La buona notizia sull’uomo

Premessa

“Se mi domandate quali risposte possano dare la teologia e la chiesa ortodossa ai grandi problemi come la pace nel mondo, il rapporto nord–sud e così via, consentitemi una risposta estremamente personale. Io non riesco a comprendere la mia appartenenza alla chiesa in termini di responsabilità per la pace nel mondo, per la situazione dell’America Latina, per il progresso della società, per la velocità stessa di questo progresso. Vi dico onestamente che io appartengo alla chiesa perché ho un problema con la morte: voglio trovare una risposta al problema della morte; e con questo, credo anche di poter trovare una risposta al problema della vita.

“Ho imparato leggendo la storia che quando si arriva a trovare veramente una risposta a questo problema, grazie a questa sola scoperta muta l’interò quadro della realtà. Credo, in altri termini, che vi siano altre «norme», altre sfumature interiori della vita che fanno sì che la realtà cambi se ci liberiamo dalle nostre esigenze individuali. Così, ho qualcosa da proporre che non è una formulazione intellettuale, ma un realtà concreta.

“Non si può superare lo scacco della natura umana, il peccato; è una cosa impossibile, e lasciatemi dire che per fortuna è così, perché ogni giorno siamo di fronte alla tentazione, alla sfida della libertà; allora non dobbiamo sognare una società universale, un mondo nella pace, nella felicità e nel progresso. È un sogno troppo «antiumano», se mi consentite. È inumano. Bisogna trovare una risposta reale all’enigma della nostra esistenza, trovare vie possibili per l’annuncio della chiesa, ed è necessario poter palpare quest’evangelizzazione, per essere sicuri che sia efficace.

“La possibilità di vivere oltre la morte, liberi cioè dallo spazio e dal tempo, può far sì che tutto cambi, senza trasformare le persone in angeli, ma aprendo ugualmente prospettive nuove. Nella storia della chiesa noi abbiamo dei precedenti che mostrano come l’annuncio di verità della chiesa abbia veramente saputo creare delle culture concrete che hanno rappresentato, per l’intera società, un modo di vivere molto più umano rispetto a quello del mondo attuale.

“L’imbarbarimento della cultura nella quale viviamo ha veramente raggiunto le dimensioni di un incubo. Allora non abbiamo da proporre altro che una risposta concreta al senso della vita. Senso della vita che vuol dire significato del vivere quotidiano! Senso della vita di ogni momento! È l’unica cosa che la chiesa è veramente in grado di proporre”.

Con queste parole, sferzanti ed eloquenti al tempo stesso, Christos Yannaras rispondeva all’Institut Saint–Serge di Parigi, in occasione della domenica dell’ortodossia del 1994, a una giovane donna che reclamava pronunciamenti a carattere sociale da parte di un filosofo e teologo del suo valore.

Al di là della situazione contingente, tutta l’opera di Yannaras ruota intorno al problema dell’uomo, del senso della vita e della morte a cui siamo inesorabilmente soggetti. Attorno all’uomo, certo, tesi a cogliere quel che la chiesa può dire, con discrezione e tuttavia con passione, sull’appello all’esistenza che Dio rivolge a tutti e a ciascuno. È l’evangelo, la buona notizia sull’uomo, il lieto annuncio che la morte è vinta, che la vita non può soccombere se, andando con l’orecchio del cuore al di là delle voci della natura, sappiamo riconoscere il tacito grido della verità, che instancabilmente il Creatore sussurra a ognuno di noi.

È quanto ci pare costituisca l’oggetto di una ricerca appassionata, che ha impegnato il nostro autore per tutta la vita, e che ci pare ben riassunta nel saggio che proponiamo in questo fascicolo breve ma chiaro, utile in particolare a chi, come noi occidentali, ha bisogno di ritornare ad abbeverarsi alle fonti della comune tradizione della chiesa indivisa, senza la quale l’evangelo sull’uomo resterebbe un annuncio parziale.

L’immagine

 

Nella tradizione della chiesa del primo millennio e nella sua continuità storica ortodossa, è grazie allo studio intorno alla rivelazione della verità su Dio che è possibile prender coscienza della verità riguardo all’uomo. Un’antropologia descrittiva (che anche le «scienze dell’uomo» sono in grado di offrire) non ci può infatti bastare. Cerchiamo una spiegazione del fatto dell’esistenza umana, la messa in luce di quelle sfaccettature dell’essere umano che restano irriducibili a qualsiasi spiegazione oggettiva.

