Riproponiamo qui un dibattito molto vivo in Francia sul rapporto tra sinistra e antisemitismo. L’occasione è il botta e risposta tra Danny Trom, un sociologo del CNRS ed Enzo Traverso uno storico attualmente docente alla Cornell University che in Italia ha pubblicato diversi saggi tra i quali La fine della modernità ebraica, Feltrinelli 2013, che è stato il detonatore di questa polemica. Il testo è stato ristampato in Francia in formato tascabile nel 2016 a riprova della buona accoglienza di cui ha goduto. Nulla di tutto ciò è giunto alle nostre orecchie, nemmeno in occasione delle contestazioni di parte degli ebrei italiani nei confronti di Netanyahu durante la sua visita ufficiale a Roma nel marzo scorso. In buona sostanza gli stessi ebrei hanno contestato la massima rappresentanza dello Stato d’Israele, cosa che forse ha lasciato alcuni di noi, forse un po’ distratti, piuttosto sorpresi. Per chi non è ebreo la cosa si fa più seria: contestare Israele rischia di essere considerato un segno di antisemitismo. Letta attraverso questi sintomi la situazione dell’ebraismo contemporaneo rischia di trovarsi stretta nell’analisi di Traverso che vede non solo in Kissinger e Trotskij due polarità emblematiche del mondo ebraico, ma anche il segno di una mutazione dello spirito dell’ebraismo stesso. È principalmente su questo punto che Trom sviluppa la sua corrosiva critica al testo di Traverso che, ai suoi occhi, non è che la riproposizione di un antisemitismo camuffato. Certo è assurdo invocare l’ebraicità per spiegare la portata storico politica di quei due personaggi: quello dei fucili bolscevichi e quello del napalm americano in Vietnam. È però allo stesso tempo vero che in Russia la componente ebraica nello sviluppo della rivoluzione è stata determinante, dando avvio a quella identificazione tra progressismo ed ebraismo che ora è in corso di esaurimento; d’altronde, se non si fosse formato lo stato di Israele, una figura così influente come quella di Kissinger probabilmente non sarebbe stata possibile. Ovviamente il punto è se tutto ciò sia il risultato di una contingenza storica oppure il realizzarsi di un destino iscritto nella stessa ebraicità. Occorrerebbe pensare ad un essenza dell’ebreo, cosa che starebbe alla base della sua identità e allo stesso tempo dell’avversione che gli viene riservata; per non tacere di chi, come Heidegger, che implicitamente viene evocato polemicamente come uno spettro da Trom,  quando parla della vocazione all’auto sparizione dell’ebreo in sé. Non possiamo addentrarci in queste spinose questioni che attraversano non solo la sociologia e il lavoro dello storico, ma anche la filosofia.

A introduzione di questo dibattito vorrei soltanto però segnalare un fatto storico di primaria importanza che condensa in sé moltissime, se non tutte le questioni che in esso vengono agitate.

C’è un punto preciso in cui lo Stato di Israele, appena formatosi dopo l’Olocausto, da una forma giuridica si incarna in qualcosa di molto più profondo e radicale: si tratta del processo Eichmann. Non ci sono parole migliori di Ben Gurion per capire cosa ci sia in gioco nella celebrazione di quello storico processo: «Per la prima volta nella loro storia gli Ebrei potranno giudicare i propri carnefici». E quando Ben Gurion dice storia dice i millenni, dice la Torah e tutto quello che si trova dispiegato tra quei tempi antichi e l’oggi. Da questo punto di vista Traverso coglie senza dubbio un fatto e cioè che siamo in presenza di una mutazione antropologica del modo d’essere ebreo. Nel momento dell’impiccagione di Eichmann Israele si trova catapultato nell’ambito della giustizia terrena. Ad essa deve ora fare riferimento, mentre prima, nella condizione dell’essere perpetuamente oppressi e sconfitti, gli ebrei potevano vantare la bontà del perdente e invocare le sorti progressive della civiltà assieme alla forma del messianesimo che gli è proprio. Kissinger è senza dubbio un’espressione di questo radicale mutamento in cui l’ebreo sta dalla parte del potere e della giustizia; ma sta anche dalla parte dell’oppressore e non più dell’oppresso.

