Il punto di partenza della riflessione di Norberto Bobbio sulla guerra e sulla pace può essere collocato nel 1961, quando il filosofo torinese firma la presentazione di un libro di Günther Anders, Essere e non essere. Diario di Hiroshima e Nagasaki, che invitava a prendere atto che con l’avvento delle armi nucleari la minaccia di un annientamento dell’umanità era diventata una possibilità concreta[1]. In quel testo, come ricorda Bobbio nella sua Autobiografia, Anders proponeva l’elaborazione di «un codice morale che, di fronte alla minaccia di un annientamento dell’umanità avrebbe dovuto enunciare nuovi doveri, vincolanti per tutti gli uomini»[2]. Da quel momento i temi della pace e della guerra entrano stabilmente nell’orizzonte di ricerca di Bobbio. A questi temi egli dedicherà due volumi: Il problema della guerra e le vie della pace, pubblicato nel 1979 e più volte ristampato, che raccoglie saggi composti tra il 1966 e il 1973; Il Terzo assente, pubblicato nel 1989, che raccoglie articoli e saggi composti tra il 1961 e il 1988. A questi vanno aggiunti il volumetto Una guerra giusta?, che riproduce i suoi interventi più significativi scritti in occasione della prima guerra del Golfo nonché numerosi articoli e interviste sulla stampa quotidiana[3]. In questa nota ripercorrerò brevemente il pensiero di Bobbio sul classico tema della guerra giusta.
1. La teoria della guerra giusta nell’epoca nucleare
Uno dei saggi più noti del pensatore torinese è certamente quello che dà il titolo alla raccolta Il problema della guerra e le vie della pace, pubblicato originariamente su «Nuovi Argomenti» nel 1966. La tesi che veniva formulata è che con l’avvento delle armi atomiche e il conseguente passaggio dalla guerra tradizionale alla guerra termonucleare si era realizzata una trasformazione non solo quantitativa ma anche qualitativa della guerra: «la guerra minacciava di essere non più uno strumento di potenza, com’era sempre stata, ma rischiava di diventare uno strumento di morte universale, e quindi d’impotenza assoluta»[4]. Tale trasformazione rendeva inapplicabili tutte le giustificazioni che nel corso del tempo erano state date dei conflitti tra gli stati: la guerra come male necessario, la guerra come male minore, la guerra come bene in se stesso, la guerra come evento naturale o provvidenziale. In particolare, la possibilità di una guerra atomica rendeva inapplicabile una delle più celebri giustificazioni della guerra, quella fondata sulla distinzione tra guerre giuste e guerre ingiuste, recepita per secoli dai teorici del diritto internazionale.
A giudizio di Bobbio, la teoria della guerra giusta può essere considerata «una teoria intermedia tra le teorie bellicistiche e quelle pacifistiche», essendo stata accolta ora per confutare la tesi attribuita ai primi padri della Chiesa secondo cui ogni guerra è contraria allo spirito e alla lettera del Vangelo e quindi sempre illecita, come nella teologia cattolica a partire da Sant’Agostino; ora per confutare le teorie realistiche della storia e della politica che avevano con varie argomentazioni esaltato la guerra, ritenendola sempre lecita, come nel caso del giusnaturalismo rinato dopo la catastrofe della Prima guerra mondiale. La posizione più diffusa accettava come guerra giusta quella di difesa, quella di riparazione di un torto e quella punitiva; in sostanza la guerra come sanzione per un torto subito[5]. Ma il vero problema è sempre stato costituito dalle guerre di offesa e non dalle guerre di difesa. Individuare la iusta causa in una guerra di offesa equivale a chiedersi chi ha torto e chi ha ragione come avviene normalmente in «una procedura giudiziaria» in cui «si distinguono il processo di cognizione e il processo di esecuzione». Ma, a giudizio di Bobbio, questo parallelismo si era rivelato insostenibile. Come «processo di cognizione», la guerra infatti non presenta i caratteri di certezza e di imparzialità che si richiedono a un giudizio, poiché la valutazione dei fatti da cui scaturisce il conflitto è affidata alle parti in causa. Entrambe le parti giudicheranno giusta la propria causa di guerra e «per una procedura il cui scopo è stabilire chi ha ragione e chi ha torto non c’è maggior prova del suo insuccesso che il dover prendere atto alla fine che tutti e due i contendenti hanno ragione». Ma anche rispetto al «processo di esecuzione» il parallelismo risultava fallace, perché non esiste alcuna garanzia che la sanzione per il diritto violato sia inflitta a chi ha torto: «la guerra è una procedura giudiziaria in cui il maggior male è inflitto non a chi ha più diritto ma a chi ha più forza, onde si verifica la situazione in cui non già la forza è al servizio del diritto ma il diritto finisce per essere al servizio della forza. In sintesi: una qualsiasi procedura giudiziaria è istituita allo scopo di far vincere chi ha ragione. Ma il risultato della guerra è proprio l’opposto: è quello di dar ragione a chi vince»[6].
Bobbio individuava una delle cause principali della decadenza della teoria della guerra giusta nella crisi del giusnaturalismo e nell’avvento del positivismo giuridico. Per il giusnaturalismo non c’è differenza tra diritto e giustizia, poiché il giudizio sulla giuridicità di un atto non può prescindere dalla sua giustificazione etica. Il positivismo, che non conosce altro diritto se non il diritto positivo, aveva invece scisso nettamente il giudizio su ciò che è giuridico dal giudizio su ciò che è giusto. Per il positivismo giuridico, infatti, perché una legge sia considerata valida è sufficiente che sia emanata dall’autorità legittima e sia abitualmente osservata. Applicato al diritto di guerra il metodo positivistico portava alla conclusione che, «rispetto alla guerra, gli stati si comportano tra loro come se non esistesse di fatto alcuna regola comunemente accettata per distinguere guerre giuste da guerre ingiuste». Se gli stati considerano la guerra come una procedura sempre lecita, il problema della legittimità della guerra è un problema morale ma non giuridico.