Nella tradizione scritta della rivelazione divina, la Scrittura, Dio è affermato come esistenza personale, e l’uomo, in quanto essere creato a immagine di Dio, è anch’egli esistenza personale, sebbene appartenente alla natura creata. Questo rapporto originario dell’uomo con Dio, che stabilisce il modo stesso dell’esistenza umana, è figurato nelle prime pagine dell’Antico Testamento per mezzo di una narrazione poetica e simbolica dalla quale il pensiero cristiano ha costantemente desunto i principi fondamentali dell’antropologia teologica.

Così ci è dato leggere, nella Genesi, che Dio ha plasmato il mondo in sei giorni. Tutto ciò che costituisce il cosmo è stato creato da Dio tramite il solo comando della sua parola (lògos). E, il sesto giorno, in cui si è completata la creazione, quando ha chiamato all’esistenza gli animali selvatici, il bestiame e gli esseri che strisciano sulla terra, Dio, avendo visto la bellezza di tutto quel che aveva fatto, proseguì nella sua opera modellando l’uomo. Con il suo linguaggio figurato, il racconto biblico ci presenta la creazione dell’uomo come un atto eccezionale di Dio: non si tratta più di un comando creatore bensì, in primo luogo, dell’espressione di una decisione divina, nella quale l’esegesi cristiana ha sempre letto la prima rivelazione del carattere trinitario di Dio: «Facciamo l’uomo a nostra immagine, a nostra somiglianza, e domini sui pesci del mare e sugli uccelli del cielo, sul bestiame, su tutte le bestie selvatiche e su tutti i rettili che strisciano sulla terra» (Gen 1,26).

Nel caso dell’uomo non si ha più a che fare con un essere chiamato a essere parte integrante del mondo, quanto con una creatura che la volontà di Dio differenzia da tutte le altre perché essa sia immagine di Dio nel mondo, il che significa manifestazione, apparizione e rappresentazione immediata di Dio. Del resto, è proprio la parola ebraica zelem, che i Settanta tradurranno con eikón, a voler dire apparizione, rappresentazione, equivalenza, sostituzione. L’uomo regna così in seno al creato, non come un plenipotenziario o come un padrone imposto, bensì come una guida pronta a condurre l’intera creazione verso il suo fine ultimo o lògos.

Questo carattere del tutto peculiare della volontà e della decisione divina che creano l’uomo è completato, nell’immagine biblica, da un atto divino eccezionale: «Dio plasmò l’uomo con polvere del suolo e soffiò nelle sue narici un alito di vita e l’uomo divenne un’anima vivente» (Gen 2,7). Nessun’altra creatura, nel racconto biblico, viene plasmata da Dio. Il materiale utilizzato per modellare l’uomo non è altro che la polvere del terreno, e questa proprietà di essere sorto dalla terra sarà anche il nome del primo uomo: Adamo (fatto di terra). Ma la natura umana, fatta di terra, è forgiata da una particolare azione divina, è modellata da Dio, per ricevere, poi, il soffio dell’alito divino che innalza l’uomo al rango di «anima vivente».

Soffiare sul volto dell’altro è sempre stato per gli ebrei (e per i popoli semitici più in generale) un atto profondamente simbolico: voleva dire che si trasmetteva all’altro il proprio alito, qualcosa di estremamente intimo, la propria coscienza di sé, il proprio spirito. La respirazione è, in effetti, principio vitale, è l’elemento che rende ogni uomo un essere attivo. Ogni stato d’animo come la paura, la collera, la gioia, l’arroganza, influisce sul respiro e testimonia il legame che intercorre tra la respirazione e la parte più profonda del nostro essere, la nostra interiorità. Allora, quando la Scrittura ci dice che Dio soffia il suo alito sul volto dell’uomo fatto di polvere, siamo in presenza di un’immagine che rivela la trasmissione all’uomo di qualche segno dell’esistenza stessa di Dio. Nel linguaggio biblico, il risultato di tale trasmissione è che l’uomo diviene un’anima vivente.

 

L’anima

 

La parola anima (psyché in greco) è una delle parole più complesse che ci è dato incontrare, nella Bibbia come in tutta la letteratura cristiana. Per di più, a questa difficoltà si è via via aggiunta una confusione di ordine semantico, dato che gli antichi greci la utilizzavano secondo un senso notevolmente diverso. Ai nostri giorni la maggior parte delle persone recepisce quasi istintivamente la parola anima nel suo significato greco (soprattutto platonico) piuttosto che nella sua accezione biblica: è diffusa la convinzione che così come si trovano nel corpo umano il sangue, la linfa, il midollo delle ossa, esista altresì un elemento immateriale, spirituale, sostanzialmente distinto dagli elementi materiali che ci costituiscono. Sarebbe dunque questa l’anima, un’entità vaga e sottile che, nel giorno della nostra morte, fuoriesce da noi con l’ultimo nostro respiro e se ne va «da qualche altra parte».

