27 gennaio, la Giornata della Memoria: allora film in Tv e a scuola

Istituita soltanto nel 2020, è l’occasione (quasi unica nel nostro calendario) per parlare di Shoah. Ma visto come l’antisemitismo galoppa in tutta Europa, viene da chiederci il senso e il modo di come viene svolta. Se la sua efficacia sui giornali, sui media e nelle scuole sia significativa o meno. A parte le poche ormai testimonianze dirette purtroppo rimaste, è l’occasione per lanciare solitamente inutili film sulla Seconda guerra mondiale o più direttamente sul tema, assai annacquati di contenuti, quasi non si volesse fare sul serio, se non per un paio d’ore. Se invece si volesse invece affrontare il tema, si potrebbe cominciare con un film di propaganda datato 1940, “L’ebreo errante” di Franz Hippler, con lo scopo, secondo Goebbels, di documentare la situazione ebraica nella Polonia occupata dai nazisti.

Possiamo osservare:

– la crasi tra le immagini e la voce narrante. Le immagini non saranno diverse, fatto salvo la privazione e la condizione di terribile prigionia, che vedremo in seguito;

– si tratta apparentemente di un testo storico-geografico, che li assimila ai ratti e ai parassiti, cioè a una malattia sociale;

– “portano malattie, sono furbi, vili e crudeli, portano distruzione”;

– “non lavorano, non praticano agricoltura, vivono di scambi e per il denaro”;

– le percentuali del crimine… (!!!!) droghe, sesso, crimini, complotti;

– “fisionomia il rischio dell’irriconoscibilità, cerca di nascondere la sua vera identità”;

-“ fingono di essere poveri”;

– “il pericolo maggiore è considerarli persone normali”;

– spezzone dove i Rothschild si fingono poveri per non pagare le tasse ed avere una rete internazionale disperdendosi nelle varie attività secondo una tattica finanziaria;

– “l’1% della popolazione mondiale, occupa il potere finanziario delle nazioni…”

– non può capire la bellezza e l’arte, non hanno sensibilità;

– vita culturale tedesca infettata dall’arte espressionista, il teatro, il cinema, poi Einstein, Freud

– Chaplin, definito il nemico numero 1;

– macellazioni di animali.

È il manifesto di odio isterico nei confronti degli ebrei e sul rischio di una propagazione epidemica. L’ultimo obiettivo della Shoah, una volta estirpati, era di negare che fossero mai esistiti. L’assenza d’immagini sanciva che la pulizia attuata, attestava che non sarebbe rimasto altro che la sporcizia. Così la volontà di non filmare il genocidio aveva il senso di eliminarlo nel momento stesso in cui veniva commesso.[1]

La Giornata della Memoria se è da più di vent’anni anni un’istituzione, ma se per celebrarla – come si diceva – l’argomento più utilizzato è la visione di un filmato, accade qualcosa di perturbante: indifferenza, emotività fissata in pochi istanti, disinteresse. Infatti, le cronache ci dicono che in Europa, in particolar modo nelle nuove generazioni, avanzano sempre più atteggiamenti e partiti antisemiti. Tra l’altro tra l’atteggiamento aggressivo di Hamas e il mezzo milione di vittime fatte nella striscia di Gaza, c’è qualcosa di sbagliato allora, nel celebrarla così? Facciamoci qualche domanda:

  1. quanto dura l’effetto di un genocidio? Quanto dura la memoria e la colpa? Gli esempi dei popoli amerindi, dei pellirossa, degli armeni eccetera, sembrano indicarci che la distanza temporale annulla l’evento e lo trascina nell’oblio.
  2. L’obbligo di imporre una memoria da parte degli adulti a generazioni digitali (che vivono in un presente continuo) attraverso dei rituali istituzionalizzati o meno, pare non abbia alcuna ricaduta nei comportamenti o negli atteggiamenti. Anzi l’imposizione della memoria determina un automatico rifiuto, incredulità mista a indifferenza, in molti e in tantissimi e pure nei politici al governo.
  3. Insistere sull’orrore funziona? Probabilmente no, le forme della disumanità e dello splatter sono tra i maggiori consumi visivi delle nuove generazioni alla ricerca di una tensione adrenalinica fondata su una fascinazione della paura (controllata). La neutralizzazione passa per qualcosa che avvenuto molto tempo fa, quindi al giovane spettatore, indifferente.
  4. Forzare l’aspetto emotivo? Appare conseguente a quanto già ipotizzato. Se non rielaborata e resa logica, l’immagine emotiva ha un impatto molto breve, pari all’attenzione prestata. L’effetto è minimo, operazione quindi inutile.
  5. La testimonianza o il racconto. Pur nella dimensione soggettiva ed esperienziale ha il carattere del vissuto o meglio del sopravvissuto. In molti casi avviene l’effetto “ parabola” (l’ordine del simbolico non ha nessun impatto su un asse linguistico spostato nel tempo), in molti casi (noti) la scelta del documentario filmato sia che si fissi con un primo piano del testimone o faccia uso di materiali di repertorio sulla sua voce, indebolisce la testimonianza stessa. Il volto dopo un po’ annoia, il materiale di repertorio crea un distacco dalla soggettività delle parole creando un’ulteriore distanza dallo spettatore. Anche in questo caso, i risultati migliori si attuano sul piano dell’emotività…