Un discorso diverso si poneva per la legalità della guerra, perché in questo caso si faceva riferimento a norme comunemente accettate dagli stati, cioè a quelle norme di diritto internazionale positivo che costituivano il ius belli. Il diritto internazionale positivo – scrive Bobbio – «non regola la causa della guerra, bensì regola la sua condotta, quale che sia la causa. Rispetto alla causa della guerra, ogni stato non ha limiti giuridici (di diritto positivo) ma solo morali (o di diritto naturale); rispetto alla condotta della guerra, ha limiti anche giuridici, cioè stabiliti da un diritto vigente nella comunità internazionale cui esso appartiene e che esso stesso ha contribuito a produrre». Ma anche il cosiddetto ius belli finiva per essere scardinato da una guerra atomica, con la quale «cade ogni possibile distinzione tra popolazione in armi e popolazione civile, tra obiettivi militari e non militari, ogni mezzo diventa lecito, tutto l’universo raggiungibile diventa zona d’operazioni»[7].
Finora ho parlato della teoria della guerra giusta in relazione a una guerra di offesa. Ma – secondo Bobbio – neppure la guerra di difesa sopravvive in epoca nucleare. La stessa distinzione tra i due tipi di guerre diventa labile, perché in una guerra condotta con armamenti nucleari ciò che conta veramente è sferrare il primo colpo e fare in modo che l’attacco vanifichi la capacità di rappresaglia del nemico. In sintesi, la guerra moderna si configura per Bobbio come legibus soluta:
La guerra moderna viene a porsi al di fuori di ogni criterio di legittimazione e di legalizzazione, al di là di ogni principio di legittimità e di legalità; in una parola, essa è incontrollata e incontrollabile dal diritto, come un terremoto o una tempesta. […] Dopo essere stata considerata, ora come un mezzo per attuare il diritto (teoria della guerra giusta), ora come oggetto di regolamentazione giuridica (nell’evoluzione del ius belli), la guerra ritorna ad essere, come nella raffigurazione hobbesiana dello stato di natura, l’antitesi del diritto[8].
L’alternativa proposta da Bobbio era il pacifismo giuridico o istituzionale, una prospettiva teorica che – come lui stesso ha ammesso in un’intervista – traeva direttamente ispirazione da Kelsen, l’autore che aveva sostenuto che il fine principale del diritto fosse la pace e non la giustizia e che si era spinto a sostenere che il diritto – in particolare il diritto internazionale – fosse il solo mezzo per garantire una pace stabile e universale[9]. Nel saggio del 1966 Bobbio distingueva tre forme di pacifismo: quello strumentale, che si limita a proporre un intervento sui mezzi, come – ad esempio – una politica volta alla riduzione degli armamenti; quello finalistico, di ispirazione etico-religiosa, che punta sulla conversione degli uomini alla virtù della mitezza o comunque alla loro educazione morale e civile; infine, quello istituzionale che, nella sua variante giuridica, intende rimuovere le condizioni che rendono possibili e talora inevitabili i conflitti armati, affidandosi ad uno sviluppo in senso sovranazionale delle attuali istituzioni internazionali.
Per il pacifismo giuridico il rimedio per eccellenza è l’istituzione del superstato o stato mondiale: poiché ciò che, ad una certa fase di un conflitto internazionale, rende inevitabile l’uso della forza è la mancanza di un’autorità superiore ai singoli stati in grado di decidere chi ha ragione e chi ha torto e di imporre la propria decisione con la forza, l’unica via per eliminare le guerre è l’istituzione di questa autorità superiore, la quale non può essere altro che uno stato unico e universale al di sopra di tutti gli stati esistenti[10].
In altre parole, il pacifismo giuridico «concepisce il processo di formazione di una società internazionale, in cui i conflitti tra stati possano essere risolti senza il ricorso in ultima istanza alla guerra, ad analogia del processo con cui si sarebbe formato, secondo l’ipotesi contrattualistica, lo stato. È il processo che consiste nel passaggio dallo stato di natura, che è stato di guerra, alla società civile attraverso un comune accordo degli individui interessati a uscire dallo stato di guerra permanente»[11]. Si tratta dell’applicazione della cosiddetta domestic analogy, che ipotizza nelle relazioni tra gli stati una situazione analoga a quella degli individui nello stato di natura. Il problema non è l’eliminazione della violenza, bensì la fine del suo uso sregolato, raggiungibile soltanto attraverso un espresso trasferimento della forza dei singoli stati ad un organismo superiore, un «Terzo», in grado di ristabilire la pace.