Ma questo non è il significato biblico di tale vocabolo. I Settanta hanno reso con il greco psyché la parola ebraica nefesh che possiede diverse sfumature di significato. Si dice «anima» ogni essere vivente, tutti gli animali, pur essendo un termine che la Scrittura applica di preferenza all’uomo. Esso esprime il modo in cui si manifesta la vita nell’uomo. Non è in relazione a una sola parte dell’esistenza umana — quella spirituale in contrapposizione a quella materiale — ma vuol significare tutto l’uomo come unica ipostasi vivente. L’anima non risiede semplicemente nel corpo, ma è espressa dal corpo che, come la carne o il cuore, corrisponde al nostro io, al modo a noi proprio di realizzare la vita. Un’anima è un uomo, è qualcuno, perché costituisce l’evidenza della vita, nella sua manifestazione esteriore come nella sua interiorità e soggettività. Ma se l’anima è il segno della vita, questo non vuol dire che ne sia la fonte o la causa, come invece pensavamo gli antichi greci; è piuttosto il supporto della vita; ecco perché, molto spesso, nell’Antico Testamento viene identificata con la manifestazione della sola esistenza terrena (l’anima muore, è consegnata alla morte, ma resuscita quando la vita fa ritorno nel corpo che era morto). Nel Nuovo Testamento, di contro, l’anima si presenta con in più il carattere di supporto della vita eterna; e così la salvezza dell’anima e identificata con la possibilità data alla vita di ignorare la corruzione e la morte.

I padri della chiesa, interpretando la Scrittura, rispettarono in modo assoluto il senso molteplice del termine anima e non si azzardarono a formalizzarlo secondo un’unica accezione. Essi scorsero, nell’anima come nel corpo degli uomini, due modalità differenti e spesso compenetrantesi per manifestare l’immagine divina nell’uomo. Evitarono però di rappresentare il contenuto del «secondo l’immagine» facendo uso di una definizione concreta; si sforzarono di non incorrere nel pericolo costituito dalle concettualizzazioni intellettuali del mistero del modo desistenza di Dio e della sua impronta nell’esistenza umana.

Ben più tardi, essenzialmente a partire dal medioevo e soprattutto in occidente, quando la teologia cristiana cominciò a cedere alla tentazione delle rappresentazioni intellettuali, si interpretò il «secondo l’immagine» con l’ausilio di categorie «oggettive» e lo si identificò con determinate qualità che caratterizzano la «natura spirituale» dell’uomo. La visione dell’uomo che prevalse in occidente aveva subito l’influsso considerevole del pensiero greco—antico, con delle semplificazioni tuttavia eccessive. La definizione mutuata dalla filosofia greca dell’uomo come animale dotato di ragione («animal rationale» si dirà in occidente) fu interpretata nel senso di una separazione—opposizione fra anima e corpo, materia e spirito. L’uomo era dunque considerato come essere anzitutto biologico, fornito in più di un’anima o di un’anima e uno spirito.

In seno a questa opposizione, il «secondo l’immagine» fu ristretto a una di queste due parti della natura umana: la «componente» spirituale, cioè l’anima, poiché la «parte» corporale — materiale — non poteva, per definizione, raffigurare Dio che è immateriale e spirituale. Si riteneva che l’anima dell’essere umano — anima individuale — fosse dotata di tre qualità che caratterizzano anche Dio e che fissano di conseguenza nell’uomo l’immagine divina. Si tratta della ragione, del libero arbitrio e dell’autorità (archikón).

 

Ragione, libero arbitrio, autorità

 

Per risparmiare al lettore la complessità dello sviluppo storico ci limiteremo ad osservare quanto segue: questi tre attributi sono stati utilizzati anche dai padri greci nella loro interpretazione dell’immagine e somiglianza divine, tuttavia soprattutto per precisare il modo d’esistenza dell’uomo preso nella sua integralità, senza spezzettamenti né divisioni in «più parti» della sua natura. La ragione, il libero arbitrio e l’autorità non sono solo qualità «spirituali» o «psichiche», ma una ricapitolazione sinottica del modo in cui ritorno esiste in quanto alterità personale, alterità che riguarda anzitutto la natura: sebbene la sua natura sia creata, all’uomo è stata data la possibilità di un modo d’esistenza diverso dal modo d’essere di ciò che è creato. Egli è stato investito della possibilità del modo d’esistenza di Dio; questo si manifesta in massima misura nel dono della ragione, della libertà e dell’autorità. Tali doni rivelano, senza esaurirla, l’immagine di Dio nell’uomo; le difficoltà nell’esercizio di questi doni non possono dunque abolire il modo d’esistenza personale, che è stato concesso gratuitamente alla natura umana.

