Nel saggio vengono discussi quattro temi: la finanziarizzazione, la sua variante digitale, la svalorizzazione del lavoro e il tempo della cura.
Il principale filo rosso de La grande rapina è l’imponente trasformazione operata dal capitale collettivo negli ultimi decenni in Occidente, e i suoi effetti sulle condizioni di lavoro e di vita della classe lavoratrice e delle classi subalterne. Più precisamente, si è cercato di ricostruire le logiche che caratterizzano la genesi e lo sviluppo della finanziarizzazione e del capitalismo digitale.
L’egemonia della finanza e l’uso capitalistico delle tecnologie digitali fondano i nuovi regimi di accumulazione del capitale, che si caratterizzano per la messa a valore delle facoltà riproduttive della forza-lavoro e per la privatizzazione dei Big data. Questa metamorfosi del capitale è analizzata a partire dai presupposti teorici e dai concetti fondamentali che la qualificano.
Il problema centrale analizzato riguarda gli sviluppi e gli effetti della finanziarizzazione e della sua variante digitale, a partire dai mutamenti che investono il campo socio-economico, i rapporti di potere e le condizioni di vita. Fra i più importanti, l’aumento di centralizzazione e di concentrazione dei capitali, l’aumento delle disuguaglianze sociali, la diminuzione della quota salari sulla distribuzione del reddito, la crisi del lavoro riproduttivo e della cura.
I
Nella finanziarizzazione, il primato dei rendimenti finanziari sulla realtà produttiva materializza, al massimo livello di astrazione possibile, il dominio del capitale sulla forza-lavoro e sulla società.
In prima istanza, la specificità del regime di accumulazione di tipo finanziario può essere colta secondo la definizione di Christian Marazzi di “un dispositivo per accrescere la redditività del capitale all’esterno dei processi direttamente produttivi”. Ciò significa un allargamento dei processi di accumulazione del capitale attraverso la messa a valore delle facoltà riproduttive della forza-lavoro.
I contenuti linguistici, comunicativo-relazionali, affettivi che da sempre distinguono il lavoro riproduttivo delle donne, sono fondamentali negli attuali processi di accumulazione. Siamo in presenza di un salto qualitativo della finanziarizzazione nel campo della riproduzione, che sembra potenziare l’appropriazione della soggettività da parte del capitale, o meglio di ciò che per Romano Alquati rappresenta la “capacità lavorativa umana vivente”.
Mentre il lavoro produttivo è scambiato con un salario sempre più basso, il valore economico del lavoro riproduttivo – sia esso salariato o meno – continua in larga misura a non essere quantificato, nonostante il suo contributo sia essenziale tanto per l’accumulazione di capitale che per la riproduzione quotidiana della forza-lavoro.
Contro le conquiste delle lotte operaie e dei movimenti femministi, capaci di imporre al capitale collettivo lo sviluppo di servizi riproduttivi pubblici gratuiti, la logica finanziaria sta imponendo la mercificazione integrale della cura, attraverso la drastica riduzione della spesa pubblica, i tagli ai servizi socio-assistenziali e la privatizzazione dei beni comuni.
È quanto avviene (in modo paradigmatico negli USA, e con minore intensità in Europa) a tutti i livelli e in tutte le tappe biologiche della vita sociale, dall’istruzione alla salute, dall’assistenza alla disabilità alla gestione della sessualità, dalla cura dell’infanzia a quella dell’invecchiamento. Nel capitalismo contemporaneo la cura è sottoposta a una crisi permanente, che si approfondisce tanto più si espande la logica della finanziarizzazione.
In prospettiva storico-politica, due eventi – la crisi sistemica del 2008 e la pandemia –, segnalano una situazione di crisi strutturale di questo regime di accumulazione, da cui l’egemonia delle oligarchie finanziarie e digitali è tuttavia uscita rafforzata.
Da un lato, la governance europea affermatasi negli anni ‘10 ha contribuito a espandere gli interessi dei blocchi di potere espressioni del capitale finanziario, del digitale e della rendita, anche attraverso la cessione di quote crescenti di democrazia e sovranità popolare a organismi sovranazionali. Dall’altro, è proseguito il processo di spostamento della ricchezza dal lavoro alla rendita e si è ampliata l’area del lavoro povero e precario.