Il pacifismo giuridico ha profonde radici nel pensiero politico di Hobbes e di Kant. È stato osservato che Bobbio «interpreta e sviluppa il contrattualismo di Hobbes in senso kantiano, attribuendogli una valenza universalistica e cosmopolitica» e «nello stesso tempo interpreta Kant in chiave hobbesiana, assegnando al federalismo kantiano il significato di un vero e proprio progetto di superamento della sovranità degli Stati nazionali e di costituzione di uno “Stato mondiale”»[12]. C’è del vero in questa osservazione, anche se occorre fare qualche precisazione. Si può certamente parlare di sviluppo in senso kantiano del contrattualismo di Hobbes, perché nell’opera di Kant vi è un’estensione del modello giusnaturalistico dai rapporti tra gli individui ai rapporti tra gli stati che in Hobbes è del tutto assente. L’autore del Levitano riteneva che i rapporti internazionali fossero destinati a rimanere nello stato di natura, probabilmente perché – come osserva Bobbio – in quella condizione ogni stato ha, a differenza degli individui che ne sono privi, mezzi sufficienti per difendersi dalle aggressioni e pertanto maggiori possibilità di sopravvivenza: «i gruppi politici, una volta costituiti, sono in grado di allestire una difesa capace di impedire la propria eliminazione da parte degli altri gruppi, e pertanto di stabilire fra loro un’altra forma di eguaglianza che non è più quella positiva consistente nel potere di uccidersi a vicenda ma al contrario quella negativa consistente nell’essere in grado di non farsi uccidere»[13]. Sembra invece più problematico parlare di interpretazione hobbesiana del pensiero di Kant nei termini in cui viene proposta, perché Bobbio ha sempre ritenuto che il progetto kantiano di pace perpetua si fosse arrestato al patto di associazione e non fosse giunto ad ipotizzare un vero e proprio stato mondiale di natura federale. Kant si era limitato a proporre una semplice confederazione e non una vera e propria federazione in cui gli stati devono cedere la propria sovranità all’autorità federativa[14].
Si potrebbe sostenere che Bobbio è stato più attratto dal pessimismo di Hobbes che dal cauto ottimismo di Kant. Nella premessa ad una raccolta di saggi su Hobbes, parlando dell’attualità dell’autore del Leviatano, Bobbio ribadiva ancora una volta che, se il nucleo del pensiero hobbesiano consiste nell’istituzione di un potere comune per uscire dallo stato di anarchia e instaurare una pace stabile, «non è possibile non rendersi conto che questo è oggi il problema dell’ordine internazionale, fondato ancora, in ultima istanza, nonostante quell’unione permanente di stati che è l’Organizzazione delle Nazioni Unite, su un sistema di equilibrio instabile e, sino a ieri, su quello che è stato chiamato equilibrio del terrore, su quel rapporto tra diverse paure, su quel “timore reciproco” che secondo Hobbes caratterizza lo stato di natura ove la pace è sempre la tregua tra due guerre»[15]. A questo proposito si potrebbe osservare che «l’immagine hobbesiana dell’anarchia internazionale non è l’unica possibile». Per la tradizione che si ispira all’opera di Grozio, «gli stati formano sì un sistema anarchico, ma formano anche una “società” internazionale. La politica internazionale ha pertanto due dimensioni interagenti: il “sistema” degli stati e la “società” degli stati». Gli stati, cioè, pur competendo tra loro in condizioni di anarchia, hanno alcuni interessi in comune, quanto meno l’interesse alla perpetuazione del sistema degli stati che li spinge ad adottare istituzioni che condizionano la vita internazionale ed attenuano gli aspetti più distruttivi dell’anarchia internazionale[16].
L’intera riflessione di Bobbio è caratterizzata dalla tensione tra chi sostiene, dal punto di vista normativo, la necessità e la possibilità di una ricerca dell’affermazione definitiva della pace per vie giuridico-istituzionali («la pace attraverso il diritto») e chi constata, dal punto di vista analitico, come gli organismi internazionali siano attori deboli in un mondo dominato da logiche di potenza. Questa tensione è particolarmente avvertibile nella valutazione delle istituzioni internazionali. Da un lato, l’ONU rappresentava per Bobbio «il primo grandioso tentativo di “democratizzare” il sistema internazionale». L’ispirazione democratica risultava in particolare dal riconoscimento dei diritti dell’uomo che limitava l’autorità degli organismi internazionali nati dagli accordi e non attribuiva loro il potere illimitato dei governi autocratici. Dall’altro, non era difficile rendersi conto che tale processo si era arrestato alle soglie della trasformazione della società interstatale in una società infrastatale. Il risultato era che il sistema nuovo – il potere comune – era legittimo, in quanto fondato sul consenso della quasi totalità dei membri della comunità internazionale, ma non effettivo. Il vecchio – la sovranità degli stati – continuava ad essere effettivo, pur avendo perduto ogni legittimità rispetto alla lettera e allo spirito dello Statuto delle Nazioni Unite. I due sistemi convivevano l’uno accanto all’altro, agendo uno indipendentemente dall’altro e spesso uno contro l’altro[17].
2. La prima guerra del Golfo
Prima di esaminare in dettaglio la posizione assunta da Bobbio in occasione della prima guerra del Golfo e della guerra contro la Serbia, può essere utile citare un passo in cui, con la consueta chiarezza, egli sottolineava come il problema della guerra giusta si risolvesse nella ricerca di ragioni in grado di giustificare una condotta, come l’uso della forza, considerata normalmente illecita:
Vi sono […] due modi fondamentali di giustificare la guerra, cioè di distinguere una guerra che si approva come giusta da una guerra che si disapprova come ingiusta: come risposta ad una violazione del diritto stabilito, come sanzione, in base al principio, accolto anche all’interno dello stato sovrano, per cui “vim vi repellere licet”, onde guerra giusta per eccellenza è la guerra di difesa (e anche la guerra di riparazione di un’offesa) e ingiusta quella di aggressione; oppure come instaurazione di un diritto nuovo contro il vecchio diventato ingiusto, come atto creativo di diritto, in senso tecnico, come fonte del diritto, in base all’altro principio non meno tradizionale “ex facto oritur ius”, onde guerra giusta per eccellenza è la guerra rivoluzionaria o di liberazione nazionale, e ingiusta quella imperialistica[18].