Questa potrebbe apparire una formulazione teorica, ma chi legge saprà coglierne il significato, supponendo per un istante di condividere la visione che aveva prevalso in occidente. Se ammettiamo che ragione, libero arbitrio e autorità rappresentino la totalità dell’immagine divina e la limitino a un complesso di qualità donate all’anima o alla «natura spirituale» dell’uomo, le conseguenze che derivano da questa concezione sono letteralmente inumane: perché allora, nel caso avvengano alterazioni o traumi cerebrali che comportino la perdita parziale o totale della ragione, della libertà e dell’autorità, ci troveremo costretti a degradare l’uomo dal livello della somiglianza divina a quello di un semplice animale. E non si dovrà più ritenere umano chi sarà affetto da tare di questo tipo fin dalla nascita!

 

La persona

 

Potremmo tentare di riassumere l’interpretazione ortodossa del «secondo l’immagine» in questo modo: l’uomo ha ricevuto da Dio la grazia di essere una persona, una personalità, ovvero ha ricevuto in dono di esistere secondo il modo stesso di esistere che è di Dio. La divinità di Dio è costituita dalla sua essenza personale, dalla Trinità delle ipostasi personali le quali fanno sì che l’essere, la natura o l’essenza divina, sia una vita d’amore libera da qualsiasi necessità. Dio è Dio perché è persona, vale a dire perché la sua esistenza non dipende da nulla, neppure dalla propria natura o essenza. Egli stesso, in quanto persona, cioè liberamente, fonda la propria essenza o natura; ma non è la sua natura che rende obbligatorio il suo esistere. Esiste perché, liberamente, vuole esistere, e questa volontà si realizza come amore, come comunione trinitaria.

Ecco perché Dio è amore (1Gv 4,16) e il suo essere stesso è amore. La stessa possibilità di un’esistenza personale è stata impressa da Dio nello statuto ontologico dell’uomo. La natura umana è creata, donata; non è la libertà personale dell’uomo che ne costituisce l’essere, che fonda la sua essenza. Tuttavia, questa natura creata, esiste solo come ipostasi personale della vita. Ogni essere umano è un’esistenza personale che può ipostatizzare (cioè fondare) la vita come amore, come libertà al cospetto dei limiti della natura creata e al di là di ogni necessità, al pari del Dio increato. Diciamo ancor più semplicemente: Dio è al tempo stesso una natura e tre persone, l’uomo è nel contempo una natura e una moltitudine di persone. Dio è consustanziale e «triipostatico», l’uomo è consustanziale e «multiipostatico». La distinzione delle nature, la differenza fra increato e creato, può essere superata sul piano del modo d’esistenza che li accomuna: il modo d’esistenza personale. Questa verità ci è stata rivelata nell’incarnazione di Dio, dalla persona di Gesù Cristo. L’uomo è immagine di Dio. Ciò significa che ogni uomo può realizzare la propria esistenza sull’esempio di Cristo, come persona, proprio come le persone del Dio trinitario, per realizzare la vita intesa come amore, come libertà e non come necessità naturale. La vita diviene così eternità e incorruttibilità poiché la vita divina connotata dalla pericoresi e dalla comunione trinitaria è eterna e incorruttibile.

 

Il linguaggio delle scienze

 

Il lettore che si sente a disagio di fronte a questa terminologia — natura, persona, ipostasi — potrà, forse, esigere una risposta a domande più concrete: se l’uomo è a immagine di Dio, come si manifesta nel suo corpo, nella sua anima o nello spirito questa realtà? Che cosa ne è dell’immagine di Dio nell’uomo quando il suo corpo perisce e si decompone nella terra, quando si spegne, nell’ultimo sguardo o nell’ultimo sorriso, ogni segno di attività dell’anima e dello spirito?

