L’atteggiamento di Croce durante la guerra può essere paragonato solo a quello del Papa, che era il capo dei vescovi che benedicevano le armi dei tedeschi e degli austriaci e di quelli che benedicevano le armi degli italiani e dei francesi, senza che in ciò ci fosse contraddizione.
S’intende qui, tenendo presente l’atteggiamento crociano verso la guerra, considerare lo status della politica nel pensiero crociano, ovvero indagare il carattere aporetico con cui Croce impostò, all’interno della propria Filosofia dello spirito, il rapporto tra forza e morale, tra utilità e bene, o meglio, tra momento economico e momento etico.
Occorre tenere presente che la formazione specificamente filosofica di Croce fu tardiva. Ed essa, come ho indicato altrove[1], non avvenne sotto l’egida dell’hegelismo, a Napoli ormai in crisi all’epoca della sua giovinezza, ma sotto quella del neokantismo. La filosofia dello spirito di Croce ha la categoricità del neokantismo e la sua lettura e “riforma” di Hegel è ispirata dalla necessità di mantenere l’atemporalità delle categorie[2]. Da tale impostazione generale derivano una serie di problemi su cui non ci si può qui soffermare ma che si cercherà di considerare dal punto di vista del rapporto tra i due momenti della volizione spirituale, la volizione dell’individuale e la volizione dell’universale, o l’“utile” e il “bene”. Molti commentatori hanno notato come l’utile o l’economico sia la forma più congestionata della filosofia dello spirito crociana, perché assume tutta una serie di significati residuali che le vengono addossati per esclusione: tutto ciò che non è passibile di collocazione nel Bello, nel Vero e nel Buono ricade nell’orbita dell’Utile. Sotto questo aspetto, è stato detto che l’economica è la teodicea della filosofia crociana, perché essa deve incamerare e legittimare il male, l’errore, l’irrazionale, le scienze. L’economico non rappresenta pertanto uno spazio effettivamente concesso alla materia, al non spirituale, alla natura, ma il rifugio di tutte le «più basse» attività dello spirito, che non siano cioè l’arte, l’etica o la filosofia. Croce pensa l’“utile” come Spirito, ma, essendone il grado più basso, l’economico è costretto a comprendere in sé anche le funzioni della natura, della materia, della corporeità, dell’inconscio, che sono espunti da un sistema inteso come intra-spirituale, retto da una dialettica tutta intra-categoriale, nel senso che ogni fenomeno umano è descrivibile restando all’interno delle categorie dello spirito. Questa sfera ha una debolezza di fondo ‒ consistente nel fatto che, più degli altri tre “distinti”, richiama l’altro dello spirito ‒, che emergerà sempre più nel corso degli anni, fino a farsi stridente con il sovrapporsi ad essa del tema del vitale.
D’altro lato, l’etica si presenta come più compatta, poiché essa è volizione dell’universale, e l’universale è lo stesso spirito.
Come intendere allora l’azione politica? Fondamentalmente per Croce l’azione politica è quella guidata dal senso dell’utilità, ricondotta quindi all’ambito dell’economia. Il criterio di valutazione (e comprensione) di un’azione politica è così quello dell’efficacia[3]. E però le cose risultano assai più complesse se si considera che il pensiero politico crociano non è un mero aspetto secondario rispetto alla stessa Filosofia dello spirito. Lo testimoniano la vita e le opere di Croce, che certo partecipò alla politica sempre nei modi di un filosofo che vi si presta occasionalmente, e tuttavia il suo curriculum politico è davvero cospicuo, tanto che qualsiasi tentativo di riassumerlo che si potrebbe fare qui risulterebbe lacunoso. Croce, «una sorta di politico mancato»[4], considerava essenziale il lato politico della propria attività filosofica. Il 20 gennaio 1903 fonda la rivista «La Critica» e dichiara che, lavorando ad essa, ritiene di fare anche opera politica[5]. Se vi s’intende che la cultura non dev’essere apolitica (sarebbe come dire staccata dalla storia), d’altra parte Croce è contrario a una cultura immediatamente politica, al sevizio della politica. La cultura riflette la politica nella sua sfera autonoma. La sua concezione è che gli uomini di cultura abbiano una responsabilità e una funzione politica in quanto uomini di cultura, è il motivo della responsabilità civile dei filosofi. Si può dire che il ruolo svolto da Croce sia stato fortemente ideologico, nel senso della costruzione di un insieme di idee e concetti volti, sotto un aspetto speculativo, a influire e orientare le forze e le tendenze della vita politica e sociale. In tal senso, la sua opera, ricchissima di interventi, attività pubblicistica, iniziative editoriali, politiche ecc., ha certo costituito il momento principale di aggregazione etico-politica nella prima metà del XX secolo. In questo senso, davvero sono pochi i casi in cui un pensiero abbia avuto tanta influenza politica e sia stato tanto egemonico[6].