La grande rapina rappresenta l’esito e il punto di caduta di quarant’anni di contro-rivoluzione neoliberista, che all’interno dello spazio europeo ha assunto, nei Paesi periferici incluso l’Italia, il volto feroce dell’austerità fiscale, monetaria e industriale.
Un’altra componente chiave dell’articolazione contemporanea del potere, la zona grigia del capitale – costituita dagli enormi flussi di ricchezza detenuti nei paradisi fiscali e dalle pratiche di evasione ed elusione fiscale – ha continuato ad allargarsi senza limiti e ostacoli. Si tratta di mercati, prodotti e strumenti finanziari che, anche grazie a politiche fiscali di tipo regressivo e a misure ad hoc per favorire le multinazionali e la rendita, formano un’immensa massa di capitali non tassati o soggetti ad aliquote ridottissime rispetto a ricavi e fatturati.
Dentro le profonde trasformazioni operate dal capitalismo finanziario e digitale, i grandi operatori finanziari si sono affermati come intermediari universali del capitale, rafforzando in maniera decisiva il processo di centralizzazione e di concentrazione dei capitali. Negli ultimi anni, secondo le stime di Alessandro Volpi, i primi dieci fondi sono arrivati a gestire 44.000 mld di dollari (pari a circa un quinto del PIL mondiale) e a detenere una quota compresa fra il 30 e il 40% delle prime 500 società mondiali.
Le solide conferme empiriche alla legge di tendenza di centralizzazione dei capitali di Marx, raccolte su scala globale e nazionale dal gruppo di ricerca coordinato da Emiliano Brancaccio, pongono sfide e interrogativi cruciali. Questa dinamica, infatti, è una delle ragioni principali della politica di disallineamento strategico, del neoprotezionismo e dell’uso di strumenti non convenzionali di guerra commerciale e finanziaria promossi dagli USA contro i Paesi considerati ostili.
Il tentativo degli USA è teso a rallentare la crisi della loro posizione egemonica, bloccando le acquisizioni estere – in particolare cinesi – di imprese statunitensi, rese possibili proprio dalla espansione su scala globale della centralizzazione del capitale.
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II
L’altro grande tema che caratterizza la metamorfosi del capitale è l’uso capitalistico della tecnologia digitale, e l’emergere di un regime di accumulazione fondato sulla privatizzazione e sulla mercificazione dei Big data.
La variante digitale della finanziarizzazione indica il nuovo regime di accumulazione dei grandi oligopoli del capitalismo digitale occidentale, la cui genesi è data dall’«accumulazione originaria» realizzata da Big Tech sui dati prodotti dagli utenti.
La digitalizzazione e l’automazione contribuiscono in modo decisivo a ridisegnare la divisione internazionale del lavoro, esternalizzando su scala globale una vasta gamma di prestazioni. Ne consegue, come effetti principali, l’aumento della concorrenza fra lavoratori digitali, il livellamento verso il basso delle condizioni di lavoro e delle renumerazioni.
Per mezzo dell’applicazione dell’IA e degli algoritmi nei processi lavorativi e nell’organizzazione del ciclo produttivo, si produce un aumento dei ritmi e dell’intensità del lavoro vivo. Al tempo stesso, l’innovazione è usata dalle piattaforme digitali per aumentare all’estremo la precarizzazione della forza-lavoro.
Più in generale, l’uso capitalistico della tecnologia digitale determina una metamorfosi del rapporto di lavoro e delle forme di sfruttamento. Infatti, la digitalizzazione del lavoro provoca la trasformazione della natura della prestazione lavorativa, che viene parcellizzata in tante micro-operazioni sottopagate, e accentua la invisibilizzazione del lavoro stesso, sempre più concepito dalle piattaforme come mera appendice dell’IA. Gli obiettivi strategici perseguiti dalle piattaforme digitali sono la disintermediazione della prestazione lavorativa e la negazione della natura salariale del rapporto di lavoro.