Questi interrogativi sono cruciali. Se rimangono privi di risposta, tutto resta campato per aria e frutto d’immaginazione. Il lettore deve nondimeno riconoscere che il linguaggio necessario per rispondere a simili questioni non può essere quello della fisica e della geometria, che parlano in termini di pesi e misure. La lingua che s’impone dovrà essere in grado di descrivere esperienze qualitativamente differenziate, esperienze di relazioni vissute, ma dovrà anche esprimere una «sensibilità» segno di una conoscenza che non è garantita dai sensi. La chiesa ha espresso queste esigenze usando una terminologia improntata inizialmente alla lotta drammatica che era in corso nei secoli della filosofia ellenistica riguardo al senso della vita e dell’esistenza. Nonostante ciò, lungi dal rimanere intellettualistico e filosofico, il linguaggio ecclesiale seppe farsi anche canto, inno, adorazione, prassi di comunione e di festa. Affronteremo in questa sede unicamente l’involucro filosofico di tale linguaggio, ma sottolineiamo che la pienezza della sua «semantica» può essere colta nella prassi ecclesiale del culto, attraverso l’esperienza di comunione del corpo ecclesiale.

La questione è dunque: che ne è dell’immagine di Dio nell’uomo al momento della morte corporale e della cessazione di ogni espressione dell’anima? Dobbiamo vedere se esistono parole per dire anzitutto cosa è il corpo e cosa sono l’anima e lo spirito, e quale dei due stabilisce quella che chiamiamo esistenza dell’uomo, la sua identità personale, il suo io, la sua coscienza riflessa.

L’uomo razionale della nostra epoca tende a identificare l’esistenza umana — l’io, l’identità, l’anima, la coscienza riflessa, la mente — con l’oggetto concreto e tangibile che forma l’organismo biologico e multifunzionale dell’uomo: tutto dipenderebbe dal funzionamento dei «centri» cerebrali, il cui operare sarebbe completamente predeterminato dalla costituzione biochimica o dal codice genetico — ugualmente biochimico — di ogni individuo, vale a dire dai cromosomi, il DNA, nel quale si troverebbe rinchiuso il «codice» di sviluppo della personalità. Non resta dunque più alcun margine per supporre l’esistenza di un’anima né, quindi, per pensare la possibilità che sopravviva «qualcosa» dell’uomo dopo la morte del suo organismo biologico.

Sfortunatamente questa accezione semplicistica — sebbene sia oggi diffusa a tal punto che ci si accontenta facilmente di essa — lascia dei vuoti immensi nella comprensione dell’uomo, pari, per lo meno, a quelli lasciati dal platonismo volgare che parla di «immortalità dell’anima». In linea teorica la scienza della biochimica, come ogni autentica disciplina scientifica, non fa che constatare e descrivere, anche nelle sue determinazioni analitiche più concrete. Essa indica, per la precisione, che le possibilità di sviluppo dell’organismo sono iscritte nel «codice» del cromosoma iniziale; constata la presenza di legami organici tramite i quali si svolge il funzionamento dei centri cerebrali, e così via. Ma essa oltrepassa i propri limiti di scienza rigorosa nel momento in cui si spinge al punto di formulare conclusioni metafisiche non dimostrate.

Ciò accade anche quand’essa sostiene che la composizione biochimica dei cromosomi e il funzionamento dei centri organici della struttura fisiologica umana fanno qualcosa di più che mettere in opera e rivelare il modo d’alterità ipostatica della persona: a detta di alcuni biochimici, questi elementi stabilirebbero e costituirebbero questo modo d’essere.

Perché tuttavia noi escludiamo che quel che un essere umano è, in quanto esistenza personale, differente e irripetibile, debba essere necessariamente dovuto alla differenziazione della composizione biochimica dei suoi cromosomi e, di conseguenza, al funzionamento dei vari «centri» del cervello? Perché il ruolo della composizione chimica e dei processi biologici si limita, a nostro parere, alla messa in opera e alla semplice manifestazione dell’alterità ipostatica di ogni essere umano, senza peraltro estendersi alla costituzione e il fondamento stessi di quest’alterità?

Per la semplice ragione che una tale estensione è esclusa dalla logica stessa dell’attuale metodologia scientifica. Se riteniamo che la composizione biochimica dei cromosomi e il funzionamento dei «centri» cerebrali non solo metta in opera e riveli l’alterità ipostatica di ogni uomo, ma ne sia anche la causa, allora saremo condotti ad ammettere che questa alterità ipostatica dell’uomo (la personalità, la psicologia, l’identità, l’io) venga determinata in modo estremamente rigoroso dall’organismo biologico e dalle sue funzioni. Finiremo per accettare, per dirla in altri termini, che i principi e le funzioni biologiche che fondano e mantengono la corporeità dell’uomo definiscano ed esauriscano in se stessi l’intero fatto dell’esistenza o l’ipostasi del soggetto umano. Di conseguenza, ciò equivarrà ad ammettere che nessun fattore «psicogenetico» possa limitare o sospendere l’autonomia di tali funzioni.