Occorre ricorrere all’ebraicità in sé, anche nella sua forma auto annichilente, per dare conto di un simile mutamento? Si e no, e questa indecidibilità racchiude tutto il problema politico dell’ebraismo. La domanda che ci dobbiamo porre allora non può che essere una: cosa vogliamo veramente dagli ebrei?

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Alessandro Di Grazia è consulente filosofico e redattore di Aut Aut, su cui ha scritto alcuni articoli. Fa parte dello staff che promuove la Scuola di filosofia di Trieste, diretta da Pier Aldo Rovatti, in cui coordina gruppi di lavoro nello stile delle pratiche filosofiche.

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La fine della modernità ebraica, un libro sintomo inquietante di Enzo Traverso

Di Danny Trom

Ristampato in brossura, il successo del libro di Enzo Traverso La fine della modernità ebraica[1] interroga e preoccupa in un contesto di ostilità verso gli ebrei, che oggi in Francia ha assunto le dimensioni di un movimento sociale.

Sul rapporto della cosiddetta sinistra radicale con gli ebrei – oggetto di attuali interrogazioni in un periodo di fiorente antisemitismo – circola voce che La fine della modernità ebraica di Enzo Traverso offra un contributo sostanziale.  La ristampa in edizione tascabile del libro ne testimonia il successo.  Leggiamo nell’introduzione che “Trotsky e Kissinger incarnano due paradigmi antinomici dell’ebraicità”.  Ma come è potuta nascere una proposta così aberrante?  Certo, il lettore può preferire Trotsky – sebbene alla testa dell’Armata Rossa abbia stroncato, in nome della rivoluzione, rivolte nondimeno progressiste – a Kissinger, che ha inondato il Vietnam di napalm.  Ma non è questo il problema, a quanto pare, dal momento che né i presunti fucili ben puntati né il napalm versato indiscriminatamente hanno alcun legame con la realtà ebraica.

Quindi torniamo indietro per assicurarci di aver letto bene.  Sì, è vero: Trotsky, poi Kissinger, la loro successione cronologica, segnalano una “mutazione dell’ebraicità”.  L’ebreo era un contestatore, ora è un conservatore.  Il mondo intellettuale era rivoluzionario, ora è reazionario.  La mutazione dell’ebraicità segue quella del mondo, come un calco.  Il mondo è desolato, ma l’ebreo lo è ancora di più.  Perché il mondo va male e la vocazione dell’ebreo è andare controcorrente ed essere il custode della rivoluzione a tutti i costi.  Chi gli assegna questo compito?  Non lo sappiamo, ma è così, posto come premessa.  Ma rassicuriamoci: l’autore confessa di non essersi mai interessato alla storia degli ebrei “in sé”.  Sulla “ebraicità”, le sue opinioni sono comunque ferme.  Quello che gli interessa apparentemente sono gli ebrei, ma solo “per sé” si potrebbe dire, cioè per sé.  Cos’è allora l’ebraicità in La fine della modernità ebraica?  è l’essenza dell’ebreo una volta che si conforma alle chimere di Traverso.

Ci sono libri che sperano di fare una diagnosi della crisi del tempo, quando sono solo il sintomo più straziante.

Il libro si preannuncia quindi affascinante, almeno per chi volesse conoscere l’autore di questo montaggio e lo spirito che lo anima.  Perché ci sono libri che sperano di fare una diagnosi della crisi del tempo, quando sono solo il sintomo più straziante.  Tra queste tante opere di successo ci sono, ad esempio, Gli ebrei, re del tempo di Alphonse Toussenel alla fine del XIX secolo.  La fine della modernità ebraica è dello stesso genere, con la differenza che prima dichiara il suo fervore per l’ebraicità ben compresa e le sue incarnazioni ispiratrici.  Questo è ciò che rende il libro così interessante: il rimprovero agli ebrei prende potenzialmente delle svolte contraddittorie, reversibili e quindi prevedibili.  I re ebrei dell’era conservatrice sarebbe stato un titolo perfettamente calzante per questa accusa, che dapprima assume la forma di un lamentoso disappunto, poi gradualmente si acuisce.  Troviamo lì, alla rinfusa, tutta la tavolozza degli affetti che motiva l’ostilità divenuta oggi comune, spesso violenta, nei confronti degli ebrei.  Che cosa ?  Non possiamo criticare gli ebrei quando sono infedeli alla loro vocazione?  Certo che possiamo.