Non bisogna dunque farsi ingannare dalla cosiddetta “olimpicità” del filosofo napoletano. Per esempio, dal carteggio tra Croce e Gentile di quegli anni potrebbe apparire un’estraneità di Croce alle vicende politiche. Nel 1898-1900, lo scambio epistolare con Gentile è fittissimo, eppure non c’è un cenno neanche agli eventi principali, quali i moti popolari del 1898 o l’uccisione nel 1900 di Umberto I. Solo sull’intervento dell’Italia nella prima guerra la corrispondenza tra i due è assai fitta[7]. Ma poi, anche nel caotico e drammatico dopoguerra, la politica sparisce dal loro carteggio. Nel 1914 Croce sarà decisamente neutralista[8]. La critica dello Stato etico, svolta da Croce in Etica e politica, palesa la polemica che tra i due c’era stata – anche se nella forma di un’esoterica «discussione tra filosofi amici» – intorno alla storia e alla filosofia della storia sulle pagine della «Voce» nel 1913-1914[9]. Una distanza teorico-politica tra i due filosofi che si era approfondita durante la guerra. Mentre l’atteggiamento di Croce era attento a distinguere tra «valori storici» e «valori universali» e a salvaguardare l’unità della cultura occidentale, quello di Gentile era di piena adesione all’idea di guerra come momento di rinascita nazionale[10]. Montanari ha visto poi in Croce, dopo gli anni ʼ20, il tentativo di individuare una più profonda spiritualità europea da contrapporre alla «guerra civile»[11] scatenata dalla volontà di potenza che trova espressione nelle due guerre mondiali[12], insistendo altresì sulla posizione europeista di Croce (con riferimento in particolare ad alcuni giudizi nella Storia d’Italia e ad altri già espressi durante la guerra): per lui la guerra non mette in gioco dei «valori universali» e le potenze contrapposte non rappresentano modelli alternativi di civiltà, ma solo diversi interessi economici. La cultura non può quindi lasciarsi asservire agli interessi economici nazionali, ma deve mantenere la propria unità sovranazionale: i veri avversari sono da considerare il «materialismo storico», il comunismo, e l’«irrazionalismo filosofico», il nietzscheanesimo.
Montanari ricorda un articolo del 1912, Contro l’astrattismo e il materialismo politici, in cui Croce distingue
due ordini affatto diversi di valori: i valori universalmente umani, che si dicono di cultura, e i valori empirici o, come si chiamano, storici. La scienza, l’arte, la moralità porgono esempi dei primi; Roma o Grecia o Francia, monarchia o Repubblica, Stato o Chiesa, esempi dei secondi […] i primi sono istanze supreme, i secondi no; i primi sono non nati o imperituri, i secondi nascono e muoiono. Non c’è nulla di sopra al Vero e al Bene; ma c’è qualcosa di sopra Roma e Grecia, Italia e Francia, Stato e Chiesa[13].
La cultura ha quindi, insiste Montanari, una funzione sovranazionale, come appare anche nella Storia del Regno di Napoli[14]. Però, sembra di capire, una funzione non politica, giacché il principio della lotta regna sia all’interno degli Stati sia tra gli Stati[15]. E tuttavia, per esempio, la scienza tedesca è distinta dalla politica tedesca, perché la «scienza tedesca […], come ogni vera scienza, è sempre superiore ai partiti politici e alle contese nazionali»[16]. Così, Croce difende la funzione universale della cultura anche dopo l’entrata in guerra dell’Italia. Montanari ricorda un articolo del 1915, L’entrata dell’Italia in guerra e i doveri degli studiosi, in cui Croce biasima quegli uomini di scienza che distorcono teorie e dottrine a vantaggio della Patria, e qui Croce – noto io – distingue dovere verso la Verità e dovere verso la Patria, li distingue e non li oppone, sostenendo che il primo «comprende in sé e giustifica» il secondo[17]. Per questo, conclude Montanari, la storia della borghesia che Croce scrive nelle sue opere non sarà mai la storia di una classe caratterizzata nazionalmente, ma la storia di una classe universale, portatrice di valori universali, che, come Croce afferma nella sua introduzione alle Considerazioni sulla violenza di Sorel è stata l’unica capace di sacrificarsi per accrescere le risorse conoscitive e materiali dell’umanità[18]. La storia crociana della borghesia si configura quindi come storia di una classe etica, classe-non classe[19]. Si coglie da quanto esposto come in realtà etica e politica non costituiscano nella riflessione crociana due “distinti”, ma si intreccino in un modo che non consente di districarne le trame e come la politica stenti ad adattarsi, come pretenderebbe il sistema della Filosofia dello Spirito, alla mera sfera dell’utilità. Con ciò la stessa distinzione tra utile ed etico, in quanto “distinti”, non tiene più.