Ora, una simile asserzione è smentita da un piccolo esempio frutto delle investigazioni di un’altra scienza «positiva», la psicologia clinica contemporanea: il fatto che un lattante anoressico si trascini da solo verso la morte è prova evidente che la sua «anima» è incomparabilmente più determinante per la sua esistenza e la sua ipostasi di quanto lo sia il meccanismo regolatore che presiede alle sue funzioni biologiche. Persino nelle sue interpretazioni più positiviste la scienza attuale della psicologia ha provato senza possibilità di recedere da questa acquisizione — grazie a un mare di esempi rivelatori come quello del lattante anoressico — che quella che noi chiamiamo «soggettività» o «io» precede e determina il funzionamento del corpo biologico. Se, malgrado tutto, ci ostiniamo a credere che l’anoressia «psicogenetica».del neonato sia causata da reazioni di natura biochimica, dovremo allora spiegare per quale ragione il fattore biologico può, all’occorrenza, autodistruggersi, opporsi a se stesso. Una logica coerente non può trovare delle ragioni che giustifichino una simile contraddizione.

 

Il linguaggio ecclesiale

 

L’antropologia biblica e patristica non si oppone né alle constatazioni né al linguaggio della biochimica contemporanea, la quale non può confutarne le affermazioni. Chi si preoccupa sono gli adepti d’un platonismo volgare che si è spesso mascherato da cristianesimo e ha tenuto di sostituirsi alla verità riguardo all’uomo rivelata dalla fede.

Di fatto, se ammettiamo che il corpo umano è un vero e proprio ente, e che l’anima è a sua volta un’altra entità che, sola, fonda l’uomo e forma la personalità, l’io, l’identità del soggetto — concependo il corpo puramente come involucro o strumento dell’anima, incapace di esercitare su di essa degli influssi — allora la biologia moderna entrerà certamente in contraddizione con le nostre ipotesi, e il suo linguaggio risulterà incompatibile con il nostro.

Ma questa accezione platonizzante non trova alcun sostegno nella tradizione biblica e patristica. Alla domanda su che cosa sia il corpo e che cosa sia l’anima secondo i criteri della tradizione cristiana, noi rispondiamo: il corpo, così come l’anima, sono delle energie della natura umana, cioè i modi secondo i quali opera il fatto dell’ipostasi (la personalità, l’io, l’identità del soggetto). L’essere concreto di ogni essere umano, la sua esistenza o ipostasi reale, quell’io profondo che fa di lui un fatto esistenziale, non si identifica né con il corpo né con l’anima. Anima e corpo non fanno che rivelare e mettere in luce ciò che è l’uomo, e costituiscono le energie, le manifestazioni, delle modalità per evidenziare, delle funzioni rivelatrici dell’ipostasi umana.

Mi pare utile ricordare cosa intenda dire la teologia ortodossa quando parla di energie: si tratta di proprietà generali della natura umana che mettono in atto ed esprimono, nondimeno, il carattere unico, differente e insostituibile di ogni concreta ipostasi umana. Tutti possiedono le stesse funzioni corporali e psichiche: respiro, digestione, metabolismo, facoltà intellettive, giudizio, immaginazione. E tuttavia, è grazie a funzioni comuni che ogni essere umano si differenzia in modo definitivo. Ciò accade sia attraverso tratti e connotati puramente fisici o psichici che lo individuano (per esempio le impronte digitali o il senso d’inferiorità) sia tramite il loro interpenetrarsi (pericoresi): lo sguardo, la parola, la fisionomia, i gesti, tutti quei modi di esprimersi del soggetto che rendono assai difficile l’individuazione dei confini fra corpo e anima.

Per quanto abbiamo detto, l’essenza dell’uomo, la sua ipostasi, non si identifica né con il corpo né con l’anima, ma è soltanto messa in atto, espressa e rivelata attraverso funzioni corporali e psichiche. Ecco perché nessuna infermità, degradazione o malformazione fisica nessuna malattia mentale può attentare alla verità di qualsiasi essere umano, all’io profondo che fa dell’uomo un fatto esistenziale.

D’altronde, in accordo con la nostra esperienza immediata, quello che chiamiamo corpo non è un dato definitivo, un’entità immutabile, bensì un fatto attuato dinamicamente, un insieme di funzioni continuamente all’opera. Per questo, per quanto attiene alla messa In evidenza e alla descrizione delle reazioni biochimiche, dei meccanismi, dell’evoluzione biologica che caratterizzano queste funzioni, ci sarà sempre possibile adottare, senza subire alcun danno, le conclusioni della biologia contemporanea insieme ai possibili miglioramenti e alle rettificazioni che esse potranno subire in futuro.

