Diventare uno straniero in un mondo che cambia

 

Il rifiuto, la prigionia e la morte degli stranieri considerati alieni sono il contesto, e per molti la vergogna e il fallimento, degli europei di oggi. Ogni giorno, i morti nel Mediterraneo chiedono soccorso, per il quale altri popoli diventano ospitali, in mare e nelle città, anche se tutta l’immaginazione e la mobilitazione degli abitanti non compenserà l’ostilità dei loro Stati nazionali. Cosa ci vorrebbe per allontanare lo spettro dello straniero assoluto e radicalizzato, lostraniero, e sostituirlo con lo straniero che ha pari diritti perché appartiene allo stesso mondo? Nient’altro che spingere i tre cursori verso l’alto: più libertà di movimento; più diritto di appartenenza (fino all’appartenenza all’intero pianeta, una cittadinanza che si muove con le persone, l’ho chiamata cittadinanza nomade); più conoscenza e riconoscimento degli altri e delle culture condivise.

Tra il 2000 e il 2018, 35.000 persone sono morte nel Mediterraneo, il mare condiviso da Europa, Africa e Medio Oriente. È una strage che la storia ricorderà, ed è la prova fisica di un disturbo che dovrebbe preoccuparci: una parte dell’umanità è, ancora oggi, trascurabile, dimenticabile, sacrificata senza mai essere sacra. È quindi necessario interrogare la figura dello “straniero”, di questo “altro”, che non è né più né meno di noi.

In Europa, a partire dagli anni Duemila e in modo più significativo dal 2015, la tragedia dei migranti alle frontiere ha continuato a crescere. I governi hanno cercato di proteggere i loro cittadini identificando i migranti come una minaccia alla sicurezza e all’identità dei loro Paesi.

Muri, espulsioni, controlli di massa, presenza dissuasiva della polizia, chiusura dei porti alle scialuppe di salvataggio… dovrebbero rassicurare gli abitanti impauriti, cittadini pronti a rinunciare a parte della propria libertà di fronte allo spettro di stranieri pericolosi, predatori e approfittatori, anche a costo di privarli dei diritti umani che i nostri Paesi considerano universali, o addirittura di lasciarli morire.

Mentre ogni angolo del mondo conosce la foto del piccolo Aylan, che assomiglia tanto al mio amato bambino, addormentato, rannicchiato, il 3 settembre 2015 su una spiaggia turca, sappiamo meno, o sentiamo meno forte, cosa significa la cifra di 35.000 morti tra il 2000 e il 2018 nel Mediterraneo – questo mare che è comune a tutti noi, Mare Nostrum, comune anche all’Europa, all’Africa e al Medio Oriente. Cosa abbiamo fatto per accettare di convivere con questo massacro quotidiano che la storia ricorderà?

Il Mediterraneo, il Sahara, il deserto messicano e il Golfo del Bengala sono diventati le tombe dell’universale, la prova fisica di un disordine antropologico globale. È questo disordine che dovrebbe preoccuparci, inquietarci, anzi spaventarci: una parte dell’umanità è trascurabile, dimenticabile, sacrificata senza mai essere sacra (come l’ha definita Agamben, Homo Sacer), meno umana, come se stessimo tornando al tempo della colonizzazione europea del mondo, nel XV secolo, quando i bianchi si chiedevano se gli amerindi e i neri avessero un’anima umana. Com’è possibile? Come può lo straniero essere così radicalmente altro (radicale, da radix: radice)?

È questa la domanda su cui vorrei che rifletteste, ma in modo più spassionato, senza dirvi quello che alcuni sostengono, cioè che non ci sono confini, o che dovrebbero essere aboliti, e che nessuno sul pianeta è straniero. Al contrario, la mia riflessione non si basa su un’utopia ma su una constatazione, la constatazione che tutti noi siamo sempre più spesso stranieri nel mondo, confrontandoci sempre più spesso con ogni tipo di frontiera, amministrativa e geopolitica, sociale, linguistica, religiosa, ed è così che partecipiamo a questo mondo in movimento. A seconda della situazione, li attraversiamo o ci blocchiamo, il che mi porta a chiedere: come si diventa stranieri e come si smette di esserlo?