È del resto concordemente stato sostenuto[20] che è per rispondere ai nuovi problemi (guerra mondiale, bolscevismo, fascismo) sorti dopo il 1915, e che la filosofia dello Spirito col principio armonico dell’unità-distinzione delle forme non sapeva affrontare, che Croce compie senza esitazione una coraggiosa revisione del suo sistema filosofico elaborando, in Elementi di politica del 1924-1925 (in seguito incluso in Etica e politica, del 1931), il nuovo concetto di etico-politico. A questa fase di ripensamento appartiene anche l’ultimo suo volume teorico, La storia come pensiero e come azione, e la Storia d’Italia e la Storia d’Europa. In Elementi di politica del 1925, Croce tenta dunque di definire il carattere della politica in quanto forma dell’attività pratica, attribuendole così una specifica collocazione tra le attività dello spirito, per determinare una teoria dello Stato in quanto tale, e non di questo o quello Stato. Non si esimeva però da una polemica contro le teorie democratiche o giacobine, contro le teorie egalitaristiche, in quanto “impossibili” e «totalmente false». Il problema restava quello del rapporto tra politica e morale, se ogni categoria è indipendente e “totale”, i limiti della politica non potevano infatti essere limiti etici, ma limiti interni alla categoria dell’utilità, che deve adeguare i fini ai mezzi. Così Croce arrivava a dire che, comunque, anche sotto questo profilo, non tutto è lecito allo Stato, ma solo ciò che gli è utile, per esempio la crudeltà verso il nemico non potrebbe essere giudicata un’azione vantaggiosa.
Un tentativo di risolvere l’aporia è quello di collegare dialetticamente politica ed etica. L’uomo morale non può attuare la propria moralità se non operando politicamente, accettando la logica della politica. Tuttavia, accettare questa logica non significa ridurre la forma superiore all’inferiore, chiudere la vita morale entro l’ambito ristretto e inadeguato «della vita politica e dello Stato». Lo Stato appare così come forma elementare della vita pratica, che incessantemente viene “superata” e riformata dalla coscienza morale. È stato un errore di Hegel (e anche di Gentile) quello di avere identificato la vita morale nella forma, per essa inadeguata, della vita politica e dello Stato. Lo Stato è infatti considerato pur sempre da Croce nient’altro che «un processo di azioni utili di un gruppo di individui o tra i componenti di esso gruppo». Le leggi, le istituzioni e i costumi in cui si concreta la vita dello Stato non sono altro che «azioni degli individui, volontà da essi attuate e mantenute salde, concernenti certi indirizzi più o meno generali, che si stima utile promuovere». In questo senso lo Stato si attua nel governo e non si distingue da esso[21].
Così, la storiografia crociana assegna il primato alla storia etico-politica sulle storie concernenti le altre attività della sfera pratica, in particolare sulla storia politico-economica, «poiché le opere da loro descritte sono, a volta a volta, presupposti della storia etico-politica e strumenti che essa adopera ai suoi fini, materia che essa forma e riforma».
La vera storia è dunque la storia etico-politica, in quanto «storia religiosa», capace di cogliere, nei popoli e nelle epoche altamente storici, «la fede attuosa nell’universale etico, l’operosità nell’ideale e per l’ideale», di cui danno prova gli autentici geni politici, «e le aristocrazie o classi politiche che li esprimono dal loro seno e che essi a loro volta generano e mantengono»[22].
Ora, nella prima formulazione del suo sistema, nella Filosofia della pratica, Croce aveva inserito la politica, il diritto, lo Stato nella sfera amorale e pre-morale dell’utile e dell’economico, inteso alla maniera weberiana come razionalità strumentale. Fin da qui, politica e Stato non sembrano trovare una collocazione precisa ed esplicita. Se la politica è utile, sembra perdersi la sua specificità. Come distinguerla dall’economia? Ma poi “utile” a chi, per che cosa? Qui o si va verso gli interessi distinti dei gruppi, direzione che Croce, antimarxista, non prende, e quando la prende, lo fa in modo edulcorato, non dialettizzando, non collegando cioè il momento della lotta con gli altri momenti della vita sociale, oppure il rischio è quello di tenersi a un’“utilità” astratta, commisurata ad un individuo altrettanto astratto e indeterminato. Del resto, sempre nella Filosofia della pratica, Croce, compiendo una precisa e tipica operazione revisionistica, scrive che non ci possono essere «leggi sociali», ma solo individuali: «Intendendo l’individuo nel significato filosofico, come lo Spirito concreto e individualizzato, è chiaro che le così dette leggi sociali si riducono alle individuali»[23].
Collegando tali presupposti teorici con la lettura del marxismo come economicismo, Croce poteva definire e in qualche modo giustificare la guerra mondiale come «una sorta di guerra del ʻmaterialismo storicoʼ», la forza militare al servizio degli interessi economici dei paesi. Ma, ancora, una tale concezione economica dell’utile e della violenza diviene del tutto inadeguata di fronte al progressivo consolidamento del regime fascista: o ridurre la storia a mera forza, trasformando la morale in ideale impotente e inefficace, o concepire un altro tipo di storia, che Croce pensa appunto attraverso il concetto di etico-politico. Così, il “politico”, che prima faceva parte dell’“utile” e dell’“economico”, senza abbandonare la sua sfera originale, si trova ora, almeno in parte, inserito nella sfera dell’etico, dell’universale volontà morale, e ha anzi il compito di suturare le sfere della morale, o dell’etico-politico, e quella dell’utile, della forza, dell’economico. Ciò che resta arduo è stabilire il rapporto tra la sfera etico-politica e la «storia economica», quando la «storia morale o civile o etico-politica» è considerata come la «storia per eminenza», come avviene in La storia come pensiero e come azione, in cui la polemica contro la storiografia economica si fa più accentuata.
