Gli apparenti paradossi e le apparenti contraddizioni nella gestione delle crisi sanitarie globali, come ad es la recente pandemia di Covid-19, sono sufficientemente illuminati una volta che ci rendiamo conto che la “disumanizzazione” della politica presuppone e, al tempo stesso, comporta la “biologicizzazione” della condizione umana.
In particolare, nella gestione della nuova pandemia è apparso chiaro che la scelta biopolitica dominante non è stata quella di trattare le persone come “unità produttive” autonome e necessarie, ma come una “riserva biologica” spendibile, gestibile a piacimento.
Come previde nel tempo Michel Foucault, oggi non solo si può, ma si è obbligati a parlare di biopolitica «per descrivere ciò che introduce la vita e i suoi meccanismi nel dominio dei calcoli espliciti e fa del potere-sapere un fattore trasformante della vita umana».
Sfortunatamente, la morte prematura di Foucault – dovuta all’infezione da virus dell’AIDS – non gli ha permesso di sviluppare adeguatamente queste idee molto radicali. Ma questa analisi innovativa del potere di Foucault sarebbe stata adottata e ampliata da diversi importanti filosofi politici, tra cui Giorgio Agamben, che avrebbero aggiornato ed espanso l’idea stessa sovversiva della biopolitica. Infatti, nel suo imponente libro “Homo sacer”, il massimo filosofo politico italiano offre un’analisi molto più ampia delle pratiche biopolitiche contemporanee.
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https://www.quodlibet.it/libro/9788822905185
Secondo Agamben, oggigiorno le nuove pratiche biopolitiche ricorrono agli ultimi progressi biotecnologici, biomedici e alla medicalizzazione di massa per trasformare la vita delle persone in una “nuda vita”, potenzialmente letale nei regimi totalitari. Analizzando, infatti, le cose “inedite” che accadono intorno a noi o anche a noi stessi, giunge alla conclusione ragionevole e, purtroppo, molto spesso confermata che: “Nella biopolitica moderna, il sovrano è colui che decide sul valore o non-valore della vita in quanto tale, cioè se la vita in quanto tale ha o non ha valore”!
La scelta di fondo, quindi, del potere tardo moderno da esercitarsi principalmente attraverso la biopolitica, ha portato non solo ai vari crimini “atroci” delle due guerre mondiali, ma anche alla sistematica disumanizzazione della vita umana. Paradossalmente, oggi il discredito biopolitico della vita umana si basa sulle scienze del cervello e si manifesta grazie alle applicazioni delle neurotecnologie, adottate a supporto della nuova neuropolitica, che mira a controllare i cervelli umani attraverso la (de-)regolazione selettiva delle loro funzioni mentali.
La gestione biopolitica di cervelli “trasparenti”
Comprendere l’organizzazione e la funzione del cervello umano è una delle maggiori sfide per la tecnologia odierna e futura. Una grande sfida tecnoscientifica che, però, ha già prodotto molte applicazioni biotecnologiche e biomediche, cioè biopolitiche. Cosa che sanno non solo i neuroscienziati, ma anche i governi dei Paesi economicamente più sviluppati, che finanziano generosamente i relativi programmi di ricerca.
Non occorre essere scienziati esperti per vedere che, negli ultimi anni, grazie agli impressionanti progressi delle neuroscienze, il nostro cervello, sede delle nostre emozioni più inconfessate e dei nostri pensieri più reconditi, è diventato non solo trasparente alla conoscenza scientifica ma anche potenzialmente manipolabile da chi è in possesso di questa nuova neurotecnologia. Oggi, infatti, i neuroscienziati sono ormai in grado di individuare e analizzare in termini strettamente anatomici e neurobiologici le microstrutture cerebrali che si attivano quando, per esempio, ci innamoriamo, quando impariamo o memorizziamo qualcosa, quando mentiamo o quando reagiamo violentemente, quando guardiamo un’opera d’arte o una persona molto cara.