Si potrebbe dire che tutti nasciamo stranieri, ovvero che lo diventiamo non appena “arriviamo nel mondo”.

L’ospitalità e l’ostilità sono due facce della stessa medaglia (Jacques Derrida ha parlato di “hostipitality”). Questa vicinanza crea disagio e malessere, ed entrambe sfidano la figura dello straniero come “intruso”: “Deve esserci un intruso nello straniero, altrimenti perde la sua estraneità”, dice Jean-Luc Nancy. Accogliere lo straniero deve anche significare vivere la sua intrusione. Il più delle volte non vogliamo ammetterlo […]. (Una) correzione morale presuppone che accogliamo lo straniero cancellando la sua estraneità sulla soglia: richiede quindi che non lo abbiamo accolto affatto. Ma l’estraneo insiste e si intromette. Questo non è facile da ricevere, né forse da concepire”[1].

Durante e oltre l’atto iniziale di ospitalità, la concezione che ognuno ha dello straniero viene sperimentata, provata e trasformata ogni giorno. La padrona di casa che accoglie lo straniero è in grado di misurare in termini molto concreti i diversi regimi e gradi di estraneità dell’altro. È da questa posizione, da un’antropologia non dello straniero ma della relazione che si instaura (o meno) tra “me” e lo “straniero”, tra “noi” e i migranti, che vorrei condurre questa riflessione. Straniero, sì, ma in che modo, e straniero a cosa?

Per l’antropologo Julian Pitt Rivers[2], la domanda è: come si fa a rendere ospite uno straniero? E cita vari rituali, regole di luogo, temporalità e scambi. Ma nell’Andalusia degli anni Cinquanta, lo straniero era quello del villaggio vicino, e nella provincia di Torino del XVIII secolo (secondo la storica Simona Cerutti), lo straniero proveniva dalla città o dalla provincia vicina, e la storica aggiunge che lo straniero non era necessariamente un “altro culturale”[3]. Al contrario, oggi in Francia, come in Italia, alcune persone di colore sono di nazionalità francese o italiana, eppure sono trattate come gli stranieri più radicali, addirittura estranei al genere umano, essendo il razzismo – attraverso la sua lettura biologica del sociale – la forma più esacerbata di rifiuto.

Rispondere alla domanda “Chi è lo straniero?” non è quindi affatto scontato. È meglio chiedersi come si diventastranieri. Si potrebbe dire che non si “nasce” stranieri e che lo si diventa a certe condizioni, naturalmente, ma si potrebbe anche dire che tutti nasciamo stranieri, cioè che lo diventiamo non appena “veniamo al mondo”.

Questo sarebbe un primo modo di disturbare le nostre certezze: sapere che diventiamo stranieri dal momento della nascita, quando lasciamo il caldo e buio grembo materno per “ venire alla luce”, “ arrivare nel mondo” e scoprire con un grido l’ostilità o l’ospitalità dell’aria, degli sguardi e delle braccia che ci accolgono, e quindi tutta la vita consiste per ciascuno di noi nel cercare di essere un po’ meno straniero al mondo, questo è ciò che chiamiamo la socializzazione dei bambini. Ma se questo è vero e profondamente antropologico, vorrei comunque suggerire di accelerare i tempi e di arrivare a ciò che ci interroga oggi, soprattutto in Europa, quando vogliamo pensare al nostro rapporto con i migranti. Si tratta di decostruire e ricostruire la condizione di straniero.

Come si diventa stranieri? Arrivando da altrove, da fuori, e disturbando, anche inconsapevolmente, ogni ordine stabilito dei luoghi: l’ordine della casa, del villaggio, del quartiere, della città, dello Stato. In questo caso, l’estraneo è lo straniero, la persona che arriva.