Lo stesso Marcello Montanari, sopra ricordato, riconosce che, se la lotta di Croce contro l’attivismo e i nazionalismi è strenue e ammirevole, d’altra parte è inefficace politicamente, poiché gioca le sue carte solo sulla volontà etica, sulla volontà che vuole l’universale e il bene comune[24]. È dunque un’etica che resta disgiunta dalla politica, perché Croce non cessa di definire la politica come puro esercizio della potenza, come pura forza che solo può essere limitata, circoscritta dall’eticità. La politica, insomma, non sente altra ragione se non quella della sua forza. E lo stesso vale per la guerra[25]. Croce parla così il linguaggio della Kultur, non quello della Zivilisation, parla alle aristocrazie culturali, non alle masse, non sa costruire una nuova soggettività e una nuova pratica della politica, che costruisca una nuova città degli uomini, resta priva di un referente storico reale perché non sa immaginare, al di là dei rapporti di forza già esistenti, una soggettività e una storia diversa da quella che quei rapporti hanno già disegnato.
A proposito della Rivoluzione d’Ottobre, nel 1918, in tre brevi articoli, Sopravvivenze ideologiche, Il pensiero russo secondo due libri recenti e Tre socialismi, Croce si sofferma sulla conclusione della pace di Brest-Litowsk: il trattato di pace gli appare come un esempio palmare di «moralismo politico», di confusione della morale con la politica, e quindi, come per Gentile in articoli dello stesso 1918, il bolscevismo diviene sinonimo di pacifismo vile e codardo, di rovina degli interessi materiali del paese, di disordine sociale ed economico; dure sono le parole contro la fisionomia dell’intellettualità russa, di cui Lenin è un esponente, per il suo confusionismo triviale e gli scimmiottamenti della filosofia europea (analogo giudizio in uno scritto del 1944 su Stalin «filosofo»). Ai due socialismi, diffusi un po’ dovunque, ma rappresentati «in forma classica», «sviluppata ed effettiva» solo «in Moscovia», cioè il socialismo plebeo, disfattista e catastrofista del «tanto peggio tanto meglio» e quello millenarista o escatologista (che presume di «poter spiccare un gran salto sopra la storia, e non solo sopra la storia passata ma sulla presente e su quella dell’avvenire, sopra ogni storia, sopra ogni realtà»), è da preferire un terzo tipo di socialismo, quello tedesco, «socialismo di Stato e nazione», interventista e non disfattista, riformista e non rivoluzionario, che ritiene che la classe operaia prenderà gradualmente il potere, comunque «non già distruggendo l’opera della borghesia, ma serbandola e potenziandola».
Del resto, nel lungo sostegno dato da Croce al fascismo, ed esplicitamente alla cura di forza cui esso sottoponeva la malata Italia, c’era, come ha scritto Bobbio,
anche un riconoscimento, o forse non più che un compiacimento dottrinale. Croce infatti aveva ripetuto per anni col Machiavelli che gli stati non si governano coi paternostri; una delle sue teorie a cui era più affezionato era che la politica è il dominio della forza o della mera utilità, e nessuna voce gli riusciva più sgradita e più lo accendeva di indignazione e rendeva roventi le sue parole che quella dei moralisti, degli ingenui ‘melensi’, dei pacifisti ingenui o ipocriti. Le violenze delle squadre d’azione non erano fatte per scandalizzarlo, per indignare un così disincantato osservatore della ‘verità effettuale’ degli Stati. Erano parte del gioco, talora crudele, sempre aspro e poco rispettoso delle regole morali, della storia delle nazioni. In secondo luogo, i fascisti combattevano quello che egli aveva sempre combattuto – democrazia, socialismo, massoneria – e in più erano invasati, per amicizie tradite e vittorie mutilate, da odio feroce contro l’Intesa, a cui le pagine sulla guerra del Croce non avevano risparmiato critiche e sarcasmi[26].