Proprio alla nozione di guerra giusta come sanzione nei confronti di una palese violazione del diritto internazionale – l’invasione del Kuwait da parte dell’esercito di Saddam Hussein – Bobbio si sarebbe richiamato per commentare la risoluzione del Congresso americano (12 gennaio 1991) che autorizzava l’uso della forza per costringere l’Iraq a ritirarsi dall’emirato arabo, in conformità con la risoluzione del Consiglio di sicurezza dell’ONU (29 novembre 1990). Il filosofo torinese precisò la sua posizione in un’intervista rilasciata al Tg-3 Piemonte il 15 gennaio 1991. Egli faceva notare come la decisione di muovere guerra all’Iraq ponesse due problemi distinti: quello relativo alla sua giustizia, cioè alla legittimità dell’intervento militare, e quello relativo alla sua efficacia, cioè alla sua utilità o adeguatezza allo scopo. La risposta al primo quesito lasciava poco spazio ai dubbi: si trattava di «una guerra giusta perché fondata su un principio del diritto internazionale, quello che giustifica la legittima difesa». Il secondo interrogativo poneva una questione più complessa. Perché l’intervento potesse essere considerato efficace, occorreva infatti che si verificassero determinate condizioni: in primo luogo la guerra avrebbe dovuto risultare vincente; in secondo luogo avrebbe dovuto essere limitata nello spazio e nel tempo, nel senso che non avrebbe dovuto estendersi oltre il teatro di guerra dell’Iraq e avrebbe dovuto concludersi rapidamente[19].
Nel sottolineare ripetutamente il problema dell’efficacia Bobbio faceva esplicito riferimento alla distinzione tra l’etica dell’intenzione e l’etica della responsabilità. Come aveva sottolineato Weber, la scelta di entrare in guerra è una di quelle decisioni che pongono il politico di fronte a quei paradossi etici che derivano dal conflitto tra le due etiche e, tuttavia, il politico non può mai esimersi dal considerare le conseguenze prevedibili delle sue azioni. Bobbio, in sintonia con il grande sociologo tedesco, osservava che gli uomini di stato «non possono attenersi all’etica delle buone intenzioni e dire: la ragione è dalla nostra, quindi siamo liberi di agire. Devono anche obbedire all’etica della responsabilità, valutare le conseguenze delle proprie azioni. Ed essere pronti a rinunciarvi, se queste azioni rischiassero di produrre un male peggiore di quello che si vuole combattere»[20]. Al riguardo si potrebbe citare anche un campione del realismo politico come Machiavelli. Non a caso lo studioso americano Wolin ha intitolato il capitolo dedicato all’autore del Principe che compare in uno dei suoi libri più noti «La politica e l’economia della violenza». Per Machiavelli l’azione militare costituiva un fattore ineliminabile della condizione politica e la politica doveva essere interpretata come «una scienza dell’uso controllato della forza», basata sulla capacità di saper commisurare la quantità di violenza necessaria al raggiungimento del fine voluto, che consiste nell’instaurazione e nel mantenimento di un ordine politico. Machiavelli aveva ricordato, ad esempio, che si può iniziare una guerra per motivi occasionali, ma è molto difficile porvi termine con altrettanta facilità, o che evitare una guerra necessaria può comportare dei costi, ma il prolungarla oltre certi limiti può rivelarsi altrettanto dispendioso[21]. Sono tutte riflessioni che mettono in evidenza, per l’appunto, come non c’è nulla di più scivoloso di un conflitto armato, il quale può sfuggire facilmente di mano ai suoi promotori e il cui esito finale spesso non coincide con quello preventivato.
Il fatto di aver utilizzato l’espressione «guerra giusta» fece di Bobbio uno dei bersagli del fronte dei contrari all’intervento militare contro il regime di Saddam Hussein, un fronte variegato che raggruppava intellettuali come Massimo Cacciari, molti colleghi di università di Bobbio (da Gian Mario Bravo a Luigi Ferrajoli, da Marco Revelli a Danilo Zolo, solo per citarne alcuni) e gli esponenti del pacifismo di matrice cattolica. Il filosofo torinese fu costretto a ripetere in più occasioni che, parlando di guerra giusta, intendeva semplicemente alludere a una guerra legittima dal punto di vista del diritto internazionale, cioè a una guerra legalmente giustificata. In una lettera inviata a uno dei suoi critici scriveva: «Sono io stesso il primo a riconoscere che è stato da parte mia un errore usare la parola “giusto”, non rendendomi conto che poteva essere interpretata in modo diverso da come l’avevo intesa io, molto semplicemente come guerra “giustificata” in quanto risposta ad un’aggressione»[22].
Le contestazioni che gli venivano mosse erano essenzialmente tre: alcuni ritenevano che quella della guerra giusta fosse una teoria ormai obsoleta; altri rilevavano una contraddizione tra la tesi, formulata da Bobbio in saggi precedenti, che escludeva qualsiasi giustificazione etica o giuridica della guerra in epoca nucleare – la guerra come «via bloccata» – e la giustificazione dell’intervento militare contro l’Iraq; altri ancora ricordavano come il concetto giuridico di guerra giusta risultasse inapplicabile al conflitto in corso, perché – nel caso della guerra tra stati – presupponeva che la sanzione per la violazione del diritto internazionale ricadesse interamente, o principalmente, sul responsabile della violazione e non su vittime civili innocenti.