Allo stesso modo si può criticare “la religione civile europea dell’Olocausto” che maschera in suo nome tutte le altre malefatte dell’Occidente.  Si può anche criticare il principio stesso di uno Stato per gli ebrei in nome dell’ebraicità.  E si può naturalmente negare, in suo nome, l’antisemitismo non appena esprime qualcosa di specifico che protegge l’islamofobia.  Possiamo, e lo facciamo.  Finché lo fai in nome dell’ebraicità, questo è l’intero trucco.  Ma l’ostilità verso gli ebrei, che oggi in Francia ha assunto la portata di un movimento sociale, non è gravata da questo tipo di camuffamento.  Traduce l’accusa in pratica.  Gli ebrei, divenuti dominatori, sono i vettori dell’imperialismo, del capitalismo finanziarizzato, del razzismo di stato.  Ciò si esprime in modo aggressivo in ampi settori della società, nella Francia delle “periferie” e nella cosiddetta “periferia”.

Comprendiamo che qui sta per l’autore lo spirito stesso dell’ebraicità, vale a dire la sua stessa abolizione.

Ma l’intellettuale Traverso, lui non ha niente a che vedere con l’agitazione della folla.  È nostalgico e il suo ragionamento dialettico.  Come erano felici quei tempi in cui l’ebreo era un dominato, un emarginato, un esule, un vagabondo, un estraneo ansioso o eccentrico ma sempre odiato, un rivoluzionario risoluto o un mite sognatore che sperava nell’improvvisa venuta del messia, un perseguitato o un campo di concentramento emaciato.  Ma l’ebreo preferito di Traverso è senza dubbio “quell’ebreo non ebreo” che fu Isaac Deutscher, colui che, nel movimento della sua negazione di ebreo e della sua contemporanea resurrezione di trotskista, esprime l’essenza dell’ebreo.  Oppure, assumendo il volto dell’emaciato prigioniero dei campi di concentramento, farà anche il trucco: l’ebreo non coincide esattamente con la sua vocazione attestando il male con la sua stessa scomparsa?  Comprendiamo che qui sta per l’autore lo spirito stesso dell’ebraicità, vale a dire la sua stessa abolizione.  Segui ?  Non vedi com’è moderno, tu che vuoi essere niente e riesci così male?

Ne consegue che se l’ebreo persiste in una modalità diversa dalla messa in scena della propria cancellazione, non è altro che il sintomo della Reazione. Capiamo poi anche perché Trotsky, schiacciando la controrivoluzione, e Kissinger, sganciando bombe sul Vietnam, rappresentino l’opposizione all’ebraicità anche se non collegano mai le loro attività insurrezionali o controinsurrezionali alla loro “appartenenza”. Ci pensa Traverso, senza esitazioni.  E se rifiuti, non sarà perché hai un’inevitabile predilezione per Kissinger?

Una tesi così cruda, che prende in ostaggio gli ebrei, rasenta il grottesco.  Nonostante il principio della carità di cui tutti dovrebbero beneficiare, si è tentati di considerarlo malevolo.  E il suo successo trova forse lì il suo principio attivo.  Perché non è la fine della modernità ebraica quella che Traverso ci descrive: è piuttosto l’impasse di un pensiero rivoluzionario che rimugina sulla propria impotenza cadendo in questo “socialismo degli imbecilli” da cui un tempo August Bebel metteva in guardia i progressisti.