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Da una conversazione con Pierre Sorlin, autore tra l’altro uno tra i primi saggi su L’antisemitismo tedesco, uscito in Italia con l’editore Mursia nel 1970, che confidenzialmente, risponde a questi miei interrogativi:

“La Giornata della Memoria è spesso (non sempre) considerata inutile perché la Shoah sembra un dramma lontanissimo – ci sono state tante stragi dopo. È la ragione per la quale dobbiamo mantenerla, anche se bisogna adattare la celebrazione a questo dato: sembra essere di un altro mondo, non nel XXI° secolo”.

“Quanto dura l’effetto del genocidio? Dipende della relazione di ogni persona con la memoria della strage. Per la maggioranza degli ebrei è un fatto dolorosamente presente, per un ragazzo italiano di 15 anni sembra un banale fatto di cronaca. Gli Armeni hanno saputo mantenere la memoria del genocidio, la loro coesione rimane fortissima in parte perché non vogliono dimenticarsi.

L’obbligo forzato ha un effetto diretto sugli studenti, sono costretti a partecipare passivamente alla Giornata della Memoria, e la tentazione è il rifiuto – tentazione che però può segnalare una certa coscienza della drammaticità della Shoah: «Non vogliamo ascoltare o guardare perché sentiamo che è perturbante”.

“Ma l’orrore fa paura e un notevole numero di prodotti audiovisivi giocano su questa paura, moltiplicano gli orrori per renderli eccessivi, quasi incredibili, puri effetti fantasmagorici. Per questo motivo bisogna utilizzare un materiale che non punti sulla rappresentazione diretta dell’orrore.

L’emozione non dura, gli spettatori escono dalla visione sconvolti e se ne dimenticano quasi immediatamente”.

“I testimoni hanno un impatto forte – ma non ce ne sono più o quasi.”

Allora? Prevedere una seduta non troppo lunga, con momenti diversi, per non sviare l’attenzione. Breve relazione per spiegare la necessità di mantenere la memoria della Shoah. A mio parere i due documenti più utili perché brevi e chiari sono Notte e nebbia di Alain Resnais o Memory Of Camps, il film girato dagli inglesi all’apertura di Bergen Belsen. Il primo più esplicito, il secondo emozionale. Dipende dell’età degli spettatori. Dibattito: cosa pensano del film? Proiezione di una testimonianza”.

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I FILM DELLA SHOAH

La distruzione pianificata degli ebrei e degli zingari fu tenuta segreta dai tedeschi. Nel 1945, sapendo che la guerra era persa, i carnefici tentarono di nascondere i massacri per sfuggire al castigo, ma quando all’inizio del 1941 la “soluzione finale” era stata messa in moto con l’apertura dei primi campi di sterminio in Polonia, i tedeschi erano sicuri di vincere. Vedevano i territori dell’Est come una vasta regione agricola totalmente assoggettata e non avevano alcun motivo di cancellarne le tracce.[2]

Nazi Concentration Camp (1945) diretto da George Stevens, con il supporto di Kay E. Kellogg direttore della fotografia della Fox, con la super visione di John Ford, presentato al processo di Norimberga è un documentario che dice prevalentemente della condizione dei prigionieri: politici, sociali, di guerra, ma non direttamente di ebrei;

Allo stesso modo  Memory of  the Camp (1945) girato dagli inglesi da Sidney Berstein (con la supervisione al montaggio di Hitchcock) in particolare  a Bergen-Belsen, ma vi sono immagini anche degli americani di Stevens, rimarrà sepolto fino al 1985. Lo stesso governo inglese, prima committente, in seguito lo ritirerà giudicandolo politicamente inopportuno, se osserviamo bene, manca esplicitamente della questione ebraica.