D’altra parte, il liberalismo di Croce sta più sul versante dell’“etico” che del “politico”. Nel Presupposto filosofico della concezione liberale (1927), il liberalismo è inteso come qualcosa di più ampio di una teoria formale della politica e viene fatto coincidere «con una concezione totale del mondo e della realtà», nella quale si rispecchia «tutta la filosofia e la religione dell’età moderna, incentrata nell’idea della dialettica ossia dello svolgimento», come metapolitica quindi, e anche metaeconomica perché si svincola anche dalla connessione col capitalismo e col liberismo economico, ossia con un determinato «ordinamento della proprietà» e della «produzione della ricchezza», tanto è vero che si potrà parlare perfino di «socialismo liberale»[27], se il socialismo farà propria l’etica della libertà e rifiuterà quella che pretende regolare in modo autoritario ed estrinseco le autonome scelte della coscienza morale[28]. Questa idea «alta» di liberalismo lo portava a prendere le distanze dal liberalismo anglosassone di carattere empiristico e utilitaristico. Dure sono così le critiche agli autori di quella tradizione, come, ad esempio, a On liberty di John Stuart Mill[29], alla distinzione di Benjamin Constant tra «libertà degli antichi» e «libertà dei moderni», la libertà civile e repubblicana e la libertà liberale[30].
La guerra era un fatto essenzialmente europeo per Croce, che comportava una crisi della forma di spiritualità su cui poggiava il suo stesso sistema. E ancora una volta, in tale contesto di necessario ripensamento, il ruolo assegnato all’“utile” si rivelava aporetico, non soltanto rispetto alla teoria dei distinti, ma anche rispetto alla sua pretesa negatività e strumentalità, su cui avrebbe dovuto agire l’eterno, l’ideale della libertà. Del resto, Croce aveva radicalizzato fin da principio la critica delle filosofie della storia abbozzata da Labriola e aveva condiviso col pensiero decadente d’inizio secolo il rifiuto ironico e integrale, come concetto meramente positivistico, della nozione di progresso. Così, seppur sorretta dalla libertà come eterno principio di vita e di rinnovamento, la storia si riduce a un dramma che si colora di motivi naturalistici: «tutto il peggio del peggior passato può sempre tornare, sebbene torni in condizioni sempre nuove e perciò, vinto e superato che sia, porti a un nuovo e maggior elevamento: l’epopea della storia è più vicina alla tragedia che non all’idillio»[31].
Croce non risolverà mai la questione della razionalità della storia. Ancora negli anni Quaranta tenterà di definire meglio il dualismo di vitale ed etica, tentando di farne una storia tutta interna allo spirito, quando ad essere propriamente morale è solo la coscienza etica. Tornerà a ripetere che vi è una lotta perenne tra la moralità e la «selvaggia vitalità», ma solo la Libertà, che sempre risorge, «ha per sé l’Eterno». Il nesso vitalità-civiltà sembra proporre un classico dualismo idealistico e non il sistema dei distinti che esclude assolutamente l’altro-da-sé dello spirito. Croce pensava che quello hegeliano fosse un panlogismo, che lo Spirito cioè fosse identificato eccessivamente col pensiero, mentre riteneva che nella propria filosofia dello spirito trovasse posto anche la spiritualità specifica della parte più oscura della vita pratica[32]. Il suo pensiero saldava attraverso l’etica il nesso dei distinti e il conflitto tra passione e moralità. Rifiutando di considerare la dialettica come dialettica di irrazionale e razionale, da una parte Croce tenta appunto fino alla fine di non escludere il vitale dallo spirituale: o fa rientrare il vitale nell’utile, o sostiene per esempio che anche nel vitale è contenuta l’opera di tutte le altre forme spirituali.
Sul vitale come categoria che si forma invece a partire dalla prima guerra mondiale, Marzio Zanantoni ricorda come Croce individuasse le radici del fascismo nel vitalismo e irrazionalismo d’inizio secolo, comprendendolo come un caso particolare di quella «crisi della coscienza europea», con cui ormai si confronterà. Nel saggio crociano del 1930, Antistoricismo, testo del discorso tenuto a Oxford al congresso internazionale di filosofia a settembre, che aveva destato profondo entusiasmo negli antifascisti italiani, il fascismo, così come il bolscevismo, trova la sua più esplicita caratterizzazione filosofica[33]. Così la prima guerra fu angosciosamente presente in Croce, tanto che impresse una svolta teoretica ai suoi studi, espressa nei saggi di Teoria e storia della storiografia, del 1915. Già Gramsci, nel «Quaderno 10» dedicato a Croce ed esplicitamente in una lettera a Tania del 12 dicembre 1927, aveva ravvisato in quest’opera
una vera e propria revisione dello stesso sistema» crociano. In quel periodo, Croce avrebbe inserito la categoria della “vita”, apparsa a conclusione della filosofia della pratica, nell’orizzonte della storia. Nella Filosofia della pratica del 1909 aveva scritto: «L’infinito, inesauribile dal pensiero dell’individuo, è la Realtà stessa, che crea sempre nuove forme; è la Vita […]. E poiché la filosofia […] è condizionata dalla vita, nessun particolare sistema filosofico può chiudere in sé tutto il filosofabile: nessun sistema filosofico è definitivo, perché la vita, essa, non è mai definitiva[34].
