Nelle prime pagine del suo volume intitolato: La guerra, Severino si produce nella seguente, perentoria, affermazione: «la logica secondo cui si costituisce la scienza [è] la logica stessa secondo cui si costituisce la realtà della guerra».

Intende dire che, in Occidente, tutte le riflessioni che si sono avute sul senso della guerra si sono sempre date nel segno di una logica, strutturalmente, identica a quella dell’oggetto indagato. Noi pensiamo, infatti, che la guerra distrugga non solo persone, ma anche cose. Ebbene, il significato della parola “guerra” non è, essenzialmente, diverso da quello della parola “cosa”, visto che se la prima, appunto, distrugge, la seconda, non diversamente, uscendo dal niente, è un qualcosa che, per principio, si espone al fatto che, prima o poi, vi farà ritorno.

Ecco, allora, le sue conclusioni: «solo se tramonta il senso greco della “cosa” diventa possibile il tramonto della guerra. […] [P]ensare […] il tramonto della guerra significa pensare il tramonto dell’anima della nostra civiltà»1.

Non diversamente, in un altro suo testo, Severino afferma: «se la guerra non esistesse non potrebbe esistere alcuna cosa»2.

In merito a questo nesso inestricabile fra guerra e cose, il riferimento obbligato è dato dal nome di Eraclito e, ovviamente, da quel suo frammento (il fr. 53) in cui al conflitto (pólemos) è assegnato il ruolo di sovrano che governa e domina su tutto, per cui, qualora si estinguesse la prima, finirebbero, insieme con essa, anche le seconde3. In tal senso, egli proponendo di rovesciare tale frammento, da “la guerra è madre di tutte le cose” in “la cosa è madre di tutte le guerre”, aggiunge: «Il modo in cui è stata pensata la cosa sta alla radice di tutta la conflittualità che si svolge lungo la storia dell’Occidente»4

Dicevamo che, per Severino, la logica della scienza non è diversa da quella nel cui segno si svolge la guerra. Essa, affondando le sue radici nelle origini della nostra civiltà, è anche la stessa che presiede all’amministrazione tecnica del mondo, quale è praticata, a tutt’oggi, dalle superpotenze5. Sua caratteristica è di essere una «logica dell’isolamento», nel senso che se, per primi, i Greci hanno pensato la distanza infinita che separa l’essere dal niente – visto che il primo è concepito come una soglia oltre la quale non c’è alcun “che” – ecco come al di qua o al di là dell’essere non c’è “niente” che possa interferire con esso: nessuna cosa che possa annunciarlo o a cui il già esistente possa rinviare.

 

Di fronte allo spettacolo dell’uscire e ritornare nel niente, la filosofia, che è l’evocatrice di tale spettacolo, nell’atto stesso in cui pensa l’opposizione infinita dell’essere e del niente, pensa insieme che il niente non può costituire né ciò che si genera né la dimensione in cui finisce ciò che si corrompe6.

 

In questa luce, Severino afferma che è solo a partire dai Greci che si incomincia, propriamente, a nascere e a morire7. E – possiamo tranquillamente aggiungere – anche a fare la guerra. «Il senso greco del divenire sta alla base della tecnica e della guerra dell’Occidente»8.

Riflettendo sul tema del lavoro, visto che è proprio in quest’ultimo che il Simposio di Platone individua la causa che conduce ogni cosa dal niente all’essere e viceversa, Severino coglie una corrispondenza segreta fra il filosofo greco e Marx, nel senso che l’esistenza, determinata dal filosofo tedesco come struttura economica, prassi e lavoro, «è qualificata proprio secondo le categorie che vengono per la prima volta alla luce con Platone»9.

L’utopia politica vagheggiata ne La Repubblica non sarebbe rimasta tale, ma avrebbe trovato la sua compiuta realizzazione nell’Occidente. Va ricordato, infatti, che lo Stato, per Platone, sorge quando i cittadini, mettendo in comune il loro lavoro, offrono i prodotti di esso alla fruizione di tutti. Ora, lavoro, in greco, si dice érgon, che significa, però, anche la “cosa” che dal lavoro stesso è prodotta. E chi si fa carico di tutto ciò è, in particolare, il demiurgo, parola composta, oltre che da érgon, da démios: pubblico. Demiurgo è, allora, “colui che rende pubblico il proprio lavoro”, formula che può essere vista anche come la traduzione del latino res publica10.