In modo analogo, quella che chiamiamo anima è un fatto messo in atto dinamicamente, un insieme di funzioni continuamente operanti che rivelano ed esprimono l’essere «vivente» dell’uomo. Siamo soliti attribuire diverse denominazioni a queste funzioni: si parla di logica, d’immaginazione, di giudizio, di creatività, di capacità di amare, così come di coscienza, subconscio e inconscio. Anche qui, nel mettere in evidenza e nel descrivere queste facoltà, potremmo senza problema adottare le conclusioni e la terminologia della psicologia e della psicanalisi, così come delle loro possibili evoluzioni future, sempre però a condizione che la scienza rispetti i propri limiti, riconoscendo il suo carattere verificativo e descrittivo. In questo modo, qualunque sia il linguaggio utilizzato, potremo concludere che l’individualità sia biologico—corporale che psicologica dell’uomo non è, ma si compie in modo dinamico. Essa si realizza attraverso un’ascensione progressiva, una flessione e un declino, fino all’estinzione finale, per opera della morte, delle energie psicosomatiche. Di contro, ciò che l’uomo è, rimane inaccessibile lungo tutto il processo di maturazione, d’invecchiamento, fino alla morte.

Conformemente alla chiesa e alla verità su di essa, quel che l’uomo è in quanto essere personale al cospetto di Dio, cioè quel che costituisce l’immagine di Dio nell’uomo, non può essere immobilizzato in un momento preciso o in un qualsiasi intervallo di tempo. Il neonato che «non capisce», l’uomo maturo all’apice delle proprie facoltà psichiche e fisiche, quello che sprofonda nella debolezza della vecchiaia o «perde la testa», sono la medesima persona davanti a Dio. Perché ciò che costituisce l’uomo come ipostasi, ciò che gli dona un io e un’identità, non sono le facoltà psicosomatiche, ma il suo essere in rapporto con Dio, il fatto che Dio ama l’uomo di un amore unico che «chiama all’esistenza le cose che ancora non esistono» (Rm 4,17), che fonda e sostiene l’alterità personale dell’uomo. L’uomo è persona, immagine di Dio, nella misura in cui esiste come capacità di risposta all’appello pieno d’amore che Dio gli rivolge. Grazie alle funzioni psicosomatiche l’uomo «gestisce» questa possibilità, risponde positivamente o negativamente alla chiamata divina, conduce la pro-pria esistenza alla vita, che è relazione con Dio, o alla morte, che è separazione da Colui che chiama.

L’appello di Dio, fondante l’ipostasi personale dell’uomo, non è soggetto a variazioni dipendenti dall’affidabilità delle funzioni psicosomatiche. Non è neppure toccato dalle interpretazioni scientifiche riguardanti il progresso o l’evoluzione di tale affidabilità. L’intervento della chiamata di Dio costituisce l’uomo; per questo la chiesa non è per nulla turbata, né la sua verità è in pericolo, se la scienza afferma «l’evoluzione delle specie» e il fatto che l’uomo sia derivato biologicamente dalla scimmia. Ciò che distingue l’uomo dalla scimmia non si pone a livello della differenziazione quantitative delle perfezioni di funzioni psicosomatiche, ma è a livello di differenze qualitative: è nel fatto che, attraverso le proprie funzioni psicosomatiche, l’uomo «gestisce» — che lo ammetta o non lo colga — la propria risposta esistenziale di fronte all’appello alla vita che Dio gli rivolge. L’immagine biblica del Creatore che plasma l’uomo e che soffia nella persona umana il suo soffio divino manifesta dunque non l’origine biologica dell’uomo, quanto quella della sua coscienza, della sua identità, della sua libertà personale. Sia che tale origine coincida con l’apparizione biologica della specie umana, sia che s’inscriva in un nodo della catena evolutiva delle specie, la verità dell’antropologia biblica e teologica non muta affatto.

 

La vita dopo la morte

 

Dal fondo di queste considerazioni, emerge con sempre maggiore evidenza la fede della chiesa nell’immortalità dell’uomo, nella «vita dopo la morte». Molte religioni e filosofie proclamano l’immortalità dell’anima, ma la chiesa si distingue completamente poiché comprende l’immortalità non come un’inspiegabile sorta di «sopravvivenza» dopo la morte, quanto piuttosto come un andar oltre la morte, nel rapporto con Dio. La morte, per la chiesa, è separazione da Dio, rifiuto di rapportarsi con lui, rifiuto di una vita compresa come amore e comunione. Può forse l’uomo sopravvivere grazie solo alle proprie capacità esistenziali, che sono create (e che non contengono né la loro causa, né il loro fine)? Quando tutte le facoltà psicosomatiche si spengono con l’ultimo respiro, la natura creata dell’uomo ha esaurito le proprie capacità di sopravvivenza.