Si diventa stranieri attraversando un confine amministrativo, istituzionale o giuridico: è l’estraneità che rendestraniero lo straniero, la persona che è definita dalla sua relazione (o dalla mancanza di relazione) con lo Stato del luogo da cui proviene e che ha bisogno di diritti per avvicinarsi, passo dopo passo, alla cittadinanza.

Diventiamo stranieri quando lasciamo ciò che ci è familiare e scopriamo un altro mondo dove tutto sembra strano e dove tutto deve essere reimparato: questa è l’estraneità relativa dellostraniero.

Ho già accennato a uno stato “radicalmente” altro, cioè altro alla “radice”, apparentemente al limite dell’umano, o addirittura alienato da un mondo completamente diverso, che permette di essere invisibile, e dal quale si scatenano le peggiori fantasie, la finzione e persino la fantascienza della persona che non conosciamo: questa è la radicalitàdell’estraneo assoluto (lostraniero). Approfondirò un po’ ciascuna di queste concezioni dell’estraneo, che dovrebbero permettere a tutti di riconoscersi in questi ritratti, anche se sto parlando di estranei.

L’estraneo è descritto attraverso una rappresentazione geografica che a volte può diventare disumanizzante, a furia di flussi, frecce, azioni e limiti spazializzati.

Lo straniero che arriva, l’outsider, è innanzitutto semplicemente il nome di un’esteriorità, che incarna la mobilità in generale (il viaggio, il mondo) e un “fuori” indeterminato. Questa accezione del termine è senza dubbio quella che vediamo più spesso oggi: è la persona che arriva da un altro luogo senza che ci si conosca già, in un modo o nell’altro. L’estraneo è descritto attraverso una rappresentazione geografica che a volte può diventare disumanizzante, a forza di flussi, frecce, scorte e limiti spazializzati.

Questa definizione evoca l’esteriorità, in relazione al consolidato, e si invocano innanzitutto le nozioni di spazio, luogo e territorio. Nel modo più tecnico possibile, potremmo dire che lo straniero che arriva è un “intruso” che, come un corpo estraneo, impone la sua presenza all’assetto stabilito di cose, luoghi e persone. Deve trovare un posto in un ordine locale che esisteva già prima del suo arrivo. Con Jean-Luc Nancy, possiamo dire ancora una volta che sarebbe sbagliato negare loro questa intrusione, che li rende immediatamente ed evidentemente stranieri.

Chi si è stabilito da qualche parte guarda a chi arriva come a un estraneo, a un forestiero : il mistero è totale, non si sa da quale Paese venga, da quale villaggio vicino, da quale lingua o cultura provenga. E lo straniero che arriva è, da parte sua, colui che è e sarà stato, anche se solo una volta, questo intruso, e che conserverà sempre una traccia fisica, linguistica, sociale, psicologica e memoriale della sua iniziale esteriorità, forse ancestrale o addirittura dimenticata dopo diverse generazioni.

La versione identitaria di questa geografia dell’estraneo esaspera questa definizione di straniero, che a prima vista può sembrare la più neutra, facendo riferimento al territorio e alla finzione dell’autoctonia. Quasi ovunque, le opposizioni si riferiscono all’iscrizione territoriale di alcuni e all’intrusione fisica di altri, con elementi naturalizzanti e biologizzanti: parliamo di “nativi” (“venuti dalla terra”) e “stranieri” secondo i termini usati in Europa; di “indigeni” e “coloni” nella storia delle Americhe; o di “nativi” e “allogeni” (“provenienti da altri geni”) nell’Africa occidentale di oggi. Ma i contesti storici sono decisivi e talvolta conferiscono alle stesse parole un significato inverso (ad esempio, autoctonia in Europa e nelle Americhe). La complessità aumenta man mano che il mondo diventa più mobile e tutti noi ci confrontiamo con questa condizione dioutsider. Se ci muoviamo di più, allora siamo sempre più estranei. Ma questo non significa automaticamente che siamo estranei anche nelle altre due dimensioni del diventare estranei, in particolare quella giuridica, di cui parlerò ora.