Negli anni della guerra nel pensiero di Croce emerge fortemente il problema del male, e allora la «vitalità» assume anche connotazioni negative, e il male è accolto in una configurazione eterna della vita e dello spirito. È appunto quanto avviene in Teoria e storia della storiografia, la cui novità teoretica sostanziale consiste nella tesi della «contemporaneità della storia». Scrive in quest’opera: «E se d’altra parte si osservi […] la moltitudine di ansiose domande, che ha suscitato da ogni parte la grande guerra europea […] si acquista chiarezza sul dovere che spetta ai filosofi di uscire dalla cerchia teologico-metafisica»[35].
Così negli anni ʼ20 Croce intuisce già la dimensione perenne ed interiore del momento negativo. La categoria del vitale, che occasionò una discussione con Enzo Paci all’inizio degli anni ʼ40, trova la sua genesi ben prima – questa la tesi di Zanantoni –, appunto negli anni della prima guerra mondiale. In quegli anni Croce inizia ad avvertire il dissolversi di un mondo, di un’epoca, l’oscurarsi della limpidezza razionale dello spirito in favore della visibilità di una zona ʻvitaleʼ malata, il cui frutto sono i fenomeni antistorici cui Croce dedica il discorso di Oxford e la contemporanea stesura della Storia d’Europa. Queste considerazioni, secondo Zanantoni, ci danno l’immagine «di un filosofo italiano il più lontano possibile da una presunta limitatezza provinciale»[36].
Così, in un saggio del 1946, La fine della civiltà, entra decisamente in crisi l’orizzonte trascendentale dei distinti e l’umanità appare soltanto uno dei termini del rapporto, mentre l’altro termine, la vitalità naturale, non si lascia ridurre allo spirito e può essere causa della fine della civiltà. La continuità positiva dello spirito è così interrotta e spezzata dal suo necessario ritorno alla vitalità, dalla quale sempre il processo ricomincia. In questo saggio, in effetti, Croce non soltanto usa metafore di derivazione naturalistica e machiavelliana in forme tali che non possono essere ricondotte alla sua filosofia dello spirito: «la Fortuna interviene quando le piaccia e strappa le tele tessute dalla Virtù; e perciò le sorti della vita morale sono sempre in pericolo». La concezione del «progresso cosmico» di cui aveva parlato nella Filosofia della pratica del 1908 è venuta meno:
Nelle tregue concesse dalle forze distruggitrici, nelle quali la civiltà tessé e ritessé la sua tela, e che pur tra episodiche o parziali distruzioni durarono secoli e millenni, e con le quali si è potuto persino mettere insieme una cosiddetta ‘storia universale’ […] si è tessuta l’illusione che la civiltà umana sia la forma a cui tende e in cui si esalta l’universo, e che la natura le faccia da piedistallo. E richiede uno sforzo penoso passare alla diversa visione della civiltà umana come il fiore che nasce sulle dure rocce e che un nembo avverso strappa e fa morire, e del pregio suo che non è nell’eternità che non possiede, ma nella forza eterna ed immortale dello spirito che può produrla sempre nuova e più intensa[37].
NOTE
[1] Cfr. M. Vanzulli, Croce e la tradizione dell’hegelismo napoletano, in C. Tuozzolo (a cura di), Benedetto Croce, Riflessioni a 150 anni dalla nascita, Roma, Aracne, 2016, pp. 341-354; poi in P. Girard (éd.), Benedetto Croce et la tradition de l’hégélianisme napolitain, L’invention de la modernité à Naples, «Archives de Philosophie», juillet-septembre 2017, Tome 80 – Cahier 3, pp. 491-504.
[2] «Il tuo filosofare – per dire la cosa in una formula semplice consta di semplici giudizii analitici. Di fronte a questi giudizii purissimi (e sfido che non sian puri, dal momento che non sono sintetici!) stanno le disgregate e infinite cose della natura e del mondo sociale. P[er] e[sempio] (gli esempi sono tuoi!): nella Filosofia del diritto non c’è la lotta di classe, la quale però c’è nella vita; – nell’Economia non c’è il sopravvalore il quale però c’è nella società, – nella Estetica non entrano le categorie del comico, sublime, grazioso etc. perché sono invece nella psicologia, – ma che andare a cercare la causa nel Diritto penale, la causa è un concetto logico! e così via etc. etc. Gli esempii bastano. Ti sei mai reso conto della portata e delle conseguenze di questo modo di ragionare? La conseguenza più semplice è questa: non c’è scienza di nulla che sia empiricamente dato – c’è solo scienza dei cosiddetti concetti puri e questi sono enunciabili tutti in giudizii analitici. Altro che dialettica (hegeliana o marxistica!) – altro che giudizii sintetici apriori – altro che Spencer o Wundt e altre evoluzioni –: questa è filosofia wolfiana bella e buona» (lettera di Labriola a Croce del 2 gennaio 1904, in A. Labriola, Carteggio V 1899 – 1904, a cura di S. Miccolis, Bibliopolis, Napoli 2006, p. 342). E tutto sommato la conclusione di sistemazione di un sapere precostituito, Wolf rispetto alla metafisica leibniziana, coglie nel segno il senso dell’operazione crociana rispetto al neokantismo. Cfr. anche: «tu ti sei avventurato troppo ad affermare l’esistenza (sia pure ipotetica) dell’economia pura. E perché non il diritto puro – l’estetica pura – la bugia pura? – e la storia dove se ne va?» (lettera di Labriola a Croce del 25 dicembre 1896, in A. Labriola, Carteggio IV 1896 – 1898, a cura di S. Miccolis, Napoli, Bibliopolis, 2004, p. 266).
