, in secondo luogo, sta minacciando una nuova invasione militare della Siria nord-orientale.

In questo periodo, però, la scommessa per il movimento di liberazione nazionale dei curdi è soprattutto politica e riguarda la sopravvivenza e il consolidamento del embrionale Stato che si è costituito negli ultimi anni – con il beneplacito degli americani – nel nord-est della Siria con l’obiettivo di essere riconosciuto a livello internazionale come Stato curdo indipendente. Tutti gli sforzi dei curdi si sono concentrati lì e non a livello di operazioni di guerriglia. Lo sforzo è sostenuto dall’Occidente e da Israele, perché non hanno altro sostegno in Siria.

Questo è il motivo per cui lo Stato profondo americano aveva reagito quando, durante il suo primo mandato, il presidente Trump aveva annunciato – previa consultazione con Erdogan – il ritiro dei soldati americani dal nord-est della Siria. È indicativo che alla fine le forze americane non si siano ritirate. Per lo stesso motivo, nel 2019, Washington — sotto pressione del Pentagono — ha concordato con Ankara la gestione congiunta di una “zona di sicurezza”, al fine di impedire l’invasione militare turca annunciata da Erdogan per catalizzare la creazione di uno Stato curd. Affinché ciò avvenga ha avuto un ruolo anche Israele, che pur non essendo ufficialmente coinvolto, di fatto considera vitale per i propri interessi la creazione di uno Stato curdo e quindi interviene dietro le quinte in questa direzione.


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