Un secondo concetto di straniero è quello di appartenenza o, più precisamente, di “non appartenenza”[4]. È la mancanza di appartenenza a un particolare gruppo familiare o clanico, a una comunità di villaggio, a una provincia, a una città o, oggi, a uno Stato nazionale, a determinare i diversi gradi diestraneità dello straniero in quanto straniero.

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La condizione di straniero determinata dall’estraneità è modulare e flessibile. Lo vediamo dall’indagine della storica Simona Cerruti sugli archivi della città di Torino nel XVII e XVIII secolo (la città faceva allora parte degli Stati sabaudi). Essere stranieri, dice, è una condizione, non un’identità. Si tratta addirittura di una “condizione temporanea” nella vita di un individuo che dipende dal suo grado di estraneità, cioè “il fatto di essere estraneo a un ordine sociale e all’autorità che lo governa” o estraneo a una “comunità” paesana o urbana. Da un punto di vista giuridico, l’estraneità è l’insieme delle norme che determinano i diritti di cui godono gli stranieri nel Paese ospitante.

Si tratta dell’accesso degli stranieri ai diritti di un luogo di cui non sono cittadini: diritti civili, diritti di proprietà, diritto al lavoro e così via. Sappiamo che, a seconda del Paese o della nazionalità dello straniero, alcuni di questi diritti possono esistere o meno. La “mancanza di appartenenza” è variabile su una scala definita dal fatto di avere determinati diritti e doveri rispetto a quelli della piena appartenenza, che è quella del “cittadino”. Gli stranieri sono quindi individui la cui cittadinanza è incompleta. Lo dimostra il “diritto d’occasione” concesso al Principe sugli stranieri negli Stati savoiardi nel XVIII secolo. A determinate condizioni, il governo di una provincia aveva il diritto di appropriarsi dei beni di uno straniero morto sul suo territorio.

La posta in gioco era la possibilità di inserimento, cioè di dare allo straniero un posto nella società. Troviamo questo significato nell’inglese foreigner, come ho detto, ma anche nello spagnolo forastero o nel francese forain: nel francese antico, il forain è “il forestiero del villaggio”, “la persona che non è del luogo”, infine il mercante da fiera. L’appartenenza non è semplicemente una questione di diritti legali, ma piuttosto di diritti da un punto di vista sociologico più generale, quello del posto dello straniero in una determinata organizzazione sociale. Ad esempio, la figura del commerciante, come descritta nelle ricerche sul commercio a distanza nell’Africa precoloniale: la persona che non fa parte di un gruppo sociale è quella che può commerciare, perché non è invischiata nei cicli locali di scambio, non è invischiata nei cicli di dono e contro-dono, e può quindi ricevere denaro in cambio dei beni che fornisce.

Il commerciante straniero è una funzione essenziale dell’esistenza delle società africane e l’ho studiato nel funzionamento contemporaneo di una diaspora mercantile, quella dei commercianti Hausa dell’Africa occidentale, organizzata a livello transnazionale. Ciò che mi ha colpito, oltre all’esistenza di un’organizzazione sociale del gruppo commerciale straniero, è stata la graduale trasformazione del posto degli individui all’interno del gruppo, nella città (in questo caso Lomé, la capitale del Togo) e nel Paese. Al momento delle mie indagini, più della metà di questi “stranieri Hausa” erano nati a Lomé, e questo valeva per i tre quarti di coloro che avevano meno di quarant’anni, che non avevano alcuna conoscenza del loro Paese d’origine, parlavano il francese e l’ewe (le lingue ufficiali del Paese e di Lomé), studiavano e si sposavano al di fuori del gruppo straniero più spesso dei loro anziani.

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Essere stranieri non significa non avere relazioni, tutt’altro. Sposarsi al di fuori del clan, commerciare al di fuori del ciclo commerciale, praticare alcuni mestieri specifici: nell’Africa precoloniale o contemporanea, come nella Torino dell’Ancien Régime, c’è bisogno di questo straniero, dello straniero, e la sua condizione cambia.