Nella sua replica ai critici Bobbio ebbe buon gioco a mostrare l’inconsistenza delle varie obiezioni. Relativamente all’inattualità della teoria della guerra giusta, egli ricordava che «la distinzione tra la forza usata per violare il diritto e la forza usata come sanzione» – era stata al centro della riflessione sul pacifismo giuridico – «la pace attraverso il diritto» – di Hans Kelsen, il quale aveva sottolineato che «è un fondamentale principio del diritto internazionale generale che la guerra è permessa solo come reazione a un torto sofferto, vale a dire come sanzione, e che ogni guerra che non ha questo carattere è un delitto, cioè una violazione del diritto internazionale». Egli inoltre notava come i suoi interlocutori ignorassero o fingessero di ignorare che il tema del rapporto tra etica e diritto e, in particolare, tra morale e guerra era più attuale che mai, come testimoniava il dibattito americano sorto intorno al libro di Michael Walzer, Just and Unjust Wars[23].
A chi, come Marco Revelli, aveva ravvisato una contraddizione tra le conclusioni de Il problema della guerra e le vie della pace e la giustificazione dell’intervento militare contro l’Iraq[24], Bobbio faceva notare come l’epoca nucleare non avesse determinato il venir meno delle guerre convenzionali e come, in questo genere di conflitti, la distinzione tra guerra giusta e guerra ingiusta conservasse una sua validità: «Ho affermato più volte anch’io che di fronte alla guerra atomica probabilmente non è più possibile distinguere guerre giuste e guerre ingiuste, perché cade la possibilità di contrapporre la guerra di difesa alla guerra di offesa. Ma nelle guerre tradizionali, la distinzione essendo possibile, e nel caso dell’invasione del Kuwait da parte dell’Iraq è certa, continua ad esistere». Del resto il filosofo torinese ricordava come lo stesso statuto delle Nazioni Unite prevedesse come lecita la guerra di legittima difesa e in alcuni articoli fondamentali stabilisse addirittura la formazione di forze armate per prendere misure militari urgenti atte a ristabilire l’ordine internazionale[25]. L’affermazione contenuta in un appello firmato da una cinquantina di docenti dell’Ateneo torinese e pubblicato su «Il Manifesto», secondo cui tutte le guerre erano da considerarsi ingiuste, finiva per precludere la possibilità «di distinguere l’aggredito dall’aggressore, il liberatore dal tiranno, la vittima dal carnefice»[26].
Relativamente all’ultima obiezione, sollevata da Daniele Archibugi[27], Bobbio faceva osservare che la tesi secondo cui una guerra non può essere per definizione giusta perché lo scatenarsi della violenza ricade su vittime innocenti non teneva conto della fondamentale distinzione accolta dal diritto internazionale tra ius ad bellum e ius in bello: «La giustizia di una guerra riguarda il primo, cioè la legittimità della guerra. Ma una volta iniziata la guerra deve secondo il diritto internazionale rispettare alcune regole, appunto il ius in bello, tra le quali è fondamentale il rispetto delle popolazioni civili». Una delle ragioni invocate per mettere al bando la guerra nucleare consisteva proprio nel fatto che l’utilizzo delle armi atomiche non permette di fare distinzioni tra popolazioni civili e apparati bellici[28].
In sintesi, la posizione espressa da Bobbio, lungi dall’essere incoerente, era del tutto in sintonia con il suo pacifismo giuridico o istituzionale. Anche se la forza non era stata esercitata direttamente dalle Nazioni Unite sotto il comando e il controllo del Consiglio di Sicurezza, in conformità a quanto previsto dal cap. VII della Carta, ciò che contava era che in questo caso la risposta alla violazione del diritto internazionale non era stata affidata al diritto tradizionale dell’autotutela, ma era stata autorizzata dal supremo organo delle Nazioni Unite. Si poteva parlare, in questo caso, non di guerra ma di qualcosa di simile a «un’operazione di polizia»: «La risposta data a Saddam, per il carattere così ampio della coalizione, in cui c’era quasi tutto il mondo unito contro un solo Stato, per i deliberati dell’ONU che l’hanno sostenuta, poteva essere assimilata a quell’uso della forza come potere comune che è l’unico modo, non dico di eliminare la guerra dal mondo, ma per ridurla al minimo possibile»[29]. Pertanto quell’autorizzazione segnava una tappa importante nel processo di formazione di un potere comune al di sopra degli stati e sembrava rendere finalmente possibile «l’esercizio di quella primordiale forma di potere comune, oggi già possibile nel sistema degli stati, tendenzialmente anarchico, mediante l’imperfetta ma perfezionabile istituzione della prima organizzazione internazionale di fatto universale»[30]. Si trattava di una posizione forse troppo ottimistica, tanto è vero che Bobbio nella prefazione alla quarta edizione del suo libro del 1979 riconosceva che la scelta del Consiglio di sicurezza di autorizzare gli stati membri a prendere misure in suo nome (disattendendo le norme del cap. VII della Carta, a cominciare dall’art. 43 che prevede l’obbligo per gli stati membri di mettere a disposizione del Consiglio di sicurezza le forze armate necessarie per prevenire e reprimere le violazioni della pace) dimostrava «quanto fosse difficile applicare al sistema degli stati procedure e misure che valgono all’interno di ogni singolo stato nei rapporti tra i pubblici poteri e il cittadino. Ogni stato detiene nei riguardi dei suoi cittadini il monopolio della forza legittima, un potere che non è mai esistito, non esiste attualmente e probabilmente non potrà mai esistere in futuro, nel sistema internazionale»[31].