Danny Trom, è un Sociologo, ricercatore presso il CNRS, membro del Laboratorio interdisciplinare per lo studio delle riflessività (LIER) e del Centro di studi ebraici (CEJ) presso EHESS

Nota

[1]    E. Traverso, La fine della modernità ebraica, Feltrinelli 2013.


https://www.asterios.it/catalogo/antisemitismo-e-nazionalsocialismo

I nazisti persero la guerra contro l’Urss, gli Stati Uniti e la Gran Bretagna, ma vinsero la loro guerra, la loro «rivoluzione» contro gli ebrei d’Europa. Non solo riuscirono a sterminare sei milioni di bambini, donne e uomini ebrei, ma distrussero una cultura antichissima, quella del giudaismo europeo. Questa cultura si distingueva per una tradizione che incorporava una complessa tensione tra il particolare e l’universale; tensione interna che si duplicava in una tensione esteriore, che caratterizzava la relazione degli ebrei con l’ambiente cristiano circostante. Gli ebrei non fecero mai completamente parte delle società nelle quali vivevano; e mai, tuttavia, si trovarono completamente esclusi da esse. Ciò ebbe per gli ebrei delle conseguenze spesso funeste, ma talvolta molto fruttuose. Questo campo di tensione, in seguito all’emancipazione, si era sedimentato nella maggior parte degli individui ebrei. Nella tradizione ebraica, la risoluzione ultima di questa tensione tra il particolare e l’universale, è una funzione del tempo, della storia: l’avvento del Messia. È possibile che di fronte alla secolarizzazione e all’assimilazione, l’ebraismo europeo avrebbe rinunciato a questa tensione; forse questa cultura sarebbe gradualmente scomparsa come tradizione vivente, prima che la risoluzione della tensione tra il particolare e l’universale si fosse realizzata. Questa domanda rimarrà per sempre senza una risposta.


In un’Opinione pubblicata qualche settimana fa da AOC, il sociologo Danny Trom è tornato su La fine della modernità ebraica di Enzo Traverso e ha proposto di considerarlo come un inquietante libro sintomo.  Lo storico gli risponde.

Antisemitismo: di cosa stiamo parlando?

Di Enzo Traverso

Danny Trom “si interroga” e “si preoccupa”, in AOC, sul “successo” del mio libro The End of Jewish Modernity (Éditions La Découverte, 2013, ristampato come raccolta tascabile due anni dopo).  Non avevo notato un tale successo, ma la nozione di successo, si sa, è relativa.  Rispetto a quelli particolarmente indigesti di certi critici, il mio saggio è forse un bestseller.

Come si spiega allora un tale “successo”?  Trom conosce la risposta: sarebbe un “sintomo” del nuovo antisemitismo che sta nascendo e “che oggi in Francia ha assunto la portata di un movimento sociale”.  Proviamo a considerare i suoi argomenti.  Comincia mettendo in discussione la distinzione che faccio nell’introduzione tra Leon Trotsky e Henry Kissinger, le incarnazioni di due dimensioni del mondo ebraico nel ventesimo secolo, una rivoluzionaria e l’altra conservatrice.

Esiste una vasta letteratura sia sugli ebrei e la rivoluzione russa che sugli “ebrei di Stato”, ma il mio critico – che è pur sempre un sociologo del CNRS – sembra ignorarla perché trova questa distinzione semplicemente “aberrante”.  Ai suoi occhi, nessuno dei due avrebbe “alcuna relazione con il fatto ebraico”.

In fondo, il mio libro sarebbe il sintomo delle derive antisemite della sinistra radicale, una corrente che “rimugina sulla propria impotenza” e inevitabilmente cade nelle trappole del “socialismo degli imbecilli”, genere inaugurato quasi due secoli fa da Alfonse Toussenel, autore di Re ebrei dell’epoca (1847), e che rinnoverei oggi.

La differenza tra noi sarebbe che il mio antenato mostrava apertamente il suo odio per gli ebrei, mentre io lo nascondo dietro il mio “fervore per l’ebraicità ben compresa e le sue incarnazioni ispiratrici”.  Questo stratagemma mi permetterebbe così di “criticare il principio stesso di uno Stato per gli ebrei in nome dell’ebraicità” e di “negare” l’antisemitismo stesso come qualcosa che farebbe da scudo all’islamofobia.