Come ha dimostrato il sociologo Georg Simmel, possono essere arrivati ieri e non partire domani, ma non hanno perso la loro “libertà di andare e venire”. Questa libertà può costituire la base di una propria cultura distintiva, in altre parole un ethos dello straniero, una condizione fatta di cultura, in un certo senso.

Ma restiamo per un momento su questa dimensione della condizione dello straniero, l’estraneità, di cui abbiamo parlato dal punto di vista del diritto o della politica. Simmel, da parte sua, evoca “la forma sociologica dello straniero”, che associa la mobilità alla libertà[5]. Questa libertà è in qualche modo il lato positivo della “mancanza di appartenenza” di cui ho appena parlato. Inoltre, in questo caso lo straniero non è più necessariamente un estraneo. È presente nella società, nella città, ma come “viaggiatore potenziale”, una posizione molto singolare per lo straniero che può anche far parte del gruppo stesso, ma la cui appartenenza (o mancanza di appartenenza) assume la forma di un’apparente esteriorità o di una traccia di esteriorità. Inoltre, Georg Simmel spiega che l’assenza di un “legame organico” (parentale, locale, professionale) permette l’“oggettività dello straniero”. E fa l’esempio delle città italiane del passato, che “facevano ricorso a giudici venuti da altrove, nella misura in cui nessun cittadino era sufficientemente libero da legami familiari o da interessi faziosi” per poter giudicare oggettivamente, in piena libertà. Oggettiva, libera, intermedia, intermedia, la partecipazione particolare dello straniero è “simile all’oggettività dell’osservazione teorica”, come dice ancora il sociologo.

Sempre un po’ decentrato, lo straniero occupa così una posizione di conoscenza prendendo il posto dell’osservatore, per il quale il confine può essere un “metodo” (questo è il significato di “ confine come metodo ” di Sandro Mezzadra e Brett Neilson, 2013). Ma questa è una posizione rischiosa. Lo straniero può sempre essere visto come un emissario del “partito dello straniero” e sarà criticato per la sua mancanza di lealtà. La dimensione culturale e antropologica dello straniero, che vorrei ora affrontare, è chiaramente intrecciata.

Evoca l’alterità e corrisponde alla doppia estraneità dello straniero nella lingua inglese: la mia in relazione agli altri e quella degli altri nei miei confronti, lo straniero. In altre parole, riguarda tutto ciò che non ci è familiare: “People are strange when you’re a stranger” cantava Jim Morrison. E viceversa, tutto sembra strano nell’atteggiamento di un estraneo. La tentazione di congelare, essenzializzare ed “etnicizzare” questa stranezza è grande, come possiamo vedere nell’Europa di oggi: è un atteggiamento un po’ pigro, che si accontenta di cliché e facili stereotipi, rifiutando tutti i vantaggi delle relazioni e dello scambio. È l’esatto contrario di quello che stiamo facendo qui.

Se guardiamo al di là della differenza linguistica o etnica, accediamo a quella che viene generalmente chiamata alterità culturale, ma questa non è mai data una volta per tutte, ed è per questo che preferisco vederla come una “estraneità relativa”[6], in continua trasformazione. La mia antropologia non nega il valore dell’analisi strutturale, ma vuole dare un posto essenziale al movimento, alla dinamica del cambiamento.

Vorrei ricordare brevemente un esempio newyorkese, quello del sociologo ebreo austriaco Alfred Schutz, esiliato negli Stati Uniti nel luglio del 1939, dove si stabilì con la famiglia e visse fino alla morte, avvenuta vent’anni dopo. Come sociologo emigrato, ha attinto alla propria esperienza per riflettere sulla fenomenologia dello straniero, ossia sugli adattamenti, le interpretazioni e gli apprendimenti che gli stranieri sperimentano ovunque. È interessato al modo in cui i modelli culturali si intersecano e si sovrappongono, in parte per generare un nuovo, sincretico e singolare “modo di pensare abituale”. Lo straniero arriva nella nuova situazione con un modo di pensare che sembrava ovvio e naturale, e deve orientarsi in un “nuovo modello culturale” (lingua, costumi, leggi, folclore, mode, ecc.), deve capirlo per poterlo usare. È lo straniero nel labirinto.