All’interno della pólis, poi, è la giustizia il principio che presiede alla divisione del lavoro, principio che lo stesso Marx individua come già presente nel dialogo in questione. Il lavoro è reso efficace, per Platone, quando ognuno dei rappresentanti delle tre classi, producendo non solo per sé, ma anche per gli altri, proprio così assolve interamente il suo compito. La parola che il filosofo ateniese usa per qualificare una tale efficacia è tecnica (téchne), sinonimo di quella potenza che trasforma la realtà separando e isolando. Separando e isolando perché connaturata a essa è la convinzione secondo cui le cose sono dominabili proprio in quanto, oscillando fra l’essere e il niente, non arrivano mai a intrecciare fra loro una rete di rapporti indissolubili, ma sono disponibili, indifferentemente, tanto per l’uno, quanto per l’altro.

 

Una volta per tutte il pensiero greco intende le cose come disponibili, in quanto tali, all’essere e al niente, capaci di percorrere l’infinita distanza che separa l’essere dal niente. Questa loro capacità è la loro essenziale vocazione al niente, il quale precede e pone termine alla loro esistenza precaria11.

 

E ancora: «Se una qualsiasi cosa fosse indissolubilmente unita all’essere, sarebbe vana ogni pretesa di prenderla, manipolarla, modificarla»12.

Ecco come le cose non solo sono separate dall’essere e dal niente, ma lo sono anche fra di esse e come le tecniche arrivano a godere ognuna di una propria autonomia rispetto alle altre, senza che ciò escluda, però, la possibilità di un loro accordo superiore in quell’organizzazione totale che è rappresentata, appunto, dalla divisione del lavoro nella pólis.

A proposito della tecnica, inoltre, Platone, ne La Repubblica, definisce la guerra come la massima espressione di essa, ossia come il modo più alto di manifestazione del lavoro. Anche la guerra si configura, così, come un’opera demiurgica, ovviamente, nella sua versione distruttiva. Ma un profilo “tecnico”, nel Simposio, ce l’ha anche l’éros, inteso come impulso all’unificazione e a “partorire nel bello”, dove quest’ultimo concetto, grecamente inteso, allude proprio alla riuscita di ciò che è stato predisposto in vista del conseguimento di uno scopo. Éros, poi, è figlio di Póros, parola la cui radice sta al centro del nostro es-per-ienza e il metodo su cui fa leva la scienza moderna è, appunto, quello sperimentale.

Severino nota che c’è una parola con cui Platone, sempre ne La Repubblica, designa la “cosa”, parola che richiama direttamente il frammento, prima evocato, di Eraclito: epamphoterízein, la quale, sciolta nelle sue quattro componenti, dà: epí tá amphótera erízein, un verbo all’infinito, quest’ultimo, che significa, appunto, “combattere”, “far guerra”. Ora, questa parola allude a un qualcosa che non solo è incerto, oscilla o è indeciso fra due poli, ma che è anche conteso nella guerra fra due avversari che si combattono, dove i due fra cui si apre la contesa sono, naturalmente, l’essere e il niente13. «L’ente in quanto ente è ciò che è conteso dall’essere e dal niente»14.

Ma così l’essenza del nichilismo è già tutta compiutamente dispiegata: quel che ne discende, infatti, è che la cosa, per quanto non è un niente, «tuttavia può non essere, ossia [può] essere un niente»15. E, ancora, che la cosa, più che motivo dell’accendersi di una guerra, ancora più alla radice, è essa stessa guerra: «è un contendere con l’essere e col niente per non farsi catturare definitivamente dall’uno o dall’altro. Essere una “cosa” […] significa essere “guerra”»16.

In poche parole, mentre prima, con Eraclito, la guerra era “madre di tutte le cose”, ora, con Platone, siamo su un piano ancora più radicale: la guerra è la sostanza stessa delle cose, la loro ragione ultima e più profonda. Ne discende che è un’illusione credere che la pace possa costituire un’alternativa radicale alla guerra, perché la prima è un qualcosa che si dà, sempre e comunque, solo all’interno dell’ambito dominato dalla seconda.

Severino considera la violenza, in quanto essenza della guerra, come l’espressione più visibile del fondamento nichilistico su cui è impiantata la nostra civiltà. Addirittura, è come se noi, distruggendo le cose, nella misura in cui esse sono votate al nulla, non facessimo altro che assecondare la vocazione segreta che le abita.

«Se la realtà è divenire, storia, tempo, l’essenza delle cose è il loro nascere e perire, la loro vocazione più autentica è il loro perire dopo essere nate; e ogni distruzione, devastazione, annientamento delle cose esaudisce e favorisce la loro vocazione al nulla»17. E ancora: «la cosa, nella sua essenza, offre[ndo] se stessa alle forze che la spingono nell’essere e nel niente, chiede essa stessa di essere violata e non rispettata»18.

Ma il punto è che anche qui, come nel caso della pace, la violenza non si combatte prospettando alternative a essa, ma solo con una violenza ancora maggiore di quella che si pretenderebbe di condannare. «La civiltà “ha ragione contro” la violenza, solo se riesce a essere una violenza più potente, cioè riesce ad “aver ragione” della violenza»19.