3. La guerra contro la Serbia
La questione della guerra giusta si ripropose in occasione della guerra contro la Serbia del 1999. Questa volta la posizione di Bobbio era certamente più vulnerabile, perché, pur giustificandolo, egli negò la legalità dell’intervento militare della NATO rispetto alle norme del diritto internazionale. Nella sua argomentazione, perlomeno inizialmente, la dimensione giuridica o istituzionale non aveva più un ruolo centrale, mentre acquistava maggiore rilevanza la dimensione realistica. Più che sul piano del diritto il suo ragionamento sembrava infatti prendere le mosse dal riconoscimento di uno stato di fatto, cioè del ruolo imperiale assunto dagli Stati Uniti dopo la fine della Guerra fredda e il crollo dell’Unione Sovietica.
Anche in precedenza Bobbio aveva fatto allusione al fatto che le grandi potenze sono fatalmente destinate ad esercitare un ruolo di condizionamento e di leadership nella politica internazionale. Commentando la prima guerra del Golfo, egli aveva osservato che «nel sistema internazionale inteso, come lo intesero tanto Hobbes quanto Hegel, come uno stato di natura, ogni Stato ha spinozianamente tanto più diritto, quanto ha più potere. E i rapporti tra i soggetti di questo stato sono rapporti regolati unicamente in ultima istanza dalla forza»[32]. E in modo ancora più esplicito, pur condannando severamente i bombardamenti americani a difesa della no fly zone perché unilaterali in quanto privi di un’autorizzazione dell’ONU, aveva affermato che un’azione punitiva come quella di Clinton avrebbe potuto rivelarsi efficace senza essere legittima: «in tal caso tende a legittimarsi da sé attraverso il principio di effettività: ex facto oritur ius»[33]. Argomenti dello stesso tenore verranno utilizzati da Bobbio anche nel corso della guerra dei Balcani. Prendere atto del ruolo mondiale ed egemonico della potenza americana non significava esprimere un giudizio di valore ma constatare un dato di fatto: «Gli Stati Uniti sono orwellianamente “più uguali” degli altri, e hanno acquisito una specie di diritto assoluto che li pone totalmente fuori dall’ordine internazionale costituito. La nostra difficoltà di europei, in questa circostanza, è che non possiamo non essere filoamericani, non possiamo non essere amici degli Usa, non possiamo disconoscere questa primazia di un paese che ci ha ripetutamente salvato». Per esemplificare il nuovo ruolo assunto dagli Stati Uniti Bobbio si rifaceva a Hegel e a quel paragrafo della Filosofia del diritto in cui il filosofo tedesco afferma che «in ogni periodo della storia c’è uno stato dominante, herrschend, egemone, cui è conferito un “diritto assoluto”, intendendo per diritto assoluto un diritto che non è limitato dall’eguale diritto degli altri. Di fronte al popolo che fa da “guida dell’attuale grado di sviluppo dello spirito universale – scrive ancora Hegel – gli spiriti degli altri popoli sono senza diritto, ed essi, come coloro la cui epoca è passata, non contano più nella storia universale”. Sono senza diritto, avete capito? Dal punto di vista realistico, da cui si mette Hegel, è incontestabile questo non contare più degli altri popoli»[34].
Successivamente, tuttavia, le argomentazioni di Bobbio finirono per collocarsi nuovamente sul piano giuridico. A suo giudizio, infatti, occorreva non dimenticare che il principio di effettività continuava ad essere uno dei principi fondamentali del diritto internazionale, un principio che era alla base della nascita di tanti diritti. Nonostante alcune perplessità circa il fatto che la guerra umanitaria fosse davvero «un fatto innovativo», essendo più simile alla «guerra come crociata o alla guerra santa»[35], egli finì per interpretare quel conflitto come una tappa verso una progressiva istituzionalizzazione del diritto internazionale. Un’istituzionalizzazione che non muoveva più dalla preminenza dell’Organizzazione delle Nazioni Unite: constatato che «i tempi non sono ancora maturi per una pace che non sia d’impero, a causa della debolezza dell’ONU» occorreva adottare una prospettiva realistica e riconoscere che «il diritto non nasce nel cervello di Giove ma nasce dai fatti. Ex facto oritur ius»[36]. Non si trattava comunque della mera legittimazione del fatto compiuto: l’effettività cui si richiamava Bobbio era un’effettività che pretende legittimità anche e soprattutto in ragione dei valori che incarna, e cioè dei diritti umani e della democrazia.
Il fatto in questione era infatti la necessità di tutelare, anche contro lo stato di appartenenza, la soggettività giuridica dei singoli individui stabilita nella Dichiarazione universale del 1948:
Dopo la Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo e dei patti fra stati che ne sono derivati, non soltanto più gli stati, ma tutti i singoli individui sono diventati soggetti del diritto internazionale. Ne deriva che la tutela dei diritti dell’uomo diventa una ragione di intervenire, da parte della comunità internazionale, anche con la forza per farli rispettare. Soltanto l’enforcement di una regola la trasforma da morale a giuridica. Ciò muta radicalmente il principio tradizionale di sovranità e il principio del non-intervento. La guerra tradizionale si trasforma in un’azione di polizia[37].
Sul cambiamento della natura della guerra, un tema al quale aveva accennato già nel corso della prima guerra del Golfo, Bobbio si soffermò anche successivamente, osservando che, mentre «la guerra richiama l’idea di due eserciti schierati l’uno di fronte all’altro, che tentano di abbattersi a vicenda con l’uso della forza», nel caso della guerra contro la Serbia la forza dirompente viene da una parte sola. E viene dall’alto dei cieli, come quella di un dio che è in grado di vedere tutto senza essere visto, di colpire senza essere colpito, di punire senza essere punito. Più che una guerra internazionale l’intervento militare della NATO, come è stato ripetutamente osservato, deve essere definito piuttosto come un’azione di polizia contro una banda criminale»[38].