Se vogliamo mantenere questa immagine dell’alterità dello straniero senza ridurla a una determinata identità etnica, e cercare invece di generalizzarla e universalizzarla, diremo che la migliore definizione di questa estraneità è proprio il labirinto, cioè la difficile prova di comprendere un nuovo luogo e di sapere come vivere e agire secondo le sue regole. Da questa prova, lo straniero trae due caratteristiche fondamentali: da un lato, l’obiettività e l’“intelligenza del mondo” (ha scoperto che “il modo di vivere normale è ben lungi dall’essere sicuro come sembra”), dall’altro, una “fedeltà ambigua”: riluttante o incapace di sostituire completamente un modello culturale con un altro, lo straniero è un “ibrido culturale che vive al confine di due diversi modelli di vita, senza sapere verso quale debba andare”[7].

Oggi ci sono molti più processi di questo tipo rispetto ai tempi delle digressioni dei sociologi Schutz e Simmel. In un ambiente sempre più cosmopolita in cui tutti sono coinvolti, l’equilibrio tra estraneità e familiarità è una prova comune. Dalle “situazioni di contatto” studiate dagli etnologi in epoca coloniale, quando si studiavano gruppi umani che non erano realmente isolati, si passa oggi, nel mondo della globalizzazione, a una generalizzazione delle situazioni di confine. È come se scoprissimo sempre qualcosa di strano, qualcuno di estraneo a noi. È su questo che dobbiamo riflettere e anche accettare, e naturalmente non è facile. Pensare a questa condizione di estraneità in tutta la sua complessità e dinamica costante può aiutarci non solo ad accettarla, ma anche a trarre da questa relazione tutta la ricchezza che ci porta.

L’immaginario estetico e politico costruisce lostraniero come un “altro” assoluto, radicale, che non è altro che noi stessi al fondo del diritto alla mobilità, dei diritti civili e delle relazioni culturali.

Le tre definizioni di straniero che ho descritto – l’esteriorità dell’estraneo, l’estraneità dello straniero, l’estraneità dello straniero – si riferiscono quindi a tre frontiere – geografica, socio-politica, culturale – che si incontrano regolarmente nella nostra vita, ogni volta che ci spostiamo, sia per piacere che per necessità o addirittura per urgenza. Tutti noi viviamo questa estraneità come una fase più o meno lunga e temporanea della nostra vita. La nostra identità non si riduce a questa condizione temporanea e mutevole, ma ne viene plasmata e diventa più ibrida nel corso di queste prove di estraneità. Questa condizione di straniero, che è, in questo senso e nonostante l’apparente paradosso, tanto universale quanto relativa, è una combinazione sempre singolare delle sue tre “parti” che ho citato – geografica, socio-giuridica e culturale.

Immaginiamo ora un cursore che si muove verso l’alto o verso il basso lungo ciascuna parte dell’asse: all’esterno, si va dal confino extraterritoriale, dai campi e dai centri di detenzione (in basso) all’apertura dello spazio e alla libera circolazione su tutto il pianeta (in alto); dal punto di vista dell’estraneità, si andrebbe dalla totale mancanza di diritti di appartenenza (al minimo) alla piena cittadinanza (al massimo); e nel caso dell’estraneità, si passerebbe dall’estrema invisibilità della propria persona e della propria cultura (al minimo) al pieno riconoscimento e alla comprensione da parte e con gli altri (al massimo). La maggiore o minore intensità positiva o negativa di ciascuna di queste tre concezioni, e la loro combinazione, determinano e relativizzano le diverse rappresentazioni, i contesti e il trattamento di ogni persona straniera nel mondo contemporaneo.

Ciascuno può collocarsi, come vuole e in base alle proprie esperienze, su un gradiente o sull’altro di ciascuno dei tre assi della condizione di straniero – essere più o meno a casa ovunque, avere più o meno diritti in tutti i Paesi, incontrare più o meno riconoscimento culturale ovunque sulla terra.