E la violenza coincide non semplicemente con la forza bruta, ma, nella sua forma più sofisticata – già lo vedevamo –, con quell’organizzazione scientifico-tecnologica della razionalità, praticata dalle superpotenze, che oggi domina il mondo. In tal senso, non ci è data una via di uscita: «Le voci che a nome della civiltà del nostro tempo condannano la violenza […] crescono in quello stesso terreno di cui la violenza si nutre. Anche se non se ne avvedono, la loro anima è la stessa anima della violenza»20.

Severino nota come ci sia, addirittura, una segreta affinità fra vita e violenza, scandita dalla parentela, in greco, fra bíos e bía, nonché dal fatto che, in latino, «la parola vis (così vicina, nella sua struttura, a vita) significa appunto “vi-olenza”»21. Ma la violenza stringe una segreta affinità anche con la fede. Se la prima si dà, infatti, quando si oltrepassa un limite invalicabile, marcato dalle leggi, dai comandamenti o dalla voce della coscienza, la seconda, non diversamente, si dà quando ciò in cui si ripone assoluta fiducia si costituisce, in quanto tale, solo nella misura in cui viene messo al riparo rispetto alla «grande ombra del “No”»22 che lo minaccia e del quale potrebbe diventare preda: «[Impossibile è] una fede che, nell’atto stesso in cui si presenta come fede, non sia dubbio»23.

In questa luce, il lógos stesso, in quanto epistéme, è fede: esso funge da radice della violenza proprio nella misura in cui, mettendo la tecnica al suo servizio, si propone come esclusivo, nel senso letterale per cui, affermando che il senso del mondo è questo e non un altro, esclude da sé tutti gli altri sensi che si danno come alternativi24. Il fatto stesso di prendere delle decisioni, obbedendo alla logica in questione, è già, di per se stesso, un uccidere, visto che decidere è, appunto, «de-caedere, spezzare», mentre «“uccidere” è ob-caedere»: «Il decidere è un uccidere»25.

Si parlava, prima, della «logica dell’isolamento» come di quella che governa la guerra, la scienza e l’amministrazione tecnologica del mondo attuale. Ora, ciò che assimila profondamente i tre domini in questione è dato, per Severino, dalla figura del dèmone: figura che fa la sua comparsa con l’ontologia greca, per raggiungere il suo culmine nella nostra civiltà della tecnica. Demone che, secondo il suo etimo greco, significa, appunto, “separatore”, alludendo a quello sradicamento delle cose dal loro suolo naturale che, consegnandole al movimento, le rende, così, afferrabili e manipolabili a nostro piacimento. Il filosofo italiano da tempo si augura, invece, che le cose siano riconsegnate, ultimamente, al loro destino, in quel senso forte, riconducibile allo “stare”, nel cui segno ha provveduto a spiegarlo attraverso i suoi lavori26.

Destino di tutte le cose, dalle più umili alle più grandiose è, infatti, quello di «essere radicate al loro suolo, ferme, non trasformabili, non producibili e non distruggibili», in modo che possano offrirsi a noi, così, come «l’inafferrabile, il non dominabile, il necessario, l’eterno»: «Il destino è l’impossibilità del dominio»27.

NOTE

1 E. Severino, La guerra, Rizzoli, Milano, 1992, pp. 11-12 e 51.

2 E. Severino, A Cesare e a Dio, Rizzoli, Milano, 20072, p. 31.

3 Circa il fatto che, in questo frammento di Eraclito, verrebbe chiaramente alla luce la «sequenza tra unità, identità del diverso, il comune e il pólemos», cfr. E. Severino, Lidentità della follia. Lezioni veneziane, Rizzoli, Milano, 2007, p. 59. Sul nesso fra questi quattro concetti, cfr. anche: E. Severino, La filosofia dai Greci al nostro tempo. La filosofia antica e medioevale, Rizzoli, Milano, 2015, p. 58.

4 E. Severino, Lezioni milanesi. Ontologia e violenza (2016-2017), a cura di N. Cusano, Mimesis, Milano-Udine, 2019, p. 55.

5 Sul motivo per cui «la globalizzazione tecnica è destinata a sostituire la globalizzazione economica in atto», cfr. E. Severino, Capitalismo senza futuro, Rizzoli, Milano, 2013, p. 5.

6 E. Severino, Il muro di pietra. Sul tramonto della tradizione filosofica, Rizzoli, Milano, 2006, p. 23.

7 Per quanto riguarda la «morte come assoluto annientamento», in particolare, essa è un qualcosa di ignoto prima dei Greci, proprio perché qui «è assente il senso radicale dell’opposizione dell’essere e del nulla». Cfr. E. Severino, Immortalità e destino, Rizzoli, Milano, 2008, p. 10.