La sostanziale giustificazione dell’intervento della NATO contro la Serbia sollevò, ancora una volta, numerose obiezioni. In una lettera aperta indirizzata al filosofo torinese, Luigi Ferrajoli e Danilo Zolo, ad esempio, scrissero che le argomentazioni di Bobbio facevano assumere all’egemonia degli Stati Uniti il valore di un argomento filosofico, finendo per autorizzarli a utilizzare l’uso della forza militare senza più bisogno di alcuna giustificazione legale[39]. E Giuliano Pontara osservò che Bobbio dava l’impressione di riproporre sotto mentite spoglie la vecchia teoria della guerra giusta, cui veniva aggiunta una nuova causa di giustificazione dell’uso della forza militare, la tutela dei diritti umani[40]. Questa estensione poneva problemi molto delicati: quali violazioni legittimano il ricorso all’uso della forza militare? Chi decide sull’impiego della forza? Quali criteri di proporzionalità e di discriminazione dovevano essere utilizzati?
Di fronte alla prima obiezione Bobbio ridimensionò in parte il peso delle sue affermazioni, ammettendo di aver fatto «il passo più lungo della gamba» parlando di una giustificazione etica relativamente all’egemonia statunitense. Ma comunque osservò che «esaminati equamente, imparzialmente, senza animosità preconcetta i pro e i contro di fatto, […] gli Stati Uniti si sono trovati sempre dalla parte giusta […] in base a un criterio di valore che non ricavo dalla constatazione di fatto di come sono andate le cose bensì presuppongo: la democrazia anche difettosa è preferibile a qualsiasi forma di stato autoritario, dispotico, totalitario, di cui l’attuale regime serbo è un perfetto esempio»[41]. Relativamente alle altre critiche, pur riconfermando la posizione che aveva assunto negli anni Sessanta circa l’impossibilità di giustificare la guerra sul piano etico o giuridico in un mondo dominato dalle armi atomiche, Bobbio sottolineava che da questa posizione non si doveva trarre la conseguenza che ogni tipo di conflitto armato fosse illegittimo o ingiusto. Una deduzione di questo genere avrebbe avuto l’effetto paradossale di considerare come ingiuste anche le guerre di difesa o di liberazione nazionale. Non distinguere tra «la “violenza prima” e la “violenza seconda”, fra chi usa per primo la forza militare e chi si difende», significava porre sullo stesso piano, giuridicamente e moralmente, colui che aggredisce e colui che oppone resistenza all’aggressione.
So bene – scriveva Bobbio – come non sia affatto semplice, nelle situazioni concrete, determinare con nettezza chi è l’aggressore e chi è la vittima, ad esempio nel caso di una guerra civile. E tuttavia non possiamo trascurare […] che se non introduciamo criteri di valutazione giuridica e morale dell’uso della forza militare corriamo il rischio di dare sempre ragione ai prepotenti. Sono solito dire che, se tutti fossero obiettori di coscienza tranne uno, quest’ultimo potrebbe impadronirsi del mondo. […] Ed è per questo, ad esempio, che sul piano interno si è arrivati ad assegnare al sistema politico, allo stato, il monopolio dell’esercizio della forza: lo si è fatto per controllare e ridurre la violenza diffusa, per proteggere i cittadini dalle aggressioni dei violenti. E dunque non si vede perché questo non si possa fare anche sul piano internazionale, dando vita anche qui a forme di monopolio dell’uso della forza e legittimando quindi il ricorso alla forza militare contro chi eserciti per primo la violenza. […] Ma, al di là di questo, io sono soprattutto favorevole al fatto che ci si avvia verso un nuovo ordinamento internazionale in cui i soggetti di diritto non sono più soltanto gli stati ma lo sono anche e soprattutto gli individui[42].
Le osservazioni sulla guerra contro la Serbia costituiscono il termine ad quem di una riflessione sui temi della pace e della guerra che aveva avuto inizio negli anni Sessanta. Il filosofo torinese non scriverà più nulla di significativo sulle campagne belliche contro il terrorismo di matrice islamista scatenate dopo l’11 settembre. Una delle metafore che Bobbio amava citare per raffigurare la condizione umana è quella del labirinto. Cerchiamo una via d’uscita ma non sappiamo dove sia e, tuttavia, ci rendiamo conto delle vie che non portano da nessuna parte. Le riflessioni di Bobbio sulla pace e sulla guerra forse non ci mostrano qual è la via d’uscita, ma certamente ci indicano le vie bloccate: un pacifismo acritico, talvolta tanto arrogante nel proprio moralismo quanto sprovveduto; un realismo unilaterale che si risolve in una glorificazione del fatto compiuto, perdendo qualsiasi aggancio con la dimensione normativa della politica.
NOTE
[1] G. Anders, Essere e non essere. Diario di Hiroshima e Nagasaki, Einaudi, Torino, 1961.
[2] N. Bobbio, Autobiografia, a cura di A. Papuzzi, Laterza, Roma-Bari, 1997, p. 221.
[3] N. Bobbio, Il problema della guerra e le vie della pace (1979), Il Mulino, Bologna, 1997; Il terzo assente. Saggi e discorsi sulla pace e sulla guerra (1989), Edizioni Sonda, Casale Monferrato, 2013; Una guerra giusta? Sul conflitto del Golfo, Marsilio, Venezia, 1991.
[4] N. Bobbio, Prefazione alla prima edizione de Il problema della guerra e le vie della pace, cit., p. 20.
[5] N. Bobbio, Il problema della guerra e le vie della pace (1966), in Ivi, pp. 57-58.
[6] Ivi, pp. 58-59.
[7] Ivi, pp. 62-65.
[8] Ivi, pp. 65-66.