E come mostrano le ricerche più recenti, tutte le nostre funzioni cerebrali “private” hanno un’origine evolutiva comune e sono eseguite in modo identico da qualsiasi cervello umano normale, indipendentemente dalla razza o dal sesso, a condizione ovviamente che questi meccanismi cerebrali comuni siano sviluppati nello stesso ambiente culturale e in un contesto storico e politico comune.
Infatti, una delle scoperte più impressionanti delle moderne neuroscienze riguarda la straordinaria stabilità strutturale e la “plasticità” funzionale del nostro cervello: quando il nostro cervello riceve informazioni o impara cose nuove, quando subisce nuove esperienze, o se subisce forti cambiamenti dopo una malattia o lesioni gravi, ha la capacità di riorganizzarsi per tutta la vita, cioè può rinnovare costantemente il cablaggio dei suoi circuiti neuronali.
E l’immagine fino a poco tempo fa dominante del cervello adulto come macchina biologica statica e definitivamente fissata, che quando funziona normalmente produce quasi automaticamente la mente umana, mentre quando funziona male manifesta gravi deficienze mentali e malattie (malattie neurologiche e malattie psichiatriche), deve essere considerata, oggi, del tutto obsoleta.
Tuttavia, questa scoperta ottimistica e apparentemente innocente del rinnovamento permanente del cervello ha gravi conseguenze sociali e crea alcuni problemi morali e politici intrattabili. E dovrebbe essere evidente che il recente sviluppo di nuove tecniche di neuroimaging per l’imaging di questi cambiamenti cerebrali è di importanza decisiva non solo per la neurodiagnostica, ma anche per valutare la nostra vita cerebrale nel suo insieme.
Neuropolitica neoliberista
Tuttavia, il riconoscimento ormai universale dell’importanza decisiva del cervello nella nostra vita sociale e la massiccia applicazione delle nuove tecniche di brain imaging e diagnostica pongono il rischio, nell’immediato futuro, di un controllo del cervello umano e, attraverso il “neuroimaging generalizzato “, il controllo più efficace degli aspetti più privati della mente umana. In altre parole, la possibilità di ampliare la già visibile tendenza a cedere alla giurisdizione di un’autorità biomedica onnipotente parti sempre più vaste della nostra vita privata e sociale.
Pertanto, la “rivoluzione neuroscientifica” in atto oggi ha una profonda dimensione morale-politica e solleva ragionevoli interrogativi per il presente e preoccupazioni per il futuro:
1) È legittimo, e in quali casi, controllare o addirittura migliorare le nostre capacità mentali con mezzi neurotecnologici? E se la neuroscienza può tracciare le nostre capacità mentali, dovrebbe essere consentito che vengano registrate in registri pubblici o privati e utilizzate per valutarci da altri?
2) Le nostre caratteristiche soggettive e la nostra personalità sono esaurite dalla completa descrizione scientifica del nostro cervello?
3) E se, come sostengono alcuni eminenti neuroscienziati, la nostra mente e la nostra identità personale o, se preferite, la nostra “anima” si identificano con il nostro cervello, allora che senso può avere ad es. in una competizione elettorale la famigerata “libertà di arbitrio” degli elettori o il diritto alla loro “libera” scelta elettorale, in uno stato in cui appositi sondaggisti — e non solo! — potranno “leggere” in anticipo le preferenze politiche e le nostre scelte elettorali?
Tali questioni sono oggetto di ricerca in “Neuropolitica” e “Neuroetica”, due branche relativamente recenti della Bioetica che tentano di chiarire le conseguenze dell’impressionante sviluppo delle neuroscienze e delle sue applicazioni (neurotecnologie) sia per la società che per gli individui.
Certo, l’invenzione quasi simultanea della “Neuropolitica” e della “Neuroetica” indica due campi di ricerca complementari ma, per il momento, del tutto estranei: da un lato, la ricerca della valutazione politico-morale delle realizzazioni fino ad oggi e della legittimità delle applicazioni delle neuroscienze e, dall’altro, l’interpretazione neurologica del nostro comportamento, cioè la comprensione dei fattori neurobiologici che, in un certo ambiente storico-sociale, influenzano i nostri giudizi morali e le nostre scelte politiche.
Fonte:efisyn.gr