[3] Cfr. B. Croce, Etica e politica, Bari, Laterza, 1973, pp. 250-251.
[4] M. Martelli, Etica e storia. Croce e Gramsci a confronto, Napoli, La Città del Sole, 2001, p. 12.
[5] In una pagina del 1925, così Croce rispondeva ai suoi critici fascisti: «Credono, quei facili censori, che io non abbia fatto della politica, scrivendo, per esempio, la mia Storia del regno di Napoli; la quale pur non sarebbe mai nata senza la mia passione politica e del passato e del presente?» (B. Croce, La politica dei non politici (1925), in Id., Cultura e vita morale, Bari, Laterza, 1955, p. 292. Rifiuta la teoria degli intellettuali come ceto separato: «Se il Benda ha ragione d’indignarsi contro la ʻtrahison des clercsʼ, che hanno messo non già le loro persone (il che potevano fare ed in molti casi era doveroso), ma l’arte e la scienza a servizio degli interessi politici ed economici, egli taglia e non scioglie il nodo con l’asserire, contro l’indebita identificazione, la separazione dei chierici dai laici. Egli stesso, del resto, si avvede che ciò non sarebbe possibile se non col ritorno alla trascendenza nella sua forma medievale […]. In realtà, la separazione è impensabile» (recensione a J. Benda, La trahison des clercs (Paris, Grasset, 1928), «La Critica», 1928, pp. 213-214, poi in L’Italia dal 1914 al 1918. Pagine sulla guerra, Laterza, 1965 [1a ed. Napoli, Ricciardi, 1919], pp. 350-352.
[6] Ciò che giustifica l’abbaglio gramsciano nei Quaderni del carcere sulla necessità di superare dialetticamente il crocianesimo per fondare il marxismo. Ma questo è un altro discorso, che qui non si può condurre.
[7] «Mi sono raccolto nella meditazione di ciò che convenga fare durante questa guerra, che si presenta lunga e che apre una epoca di rivolgimenti di ogni sorta […], ho stabilito per parte mia di continuare alacremente negli studi, come se guerra non ci fosse» (B. Croce, Lettera a Gentile del 22 giugno 1915, in Id., Lettere a Giovanni Gentile (1896-1924), Milano, Mondadori, 1981, p. 498). Sull’atteggiamento di Croce e Gentile di fronte alle guerra, cfr. le chiare pagine di D. Losurdo, Antonio Gramsci dal liberalismo al «comunismo critico», Roma, Gamberetti, 1997, pp. 58-60.
[8] Così scriveva a Prezzolini l’8 ottobre 1914: «io sono convinto che gettare in una guerra un popolo poco militare com’è sempre stato l’italiano (dalla battaglia di Re Arduino alla guerra di Libia!) con un esercito mal preparato tecnicamente, con una turbolenza di contrasti civili covati sotto un fittizio entusiasmo nazionale, in una pessima situazione morale (colpire l’antico alleato nel momento in cui lotta contro un gran pericolo), tutto ciò è una stoltezza e un delitto. Badate che la grande maggioranza della nazione non sente la guerra; e se di quella tedesca è stato detto (a torto) che era guerra degli ufficiali, questa nostra (a ragione) dovrebbe dirsi guerra dei giornalisti… Io non dico che non si debba assolutamente, in nessun caso, entrare in guerra. Ma dico che ciò dovrà farsi solo quando una necessità, sia pure tragica, lo comandi, e il sentimento dell’inevitabile invada gli animi di noi tutti…» (citato in J. Jacobelli Croce Gentile. Dal sodalizio al dramma, Milano, Rizzoli, 1989, pp. 107-108). Scrive nel dicembre 1914: «Quel che soprattutto mi stupisce è il tentativo d’indurre un popolo alla guerra a forza di raziocini e di sollecitazioni. La guerra è come l’amore e lo sdegno: qualcosa che mille raziocini ed incitamenti non producono, ma che, a un tratto, non si sa come, si produce da sé, pel solo fatto che è ed agisce. Auguro al mio paese di far la guerra solo quando sarà entrato spontaneamente in questa crisi di amore e di furore, che è arra di vittoria o almeno di lotta gloriosa» (B. Croce, Motivazioni di voto, «Italia Nostra», 6 dicembre 1914, ora in L’Italia dal 1914 al 1918. Pagine sulla guerra, Bari, Laterza, 1965 [1a ed. Napoli, Ricciardi, 1919], p. 21).