Come è avvenuto in tutte le precedenti rivoluzioni tecnologiche, il capitale collettivo si avvale dell’innovazione per ridurre la quota di lavoro pagato, ma lo realizza in maniera più radicale e distruttiva. Più delle grandi innovazioni tecnologiche del passato, l’applicazione del digitale, della robotica e dell’IA rischia di determinare una generale svalorizzazione del lavoro.
La tendenza dominante che si è affermata nell’uso capitalistico della tecnologia digitale può essere così descritta: lungi dal favorire autonomia lavorativa e forme intelligenti di cooperazione, le tecnologie digitali producono in generale un’estensione della quantità di lavoro sociale necessario e una parcellizzazione delle fasi lavorative. L’uso capitalistico delle tecnologie digitali, invece di risolversi in un aumento del tempo libero e della ricchezza sociale a disposizione di tutti e tutte, si rovescia per lo più sotto la forma di lavoro cognitivo povero, ripetitivo e alienato.
III
La svalorizzazione del lavoro va colta a partire dal legame fra i processi di accumulazione del capitale di tipo finanziario e digitale con l’impoverimento e la precarizzazione della classe lavoratrice e delle classi subalterne. Le logiche del capitalismo finanziario e digitale hanno riconfigurato in profondità e con violenza, materiale e simbolica, i rapporti di forza fra classi nel sistema-mondo, contribuendo in maniera decisiva alla riduzione delle tutele contrattuali, all’aumento del grado di sfruttamento lavorativo e alla diminuzione della quota salari.
Il contesto di riferimento scelto per analizzare queste tendenze è quello italiano, caso paradigmatico anche per la rapidità e l’estensione con la quale si è realizzato il processo di trasferimento della ricchezza. L’impoverimento della classe lavoratrice in Italia, senza eguali fra i paesi OCSE, è comprovato da una serie di indagini e rilevazioni statistiche ed è databile dai primi anni ‘90.
Oltre all’aumento della precarizzazione, sulle condizioni salariali e sulle tutele della classe lavoratrice hanno influito in negativo numerosi fattori. Fra queste, spiccano l’offensiva anti-sindacale e la crisi del sistema di contrattazione.
Dai ritardi strutturali dei rinnovi contrattuali nazionali alla mancata applicazione dei minimi salariali, dall’aumento dei contratti pirata e concorrenti alla crescente incidenza di contratti nazionali leader in cui i minimi tabellari sono inferiori alla soglia di povertà, sono diverse le criticità e i limiti con cui si confronta l’azione sindacale.
Queste difficoltà vanno contestualizzate dentro il trentennale declino produttivo italiano, con l’affermazione di un paradigma economico sempre più spostato verso la rendita e i servizi alle imprese.
Nel suo insieme, dopo la crisi sistemica del 2008, il capitalismo italiano si è sempre più collocato nella cosiddetta via bassa dello sviluppo capitalistico. Nel sistema di imprese e di distretti industriali e manifatturieri ha prevalso una competizione al ribasso sui mercati, basata sulla compressione del costo del lavoro e sull’estrazione di plusvalore assoluto, più che sull’innovazione dei processi e dei prodotti.
Lato lavoro, fra le peculiarità che caratterizzano la condizione della classe lavoratrice in Italia, rientrano da una parte l’ampia quota di forza-lavoro occupata nell’economia sommersa e criminale, dall’altra la diffusione di forme di grave sfruttamento lavorativo e di caporalato.
Dal confronto fra dinamica salariale e redditività del capitale, l’elemento di fondo che emerge – ancor di più dopo la pandemia e l’inflazione da profitti del 2021-2022 – è un differenziale molto ampio, tale da legittimarne la definizione nei termini di una vera e propria rapina di classe.
IV
L’impoverimento e la precarizzazione delle condizioni lavorative e di vita provocate dal capitalismo finanziario e digitale impongono un cambio di paradigma, una vera e propria transizione sistemica.