La lista nera dell'”islamo-sinistra” è una nota antifona di molti giornalisti e intellettuali conservatori, affezionati ai sostenitori incondizionati della politica israeliana.

Chiaramente, Trom definisce antisemiti coloro che criticano «il principio stesso di uno Stato ebraico per gli ebrei» (vale a dire la stragrande maggioranza degli ebrei prima della seconda guerra mondiale e molti di loro oggi).  Sono infatti contrario a questo principio, come lo sono a uno Stato cristiano per i cristiani o a uno Stato islamico per i musulmani.  Sono piuttosto favorevole a uno Stato laico e democratico in cui tutti i popoli che oggi abitano Israele e i territori palestinesi, cioè gli ebrei e gli arabi, possano vivere insieme, su base egualitaria, indipendentemente dalla loro religione.  Il che non è il caso di Israele.

Trom difende senza dubbio il principio di uno stato etnico o confessionale, un’idea che lo mette in buona compagnia con i difensori della tesi del “grande sostituto”.  D’altra parte, suggerisce che coloro che criticano l’islamofobia sono fondamentalmente solo antisemiti.  Denunciare la xenofobia e il razzismo dei nuovi diritti europei, che hanno fatto di migranti, rifugiati e musulmani il loro bersaglio principale, sarebbe quindi solo una strategia ben calcolata per nascondere l’antisemitismo, ovviamente l’ossessione esclusiva di Trom.

L’idea non è nuova: l’inserimento nella lista nera dell'”islamo-sinistra” è una nota antifona di molti giornalisti e intellettuali conservatori, particolarmente affezionati ai sostenitori incondizionati della politica israeliana.

Ma veniamo al punto.  Il nucleo fondamentalmente antisemita del mio libro risiederebbe nella mia ammirazione per Isaac Deutscher, lo storico marxista a cui dobbiamo il concetto di “ebreo non ebreo”, un appello per gli ebrei eretici che ruppero con la religione e svilupparono il loro spirito critico contro l’ordine dominante: Spinoza, Marx, Freud, Rosa Luxemburg, Trotsky e molti altri.  “L’eretico che trascende il giudaismo fa parte di una tradizione ebraica”, ha scritto Deutscher.

Dietro la mia ammirazione per quest’ultima, Trom scorge un desiderio di annientamento dell’ebraicità stessa: “Si capisce che qui sta per l’autore lo spirito stesso dell’ebraicità, cioè la sua stessa abolizione.  (…) Ne consegue che se l’ebreo persiste in una modalità diversa dalla messa in scena della propria cancellazione, non è altro che il sintomo della Reazione”.

Questo argomento, la cui straordinaria finezza critica sarà apprezzata da tutti, è stato utilizzato molte volte per denunciare il presunto antisemitismo di Marx.  Nel 1959, un degno precursore di Trom, Dagobert D. Runes, dipinse un ritratto dell’autore del Manifesto del partito comunista ispirandosi a Hitler, con il titolo Un mondo senza ebrei (prefazione alla sua stessa traduzione di Zur Judenfrage).  Oggi prenderei la fiaccola;  il che, settant’anni dopo la seconda guerra mondiale, equivale a chiedere scusa per l’Olocausto.

Non ho scritto il mio libro nella speranza di suscitare reazioni consensuali e la sua critica è certamente legittima.  È ancora necessario attaccare le sue idee senza farne una caricatura.

Quando l’articolo di Trom è stato portato alla mia attenzione, domenica 9 giugno, mi trovavo a Berlino, dove stavo partecipando a un convegno internazionale dedicato a uno dei più grandi storici del XX secolo, George L. Mosse: una sezione del convegno era incentrata sulla sua opera intitolata Gli ebrei tedeschi oltre il giudaismo.

Poiché Trom non era presente per illuminarci, nessuno tra i tanti partecipanti, compresi alcuni professori dell’Università Ebraica di Gerusalemme, si è reso conto delle implicazioni fatali di questo “oltre” nel titolo, rivelando un desiderio inconscio di annientamento degli ebrei. Per seguire Trom, avremmo comunicato tutti, senza saperlo, con lo spirito genocida stesso.