La fede della chiesa nell’eternità dell’uomo non è la convinzione che esista comunque uno «stato» futuro in cui «sopravvive» qualcosa dell’uomo, la sua anima o il suo spirito. Essa è data dalla certezza che il fondamento del nostro esistere non è salvaguardato dalla nostra natura né dalle capacità di esistenza iscritte in essa; il fondamento è garantito e costituito dal nostro rapporto con Dio, dall’amore che Egli ci rivolge. La fede nell’eternità, è la certezza che questo amore non è destinato a cessare, ma costituirà sempre la mia vita, funzionino o meno le mie facoltà psicosomatiche.

La fede nella vita eterna non è una certezza ideologica, non poggia su processi argomentativi. E un movimento di fiducia, che pone le nostre speranze e la nostra sete di vita nell’amore di Dio. Colui che ci fa grazia, qui e ora, d’una tale profusione di vita, malgrado le resistenze fisiche e psichiche che opponiamo al compiersi della vita (di quella vera vita che è autotrascendimento e comunione nell’amore), ci ha promesso pure la pienezza della vita, l’adozione diretta, il rapporto faccia a faccia con Lui, quando sulla terra si estingueranno gli ultimi focolai di resistenza della nostra rivolta.

Come opererà questa nuova relazione con il Signore e per mezzo di quali facoltà, io io ignoro. Ho solo fiducia. Quello che so, grazie alle verità che ci sono state gratuitamente rivelate, è che il mio rapporto rimarrà sempre personale, che sarò al cospetto di Dio, come Dio mi conosce e mi ama. Sarò con il mio nome e con la possibilità di dialogare con Lui, come Mosè e Elia sul monte Tabor. Non dico nulla di più.

 

«Coraggio, sono io, non abbiate paura»

 

Per arrivare[1] a cogliere la realtà di una nuova vita, bisogna passare attraverso una «disperazione» straordinaria, bisogna rinunciare a tutte quelle speranze che il creato ci offre; dobbiamo cercare con una sete enorme la vita eterna, cioè la vita che non conosce i limiti della morte e della corruzione, dello spazio e del tempo. Quante persone hanno la possibilità, il carisma, per affrontare un problema esistenziale di questa portata, per combattere di fronte a questo problema della vita e della morte? Qualche volta, vi confesso, mi sento profondamente convinto che la chiesa sia fatta solo per persone di questo tipo. Se qualcuno non avverte il problema della vita e della morte, se non è alla ricerca di un significato della morte, di una possibilità che la vita vada oltre i limiti dello spazio e del tempo, è molto difficile che possa appartenere alla chiesa.

L’evangelo ripete spesso che il Regno non è per i giusti, non è cioè per quanti si sentono appagati. La chiesa è un altro modo di esistere, e una modalità diversa dell’esistere non è un miglioramento del carattere o del comportamento, ma è una trasformazione del modo di vivere. Ripeto spesso, perché mi ha sempre colpito questa scena, quel brano dell’evangelo che ci presenta i discepoli di Gesù su una piccola imbarcazione, di notte; c’è una tempesta terribile, i discepoli hanno paura, e tutt’a un tratto vedono Cristo che cammina sulle acque e si avvicina alla barca. Essi sono frastornati e Gesù dice loro: «Coraggio, sono io, non abbiate paura», e Pietro gli domanda: «Signore, se sei tu, comanda che io venga da te sulle acque» (cf. Mt 14,27-28). Pietro scende dalla barca e cammina sulle acque. È questa la chiesa! È esistere per il comando del Signore; in quel momento Pietro non trae l’esistenza dalla propria natura individuale creata, ma esiste a causa della chiamata di Cristo e grazie al fatto che corrisponde a tale chiamata; egli trae l’esistenza dal rapporto con Cristo, ed è questo che la chiesa annuncia.

Qualche volta mi sono chiesto che cosa voglia dire avere un’esistenza che non trae le proprie ragioni e le proprie fonti dalla natura creata. Un bel giorno ho trovato, in un testo di Massimo il Confessore, una risposta che mi ha notevolmente impressionato. Egli dice che con la morte muore la nostra natura, tutto finisce.

[1] Ci pare opportuno concludere cosi come abbiamo iniziato, riportando un altro brano dell’intervento di Yannaras a Saint-Serge, citato nella «Premessa» (N.d.T.1.)