Transizione sistemica che in Occidente assuma come obiettivi di fondo la proprietà e l’uso comune dei mezzi di produzione e riproduzione, una distribuzione egualitaria della ricchezza sociale, differenti finalità cui ispirare le attività produttive e riproduttive, la cura di sé, degli altri e della natura, una nuova ripartizione dei tempi di vita e di lavoro.
Una transizione sistemica immaginabile a partire dalla centralità della pianificazione, intesa come strumento di politica economica in grado di controllare il mercato ed esprimere al massimo grado la supervisione politica e pubblica sui fattori di produzione e riproduzione.
Attorno alla pianificazione, si delineano quattro temi: redistribuzione della ricchezza e del tempo di lavoro, proprietà e uso collettivo dei Big data, reddito di base, socializzazione del lavoro riproduttivo.
Per contrastare la svalorizzazione del lavoro e l’impoverimento della classe lavoratrice, è urgente sviluppare pratiche e campagne che assumano come centrale la questione salariale. Le proposte potrebbero orientarsi su tre assi rivendicativi: introduzione di meccanismi analoghi alla scala mobile, riduzione generalizzata dell’orario di lavoro a parità di salario, salario minimo legale.
Tuttavia, poiché tipologie essenziali del lavoro contemporaneo sfuggono alla forma salariale e a una regolazione contrattuale standard, è necessario prevedere anche strumenti di altro tipo, a partire dalla rivendicazione di un reddito individuale sganciato dall’attività lavorativa. Solo nella misura in cui sia l’esito di un processo di convergenza di diversi fronti di lotta, il reddito di base può però davvero sostenere un modello alternativo di distribuzione della ricchezza sociale.
Parte del finanziamento per un reddito di base incondizionato potrebbe essere prelevato da due fonti: una incisiva tassazione sui profitti di Big Tech e/o una tassazione di tipo progressivo sul valore dei Big data, e un altrettanto radicale contenimento del capitale offshore.
Reddito di base da intendersi, sulla base delle rivendicazioni e delle pratiche dei movimenti femministi, come reddito di autodeterminazione per il lavoro riproduttivo, come riconoscimento del valore economico delle attività che generano, assistono e sostengono la vita, che ricostituiscono la forza-lavoro su base quotidiana.
Infine, lo smantellamento del Welfare state segnala un limite immanente di tipo sistemico. Come suggerisce una consistente letteratura femminista – a partire dai contributi pionieristici di Silvia Federici e Mariarosa Della Costa –, la crisi della cura deriva dalla tendenza del capitale a disporre di quanto più lavoro riproduttivo gratuito possibile, senza però garantire le condizioni per rigenerarlo, per renderlo sostenibile né da un punto di vista del reddito che di senso.
Ecco perché è urgente sviluppare un diverso paradigma della cura, che non rappresenti però il ritorno al Welfare state novecentesco fondato sulla divisione sessuata del lavoro. In questo senso, occorre sviluppare alleanze, legami e convergenze fra esperienze mutualistiche, pratiche cooperative e politiche pubbliche di cura.
La pianificazione potrebbe aprire spazi e fornire opportunità materiali per ripensare la dimensione qualitativa del tempo di vita, rendendo concretamente fattibile una riorganizzazione della vita quotidiana al servizio dei bisogni e degli interessi non solo dei produttori e delle produttrici, ma anche dei fruitori dei servizi e di chi svolge attività riproduttive.
Contro e oltre il dominio del capitale, solo una prospettiva di pianificazione, guidata da una nuova intelligenza collettiva, può porre le condizioni necessarie per affermare il libero sviluppo dell’individuo sociale e far crescere un nuovo tempo della cura.
Autore: Andrea Cagioni, laureato in sociologia, si occupa di ricerca sociale. Ha maturato una vasta esperienza in ambito cooperativo e sindacale, dedicandosi a progetti e indagini sul campo riguardanti lo sfruttamento lavorativo e sessuale, l’immigrazione, il digitale, il lavoro. Negli ultimi anni, ha approfondito la ricerca teorica ed empirica sui processi di trasformazione del capitalismo e delle condizioni lavorative.