[9] D. Zolo, La teoria del diritto e il diritto internazionale. Un dialogo con Norberto Bobbio, in Id., L’alito della libertà. Su Bobbio, Feltrinelli, Milano, 2008, p. 115.
[10] N. Bobbio, Il problema della guerra e le vie della pace, in Id., Il problema della guerra e le vie della pace, cit., pp. 84-85.
[11] N. Bobbio, La pace attraverso il diritto, in Id., Il terzo assente, cit., p. 133.
[12] D. Zolo, L’alito della libertà, cit., pp. 90-91.
[13] N. Bobbio, L’equilibrio del terrore (1984), in Id., Il terzo assente, cit., p. 57.
[14] N. Bobbio, Introduzione a I. Kant, Per la pace perpetua (1795), Editori Riuniti, Roma, 1985, p. XII. Solo nell’ultima fase della sua riflessione Bobbio ha mostrato di condividere l’interpretazione di chi, come Giuliano Marini (Tre studi sul cosmopolitismo kantiano, Istituti Editoriali e Poligrafici Internazionali, Pisa-Roma, 1998), riteneva che la struttura istituzionale del cosmopolitismo kantiano doveva essere interpretata come una vera e propria federazione, una «repubblica federale mondiale» (Weltbundesrepublik). Cfr. N. Bobbio, La paix perpétuelle et la conception kantienne de la féderation internationale, in Id., L’État et la démocratie internationale, ed. par M. Telò, Ed. Complexe, Bruxelles, 1998, pp. 149, 158.
[15] N. Bobbio, Thomas Hobbes, Einaudi, Torino, 1989, p. XII.
[16] A. Panebianco, Il potere, lo stato, la libertà. La gracile costituzione della società libera, Il Mulino, Bologna, 2004, pp. 256-257.
[17] N. Bobbio, In lode dell’ONU, in «La Stampa», 30 agosto 1987, rist. in Id., Il terzo assente, cit., pp. 224-226.
[18] N. Bobbio, L’idea della pace e il pacifismo (1975), in Id., Il problema della guerra e le vie della pace, cit., p. 132.
[19] N. Bobbio, Una guerra giusta?, cit., pp. 39-40.
[20] L’ora della decisione più sofferta, intervista a N. Bobbio a cura di R. Chiaberge, in «Il Corriere della Sera», 17 gennaio 1991, rist. in N. Bobbio, Una guerra giusta?, cit., p.43.
[21] S.S. Wolin, Politica e visione. Continuità e innovazione nel pensiero occidentale (1961), Il Mulino, Bologna, 1996, pp. 317-320.
[22] Lettera a D. Zolo, 25 febbraio 1991, in D. Zolo, L’alito della libertà, cit., p. 154.
[23] N. Bobbio, Ci sono ancora guerre giuste? Me lo chiedo, in «L’Unità», 22 gennaio 1991, rist. in Id., Una guerra giusta?, cit., pp. 53-57.
[24] Stralci della lettera di M. Revelli a Bobbio, datata 19 gennaio 1991, in cui sono esposte queste critiche, si trovano in G. Scirocco, L’intellettuale nel labirinto. Norberto Bobbio e la “guerra giusta”, Biblion Edizioni, Milano, 2012, pp. 70-73.
[25] N. Bobbio, Breve risposta ai miei critici, in «L’Unità», 19 gennaio 1991, rist. in Id., Una guerra giusta?, cit., p. 51.
[26] N. Bobbio, Ci sono ancora guerre giuste?, cit., p. 56.
[27] D. Archibugi, Kant, Bobbio e la guerra giusta, in «Il Manifesto», 2 aprile 1991.
[28] Lettera a D. Archibugi, 3 aprile 1991, in G. Scirocco, L’intellettuale nel labirinto, cit., p. 84
[29] Il mio dubbio: guerra giusta, ma inevitabile?, intervista a N. Bobbio a cura di G. Bosetti, in «L’Unità», 9 marzo 1991.
[30] N. Bobbio, Introduzione a Una guerra giusta?, cit., p. 23.
[31] N. Bobbio, Prefazione alla quarta edizione de Il problema della guerra e le vie della pace, cit., pp. XIII-XIV.
[32] N. Bobbio, Ci sono ancora guerre giuste?, in «L’Unità», 22 gennaio 1991, rist. in Id., Una guerra giusta?, cit., p. 55.
[33] N. Bobbio, Una guerra illegittima, in «La Stampa», 20 dicembre 1998.
[34] Questa guerra assomiglia tanto a una guerra santa, intervista a N. Bobbio a cura di G. Bosetti, in «L’Unità», 25 aprile 1999.
[35] Ivi.
[36] La guerra dei diritti umani sta fallendo, intervista a N. Bobbio a cura di G. Bosetti, in «L’Unità», 16 maggio, 1999.
[37] La citazione della lettera di N. Bobbio a G. Pontara è tratta da G. Scirocco, L’intellettuale nel labirinto, cit., p. 106. Ma si veda anche Ma hanno già bombardato tutto?, intervista a N. Bobbio a cura di A. Papuzzi, in «La Stampa», 16 maggio 1999.
[38] G. Scirocco, L’intellettuale nel labirinto, cit., p. 106.
[39] L. Ferrajoli, D. Zolo, Caro Bobbio, una crociata è giusta perché americana?, in «L’Unità», 27 aprile 1999.
[40] G. Scirocco, L’intellettuale nel labirinto, cit., p. 104.
[41] N. Bobbio, Non siate prigionieri dell’antiamericanismo, in «L’Unità», 30 aprile 1999.
[42] D. Zolo, La teoria del diritto e il diritto internazionale, cit., pp. 122-125.