8 E. Severino, La guerra, cit., p. 40.

9 Ivi, p. 41.

10 Circa il fatto che il concetto platonico del demiurgo prefigurerebbe quello del Dio biblico, il quale, creando il mondo «per la propria gloria, esprime appunto il carattere “pubblico” del lavoratore assoluto», cfr. E. Severino, Lidentità della follia, cit., p. 321.

11 E. Severino, La guerra, cit., p. 80.

12 Ivi, p. 44.

13 Scrive Severino a proposito della nozione platonica appena chiamata in causa: «La parola amphótera vuol dire “i due”, “entrambi”, “uno e l’altro”. Il diveniente è ciò che è insieme “i due” (essere e non-essere), cioè legato ai due. Se noi trasformiamo questo amphótera in un verbo (cosa che il greco fa moltissime volte) allora possiamo usare il pronome “entrambi” e dire (anche se non esiste in italiano) “entrambizzare”. […] Ma “entrambizzare” vuol dire dibattersi tra l’uno e l’altro. […] [Si tratta di un] qualcosa che insieme, simul, “è e non è”, e cioè si sposa e con l’uno e con l’altro, non facendo mai divorzio definitivo ne dall’uno né dall’altro, ma andandosene ora con l’uno ora con l’altro». Cfr. E. Severino, Lidentità della follia, cit., p. 277.

14 E. Severino, Destino della necessità, Adelphi, Milano 1980, p. 21.

15 Ivi, p. 23.

16 E. Severino, La guerra, cit., p. 50.

17 E. Severino, Sortite. Piccoli scritti sui rimedi (e la gioia), Rizzoli, Milano, 1994, pp. 22-23.

18 E. Severino, La guerra, cit., p. 84.

19 Ivi, p. 55.

20 Ivi, p. 61.

21 Ivi, p. 70.

22 Ivi, p. 72.

23 E. Severino, Il mio ricordo degli eterni. Autobiografia, Rizzoli, Milano, 2011, p. 112. Ma si veda anche: E. Severino, Pensieri sul Cristianesimo, Rizzoli, Milano 1995, laddove si legge che «la fede esiste come violenza, quando e in quanto la fede si isola dal dubbio su cui è fondata» (p. 109).

24 È senz’altro singolare il fatto che, mentre le grandi forze del nostro tempo che si servono della tecnica mirano a realizzare uno scopo esclusivo, nel senso che si è appena visto, ossia «a realizzare uno scopo escludente altri scopi», la tecnica si propone, invece, non scopi di questo tipo, ma «l’aumento infinito della potenza: l’incremento infinito della capacità di realizzare scopi». Cfr. E. Severino, Téchne-Nomos: linevitabile subordinazione del diritto alla tecnica, in Aa. Vv., Nuove frontiere del diritto. Dialoghi su giustizia e verità, Dedalo, Bari, 2001, pp. 15-24: p. 17.

25 E. Severino, La follia dellangelo. Conversazioni intorno alla filosofia, a cura di I. Testoni, Rizzoli, Milano, 1997, p. 172. Sul nesso decidere-uccidere, cfr. anche: E. Severino, Téchne. Le radici della violenza, Rizzoli, Milano, 2002, laddove leggiamo: «la parola latina occidere (da cui l’italiano “uccidere”), analogamente alla parola decidere, è formulata dalla preposizione ob (che indica l’assumere attivamente una direzione) e dal verbo caedere. Come l’uccidere, così il decidere è un separare. […] Nelle lingue dell’Occidente – e quindi nella vita e nel pensiero che in esse si esprimono – chi decide, separa» (pp. 282-283).

26 Nei suoi scritti – afferma Severino – la parola “destino” è usata in modo tale che il de– esprime intensificazione, così che «il destino è l’intensificazione estrema dello “stare”, cioè dell’inamovibilità […]. Nel destino appare che ogni essente è se stesso e non diventa altro da sé, e dunque è eterno […]. Il destino è il senso autentico della verità». Cfr. E. Severino, La potenza dellerrare. Sulla storia dellOccidente, Rizzoli, Milano, 2014, pp. 130-131. Su questo punto, cfr. anche E. Severino, Nichilismo e destino, Booktime, Milano, 2012, p. 30.

27 E. Severino, La guerra, cit., p. 136. Sul significato che il concetto di “guerra” assume, in Severino, significato che può emergere pienamente solo se ricondotto al «cuore metafisico» della sua filosofia: «il Destino della Necessità», cfr. L. Taddio, Introduzione a E. Severino, La guerra e il mortale, a cura di L. Taddio, Mimesis, Milano-Udine, 2010, pp. 9-27: p. 9. Per una ricognizione complessiva della filosofia di Severino, cfr., in questo stesso vol., anche G. Brianese, Leterno che è qui. Il divenire nel pensiero di Emanuele Severino, pp. 29-87.