Così quando George Stevens girerà Il diario di Anna Frank (1959), rispetto al libro opera delle scelte “hollywoodiane”, nel senso di affievolire e ridimensionare il suo pensiero politico e la consapevolezza della propria condizione di ebrea.[3] Al contrario, la sceneggiatura punta al thriller, sul rischio di venire scoperti, alla storia d’amore con Peter. La Fox impone poi un finale rappacificante: Anna – dice -, “Nonostante tutto io credo ancora che la gente sia buona”. Solo molto lentamente, circa vent’anni devono trascorrere per riconoscere appieno la Shoah, passando per Vincitori e vinti (1961) di Stanley Kramer, L’uomo del banco dei pegni (1965) di Sidney Lumet; ci dovrà essere prima il processo, questo sì reale a Eichmann. Negli anni Settanta Il maratoneta (1976) di John Schlesinger e I ragazzi venuti dal Brasile (1978) di Franklin J. Schaffner, il nazista è un persecutore della razza ebraica e non più un semplice esecutore di ordini venuti dall’alto. La principale differenza tra i film americani, un paese che non ha vissuto la Shoah e che si propone di insegnarla al proprio popolo opta per racconti di totale invenzione, edulcorati da vicende personali drammatizzate, in Europa si avverte il bisogno di denunciare l’accaduto rappresentandolo di nuovo, partendo dalle leggi razziali fino alla soluzione finale. Qui l’ebreo è presentato come chi ha vissuto un torto che ha lasciato segni indelebili, uscendo dallo stereotipo. Nel 1948 L’ultima tappa (Ostani Eta) della polacca Wanda Jakubowska, lei stessa deportata, ci porta nell’inferno di Auschwitz – Birkenau, riuscendo per la prima volta a rappresentare il dramma collettivo della Shoah, pur in una sezione femminile con scene girate sul luogo e con ex deportate, tra cui la sceneggiatrice. Il suo discorso però, sostenuto dall’ideologia comunista, è ambiguo nel riconoscere la specificità della shoah, la deportazione politica è corrispondente a quella razziale, tacendo che “la stragrande maggioranza delle vittime non fosse costituita da oppositori politici”.[4] Presentato dalla Polonia nel 1948 alla IX mostra d’arte cinematografica di Venezia, ottiene la distribuzione negli Stati uniti, in Italia invece viene bloccato dalla censura “trattasi di un’opera di scarso valore artistico, la cui vicenda è avvolta quasi sempre per il suo tono violento, in un’atmosfera da incubo. La commissione esprime opinione contraria alla distribuzione nelle sale per le scene truci e ripugnanti”.

Nel 1955 per conto del Comité d’histoire, Alain Resnais realizza Notte e nebbia, testo scritto dal poeta Jean Caryol, un sopravvissuto, dimostrando come un luogo qualunque possa tradursi in un inferno facendo condividere chi guarda con il punto d’osservazione di un prigioniero. La crudeltà delle immagini è rimarcata dalla dolcezza della pacata voce fuori campo, quasi poetica. Soprattutto provocava le reazioni di un paese, la Francia che fino agli anni Cinquanta aveva occultato la macchia del regime di Vichy. In questo clima di disinformazione la tesi sovietica prevale su ogni altra: la deportazione degli ebrei è una parte della grande deportazione politica.

Se osserviamo nel cinema Neorealista, la persecuzione degli ebrei è totalmente assente, coincidono l’ideologia comunista con quella cattolica (che aveva avuto evidenti responsabilità sulla sorte degli ebrei dopo l’introduzione delle leggi razziali).

Lontano dai documentari, negli anni Sessanta si rilegge la storia drammatizzandola e spettacolarizzandola, complici i processi che si tengono su Eichmann a Gerusalemme, in Germania tra il 1963 e il 1965, così fa capolino la condizione ebraica prima nel cinema polacco, cecoslovacco, ungherese; però nessun regista affronta la deportazione di 438.000 ebrei ad Auschwitz-Birkenau.