Se spingiamo i tre cursori verso l’alto su ciascun asse, raggiungiamo la vita buona e felice del cittadino del mondo ovunque sulla terra, una vita che nessuno ancora conosce nella sua interezza ma che possiamo ben immaginare (soprattutto se siamo, ad esempio, bianchi, europei e maschi): questa sarebbe la forma concreta dell’utopia cosmopolitica che è stata promossa fin dal secolo dei Lumi.

Ma se tutti possono “salire” lungo questa trasformazione da straniero a cittadino cosmopolita (e quindi, se vogliamo, andare verso la scomparsa dello straniero, nel senso che potremmo dire che “nessuno è straniero sulla terra”), tutti possono anche scendere verso il più basso dei tre assi, a seconda di dove sono nati, dove vivono e in quale contesto. Quello che voglio suggerire con questa rappresentazione pittorica di assi e cursori è che non cambiamo il nostro mondo, e nemmeno la nostra identità, quando i tre cursori collassano insieme nel loro punto più basso e formano la figura opposta ma simmetrica a quella della felicità cosmopolita: quella dello straniero assoluto, invisibile, senza diritti, bloccato alla frontiera, e che può anche essere lasciato morire.

Ne deriva una quarta figura, sotto forma di spettro o fantasma, che può essere assimilata alla finzione dellostraniero. L’immaginazione estetica e politica costruisce lostraniero come un “altro” assoluto e radicale. Ma questo altro non è altro che noi stessi, al fondo del diritto alla mobilità, del riconoscimento dei diritti civili e delle relazioni culturali.

In inglese, è lostraniero illegale. È anche l’immagine più generica di uno straniero che appartiene a un altro mondo, a un altro universo, non umano né terreno.

Al centro di questa discesa nella sub-umanità c’è l’assegnazione razziale, che è in un certo senso il meccanismo più rapido e automatico per la sua attuazione, la sua “reificazione”. Così, ad esempio, i poliziotti francesi che sorvegliano i confini di Ventimiglia sanno di dover distinguere tra residenti o turisti di frontiera da un lato, che si muovono liberamente (perché la città fa parte dell’area Schengen), e migranti indesiderati o “ stranieri illegali ” dall’altro, sospesi nella loro marcia in avanti tra due posti di frontiera. Oltre al volto – necessario ma insufficiente perché può confondere l’abitante, il turista e il vagabondo in una città mediterranea – è il corpo dello straniero indesiderato che la polizia di frontiera deve imparare a riconoscere. In questa operazione, che rievoca in ogni momento l’associazione tra “biologico” e “sociale”, si mobilita tutto il sapere occidentale e postcoloniale dell’alterità razziale.

Il rifiuto, l’imprigionamento e la morte degli stranieri considerati alieni sono il contesto, e per molti la vergogna e il fallimento, degli europei di oggi.

Questo ci riporta alla regressione di cui ho parlato all’inizio, al modo in cui gli europei guardavano nel XV e XVI secolo quando stavano scoprendo altri mondi, chiedendosi se gli africani e gli amerindi avessero un’anima, se fossero umani. È così che, a un’altra frontiera dell’Europa, quella esternalizzata del Marocco, un cittadino americano, Timothy Hucks, è riuscito a farsi arrestare in una strada di Rabbat, interrogare all’infinito, maltrattare, accogliere una quarantina di migranti subsahariani, poi lasciare con loro in una strada di una città sconosciuta al confine, quindi vivere in solitudine per diversi mesi nella paura… perché era afroamericano, e la polizia marocchina, forse meno esperta nell’identificazione socio-razziale rispetto ai colleghi della PAF (Polizia di frontiera) francese di Ventimiglia, lo ha scambiato per un africano nero, necessariamente un clandestino, e lo ha trattato come tale.