Esiste infatti un antisemitismo di sinistra – o meglio a sinistra, secondo il giudizioso sviluppo dello storico Michel Dreyfus – che August Bebel una volta chiamò il “socialismo degli imbecilli”.  Nel XIX secolo consisteva nell’attaccare gli ebrei nella convinzione che si stessero ribellando contro il capitalismo predatore e parassitario.

Oggi si esprime in diverse forme.  Ad esempio tra i poveri di spirito che hanno dato fuoco a una sinagoga convinti di protestare contro il regime di occupazione che Israele infligge ai palestinesi.  Esiste, ahimè, anche un “filosemitismo degli imbecilli” – Danny Trom ne è un illustre rappresentante – che consiste nel rilevare ovunque le tracce di una cospirazione antisemita universale.

Chi sarebbero i cospiratori?  Certo gli antirazzisti, complici dell’oscurantismo etnico-religioso della nostra plebe suburbana ferocemente resistente all’opera civilizzatrice della repubblica, e soprattutto gli antisionisti di sinistra, quelli di destra diventati rarissimi da quando Trump, Bolsonaro, Marine Le Pen e persino Victor Orban hanno mantenuto ottimi rapporti con Israele.

Estremamente astuta e dissimulata, questa cospirazione antisemita includerebbe anche storici dell’esilio ebraico e dell’Olocausto. Il socialismo e il filosemitismo degli imbecilli si alimentano a vicenda. Il primo va combattuto, va da sé, ma può essere superato con l’educazione e la spiegazione. Leggendo la prosa di Trom, invece, il secondo mi sembra più difficile da sopprimere.

Non ho scritto il mio libro nella speranza di suscitare reazioni consensuali e la sua critica è certamente legittima. È comunque necessario attaccare le sue idee senza farne una caricatura. Una recensione richiede un minimo di onestà intellettuale, che a Trom manca.  Ciò che “rasenta il grottesco” nel suo testo è il modo in cui mi attribuisce le proprie fantasie.

Enzo Traverso, è uno Storico, professore alla Cornell University.


https://www.asterios.it/catalogo/la-lobby-israeliana-e-la-politica-estera-degli-usa


https://www.asterios.it/catalogo/negazionismo-sinistra

Tra la fine degli anni Settanta e gli anni Novanta, settori minoritari del radicalismo di sinistra italiano e francese si fecero portavoce delle tesi del negazionismo della destra radicale.
Il loro tentativo di negare l’esistenza delle camere a gas e della Shoah si basava sulla pretesa di interpretare in termini marxisti e storico-materialistici l’antisemitismo nazista.
Per un verso, questa convergenza sinistra radicale-destra radicale non era una novità nel panorama politico-culturale del Novecento; per l’altro verso, il negazionismo di sinistra aveva cercato di spacciare per “padre” del negazionismo Amadeo Bordiga, attribuendogli uno scritto che in realtà non era opera di questo prestigioso dirigente del movimento comunista degli anni Venti: la colossale menzogna negazionista si fondava, a sua volta, su un’altra menzogna, paradossalmente accettata dalla consistente bibliografia internazionale sul negazionismo.
La ricostruzione di questa vicenda, quasi del tutto sottovalutata dalla storiografia sul negazionismo, può comunque essere utilizzata come laboratorio per verificare un intricato nodo di problemi, a cominciare dall’atteggiamento dei dottrinari davanti alla storia e al passato.
Ma v’è di più. Pur riscuotendo scarsa udienza nella stessa area del radicalismo di sinistra, questo fenomeno politico minoritario aveva inconsapevolmente fatto emergere alcuni limiti della tradizione teorico-politica del marxismo, cui esso si richiamava; in particolare, la lacunosa interpretazione del fenomeno dell’antisemitismo da parte del marxismo “classico”, nonché la difficoltà, se non l’impossibilità, di fornire una teoria marxista del totalitarismo.