Kapò (1960) di Gillo Pontecorvo ci mette dentro un campo di concentramento da cui non si esce più, più che altrove l’attenzione si focalizza sull’esperienza interiore, sullo smarrimento psicologico lungo un tragitto che ingloba Edith nel meccanismo perverso di quel luogo dove vige la legge “mors tua vita mea”. Da un rito d’iniziazione sempre più giù fino a diventare kapò che porterà al martirio degli altri fino a purificarsi delle nefandezze compiute, solo nel finale favorendo la fuga e la distruzione del campo. Anche con notevoli ingenuità: giocare a carte con l’aguzzino, l’idillio amoroso, la confusione tra ebrei e resistenti politici, il finale di redenzione cristologica.

Carlo Lizzani in L’oro di Roma (1961) sta dentro la comunità ebraica di Roma nello scontro tra la passività con cui gli ebrei avrebbero affrontato umiliazioni e deportazioni e una più portata al contrasto e alla resistenza. Sono in gioco 50 kg d’oro che richiede Kappler (fatto storico, qui drammatizzato per mostrare il contrasto all’interno della comunità. Infatti, gli ebrei si fidarono dei nazisti ma già il giorno successivo alla consegna dell’oro, il 28 settembre, diversi militari delle S.S. tra i quali alcuni esperti di lingua ebraica, perquisirono i locali del Tempio Maggiore degli ebrei ed esportarono numerosi documenti e la somma di 2.021.540 lire, che era custodita nella cassaforte. Ancora, nei giorni successivi, ufficiali delle S.S., dei quali uno in divisa di capitano si qualificò per professore di lingua ebraica, visitarono la biblioteca della Comunità ebraica e quella del Collegio Rabbinico allo scopo dichiarato di sequestrarne i volumi. Furono così depredati quasi tutti i volumi della preziosissima biblioteca della sinagoga e, caricati su due carri ferroviari, spediti a Monaco. Nei giorni successivi il ghetto fu spogliato di tutte le sostanze materiali rimaste. Il 16 ottobre avviarono le deportazioni). contro 200 capifamiglia come ostaggi. Insomma, in chiave politica, tra l’identità ebraica come cultura e tradizione della borghesia e la scelta politica verso il riscatto e lotta nella Resistenza del proletariato, tesi del regista impegnato politicamente.

Negli anni Ottanta la Tv americana, diffusa poi in tanti paesi, con la miniserie Olocausto (1978) di M. J. Chomsky, è l’opera che estende la consapevolezza della Shoah.

Gli anni Novanta, presentano la lezione di Spielberg, Schindler’s List (1993), passati quindici anni da Olocausto, riporta sul grande schermo il tema, offerto a una nuova e diversa generazione di spettatori. L’obiettivo è di farlo rivivere al pubblico, fin dalla dichiarazione del regista: “Ho pensato che la gente se ne fregava dell’Olocausto, vedendo il pubblico abbandonare il film Shoah di Lanzmann, allora glielo avrei raccontato io”.  Un lavoro tratto dalle testimonianze dirette da chi ha vissuto e che andrà in scena mostrando ciò che significa essere sopravvissuto da una totalità di punti di vista (nel finale sfileranno i testimoni e gli attori che hanno interpretato le loro vite), dallo sguardo innocente di una bambina alle soggettive dei criminali, all’uso della macchina a mano in mezzo alla folla, in modo tale, da  parte di chi guarda di essere dentro gli eventi (vedi sequenza camera a gas); la stessa volontà di girare in bianco e nero ha lo scopo di richiamare le immagini dei documentari e dei cinegiornali dell’epoca, inducendo alla veridicità del racconto.

Significativo e importante che Steven Spielberg abbia realizzato nel 1994 la Survivors of the Shoah Visual History Fondation per la preparazione del film (si veda i contenuti speciali del DVD con ben 52.00 testimonianze e un archivio digitale a uso didattico, finiti poi nel documentario Gli ultimi giorni, diretto da James Moll).