Timothy Hucks si rese conto che poteva passare dalla cittadinanza più apprezzata del mondo alla peggiore condizione disumana, pur rimanendo la stessa persona. La sua conclusione è la stessa che ho tratto io. Se finalmente è riuscito a far valere i suoi diritti e a far salire il suo cursore in cima all’asse degli stranieri in un colpo solo, sta scoprendo che siamo tutti più o meno stranieri sulla terra: in un tweet del 30 agosto 2019 ha scritto “Cosa dà a qualcuno il diritto di trattare i non americani in questo modo? Nessuno dovrebbe essere trattato così e quando ti succede non sai perché. Pensateci prima di prenotare il vostro biglietto aereo”.

Tra lo straniero che diventa sempre più cosmopolita e lo straniero che scende sempre più in basso nell’oscurità dell’alieno, nulla è mai finito, mai risolto, le maledizioni dell’esteriorità, dell’estraneità e dell’alterità non smettono mai di muoversi.

Il rifiuto, la prigionia e la morte degli stranieri considerati alieni sono il contesto, e per molti la vergogna e il fallimento, degli europei di oggi. Ogni giorno, i morti nel Mediterraneo chiedono soccorso, per il quale altri popoli diventano ospitali, in mare e nelle città, anche se tutta l’immaginazione e la mobilitazione degli abitanti non compenserà l’ostilità dei loro Stati nazionali. Cosa ci vorrebbe per allontanare lo spettro dello straniero assoluto e radicalizzato, lostraniero, e sostituirlo con lo straniero che ha pari diritti perché appartiene allo stesso mondo? Nient’altro che spingere i tre cursori verso l’alto: più libertà di movimento; più diritto di appartenenza (fino all’appartenenza all’intero pianeta, una cittadinanza che si muove con le persone, l’ho chiamata cittadinanza nomade); più conoscenza e riconoscimento degli altri e delle culture condivise.

È qui che deve subentrare l’azione politica, perché solo l’azione politica può cambiare l’orizzonte del possibile. A partire da un gesto verso il Mediterraneo, che tutti conosciamo e frequentiamo, e dove dovremmo decidere di non fare più il bagno finché ci saranno stranieri a morire nella stessa acqua, per riconoscerne finalmente la sacralità che lo salverebbe, forse ancora, dal disonore.

Note

[1] . Jean-Luc Nancy, L’intruso , Parigi, Galilea, 2010.

[2] . Julian Pitt-Rivers, “La legge dell’ospitalità”, Les Temps Modernes , n°253, 1967.

[3] . Simona Cerutti, Stranieri. Studio di una condizione di incertezza in una società di Antico Regime , Montrouge, Bayard, 2012.

[4] . Simona Cerruti, Stranieri, op.cit.

[5] . Georg Simmel, “Digressioni sullo straniero” (1908), in Yves Grafmeyer e Isaac Joseph (dir.), The Chicago School , Parigi, Aubier, 1984.

[6] . Jean Bazin, “Interpretare o descrivere. Note critiche sul sapere antropologico” (1996), in Chiodi nella Gioconda. Antropologia diversa , Tolosa, Anacharsis, p. 407-433.

[7] . Alfred Schütz, Lo straniero. Un saggio di psicologia sociale , Parigi, Allia, 2003 [1944].

Nota dell’editore: Questo testo è stato oggetto di una versione orale durante una Lezione magistrale tenuta il 14 settembre al Festivalfilosofia 2019 (Modena, Carpi, Sassuolo). Riprende un tema più ampiamente sviluppato in M. Agier, L’étranger qui vient. Repenser l’hospitalité, Paris, Seuil, 2018. Si veda anche Babels, Hospitalité en France. Mobilisations intimates et politiques (a cura di M. Agier, M. Gerbier-Aublanc e E. Masson Diez), Lyon, Le passager clandestin, 2019. E si veda il dossier “Multitude migrante”, numero 3 della rivista Monde commun, PUF.

Michel Agier è un ANTROPOLOGO, DIRETTORE DI STUDI ALL’EHESS, DIRETTORE DI RICERCA ALL’IRD.

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Fonte: AOCMedia