In Europa l’opera Shoah (1985) di Claude Lanzmann (undici anni di lavoro, una selezione su 350 ore di materiale registrato) si dà come opera omnia sulla soluzione finale, con solo la voce delle testimonianze di chi l’orrore l’ha provato e vissuto: vittime e carnefici. Il regista non nasconde la mdp che diventa il canale tra lui e il mondo, filmare la contemporaneità senza interpretarla o drammatizzarla cercando di abolire le distanze temporali tra presente e passato per far rivivere le storie umane. Se Spielberg vince sette oscar, Il pianista (2002) di Roman Polanski, ne vince tre. L’assegnazione dei premi da parte dell’Academy può far riflettere tra il mondo del cinema e la shoah (solitamente, a parte questi due casi, un film su questo tema non è mai stato un campione di incassi su cui i produttori abbiano puntato, né lo rifaranno) si tratta di una specie di “risarcimento? Dal 1993 al 2000 sono ben 5 i documentari che si aggiudicano la statuetta (In ricordo di Anna Frank (1995) di Jon Blair, Un sopravvissuto ricorda (1995) di Kary Antholis; nel 1997 L’anno prossimo a Gerusalemme di Mark Jonathan Harris; nel 1997 La vita è bella di Roberto Benigni e Gli ultimi giorni di James Moll; nel 2000 La fuga degli angeli di Mark Jonathan Harris, nel 2002 anche il documentario Nowhere in Africa di Carolin Link, miglior film straniero.

Comunque, dal 1945 ad oggi, si possono individuare poco più di 700 opere con riferimento al tema, con un picco nel biennio 2007-2008 in cui escono 45 film. La maggior parte dei titoli, i ¾ sono europei (in buona parte di paesi comunisti, prima del 1989, poi i francesi al secondo posto). In genere la Shoah ha una funzione secondaria, periferica, evocativa allo scopo di drammatizzare vicende e personaggi, più che analizzarla storicamente. Solo dagli anni Novanta, diventa meno indicibile, grazie a una documentazione storiografica notevolmente ampia rispetto al passato.[5]

Per quanto riguarda l’Italia dopo decenni alternati da “italiani brava gente”, e “siamo stati tutti vittime dei nazisti, italiani per primi” che eludono o ridimensionano le responsabilità antisemite fasciste, il ruolo della Chiesa, siamo di fronte a due nozioni di ricordo condiviso dell’olocausto. Una che condanna il fascismo e si fa carico della colpa nazionale, l’altra che con un’operazione selettiva assolve il regime e gli italiani. Anche in tale dualismo è stato letto e si può leggere La vita è bella (1997) di Roberto Benigni, (presentato a Cannes nel maggio 1998, tre premi Oscar nel febbraio del 1999, 94 miliardi di lire in Italia e 58 milioni di dollari in USA, alla sua prima tv, nell’ottobre del 2001,, oltre 16 milioni di spettatori) che dagli USA fino a Israele ha formato due posizioni[6]: uno censorio, l’altro acriticamente elogiante. Tra i detrattori: è definito “negazionismo benigno”, “le favole sulla Shoah dovrebbero essere proibite”, “Chaplin girò Il grande dittatore, non Charlot nelle camere a gas”, “opera interessante ma ambigua tendente a relativizzare e banalizzare la Shoah”; chi lo applaude perché attraverso una commovente favola invita a rievocare e a non dimenticare anche se il film si incastra alla perfezione nella memoria dominante dell’Italia repubblicana incentrata sull’istintiva bontà degli italiani e sul riciclaggio di un paese fascista in uno antifascista, quel paese che aiutava gli ebrei durante la guerra da buoni cristiani. Al di là delle notazioni storiche, ma si tratta di una fiaba, antirealista di natura, che dopo il comico della prima parte passa al tragico, la lezione di razza ariana  di Guido sulla cattedra davanti alla scolaresca, rimane un unico nel cinema italiano, argomento raramente sfiorato. Evita accuratamente la disumanizzazione della vittima, il piccolo Giosuè vive il gioco e l’innocenza non la deportazione e la prigionia. Quindi immaginazione e ironia diventano l’antidoto alla distruzione che ci rinvia alla risoluzione indolore del trauma.

Note

[1] P. Sorlin, Ombre passeggere, cinema e storia, p.135, Marsilio, Venezia, 2013.

[2] P. Sorlin, Ombre passeggere, cinema e storia, p.135, Marsilio, Venezia, 2013.

[3]  Cfr. Claudio Gaetani, il cinema e la Shoah, p. 39, Le Mani, Genova, 2006.

[4] La Shoah nel cinema italiano, a cura di Andrea Minuz e Guido Vitiello, p. 12, Rubettino, 2013

[5] La Shoah nel cinema italiano, a cura di Andrea Minuz e Guido Vitiello, Rubettino, 2013

[6] La Shoah nel cinema italiano, a cura di Andrea Minuz e Guido Vitiello, Rubettino, 2013


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