[9] Gli interventi di Croce apparvero il 13 novembre 1913 e il 13 gennaio 1914, quello di Gentile l’11 dicembre 1913, ora ripubblicati, quelli di Croce in Conversazioni critiche, serie seconda, Bari, Laterza 1950, pp. 66-95; quello di Gentile in Saggi critici, serie seconda, Firenze, Vallecchi, 1927, pp. 11-35.
[10] Cfr. M. Montanari, Saggio sulla filosofia politica di Benedetto Croce. La «Filosofia dello Spirito» come costruzione di un’egemonia, Milano, Franco Angeli, 1987, in particolare, pp. 91-92.
[11] Espressione usata da Croce nel discorso al primo congresso del CLN dell’Italia meridionale, tenutosi a Bari il 28 gennaio 1944, cfr. B. Croce, La libertà italiana nella libertà del mondo, in Id., Scritti e discorsi politici, Laterza 19732, I, p. 51.
[12] Cfr. M. Montanari, Politica e storia. Saggi su Vico, Croce e Gramsci, Bari, Publierre, 2007, pp. 95-97.
[13] B. Croce, Contro l’astrattismo e il materialismo politici, pubblicato per la prima volta nel 1912, poi nel 1915 su «Italia Nostra»; ora in Id., Cultura e vita morale cit., p. 184, e Id., L’Italia dal 1914 al 1918. Pagine sulla guerra, Bari, Laterza, 1965 [1a ed. Napoli, Ricciardi, 1919], p. 33-34.
[14] Cfr. M. Montanari, Saggio sulla filosofia politica di Benedetto Croce. La «Filosofia dello Spirito» come costruzione di un’egemonia cit., pp. 59-60 sgg.
[15] Cfr. per esempio, B. Croce, La «Società delle Nazioni», intervista a G. Castellano, pubblicata in «Il Tempo», 17 gennaio 1919, ora in L’Italia dal 1914 al 1918. Pagine sulla guerra, Bari, Laterza, 1965 [1a ed. Napoli, Ricciardi, 1919], pp. 293-294.
[16] B. Croce, Germanofilia, apparso sul giornale «Roma», 1 ottobre 1915, ora in L’Italia dal 1914 al 1918. Pagine sulla guerra, Bari, Laterza, 1965 [1a ed. Napoli, Ricciardi, 1919], pp. 71-72.
[17] Cfr. Id., L’entrata dell’Italia in guerra e i doveri degli studiosi, «La Critica» 1915, pp. 318-320, ora in L’Italia dal 1914 al 1918. Pagine sulla guerra cit., p. 54.
[18] Introduzione che apparve per la prima volta come recensione a Sorel, Le système historique de Renan, «La Critica» 1907, pp. 317-330, poi Introduzione a G. Sorel, Considerazioni sulla violenza, Bari, Laterza 1909 (ancora in Laterza 1970).
[19] Cfr. M. Montanari, Saggio sulla filosofia politica di Benedetto Croce. La «Filosofia dello Spirito» come costruzione di un’egemonia cit., p. 69. Cfr. anche B. Croce, Elementi di politica (1925), in Id., Etica e politica cit., pp. 268-283: «Il ceto ʻmedioʼ è anche il ceto ʻmediatoreʼ, ossia non è un ceto economico, ma è il rappresentante della ʻmediazioneʼ nelle lotte utilitarie ed economiche, la quale non si è attuata e non si attua mai altrimenti che col superare e perciò regolare quella lotta mercé concetti non più economici, e neppure di mera e brutale politica, etico-politici […]. Cosicché il ʻceto medioʼ, di cui qui si parla, è una ʻclasse non classeʼ, simile a quel ʻceto generaleʼ, a quell’allgemeine Stand, al quale lo Hegel riconosceva come cerchia dell’attività che gli spettava, come suo proprio affare, gl’interessi generali, die allgemeine Interessen» (ivi, p. 82). «Altri gravi tracce si potrebbero indicare, nella storiografia e nella scienza politica odierne, della confusione introdotta tra il significato di ʻclasseʼ della parola ʻborgheseʼ e il suo significato sopraclassistico e di totalità spirituale; e di esse conviene per lo meno mentovare la recente teoria di Kay Wallace intorno al ʻtramonto della politicaʼ ai giorni nostri e nel prossimo avvenire. La politica tramonterebbe perché le potenze del mondo sono ora gli industriali e gli operai, la plutocrazia e il proletariato, mentre il ʻceto medioʼ o la borghesia, che era quello che pensava e faceva politica, è via via più schiacciato tra le due enormi forze antagonistiche, e il mondo moderno non si muove più secondo la politica ma secondo l’economia. Ora, come si può pensare che tramonti mai una categoria spirituale essenziale dell’umanità?» (ivi, p. 282). Cfr. anche Id., Conversazione sul ceto medio, «Il Tempo», 2 e 4 marzo 1947, poi in Id., Scritti e discorsi politici, II, Laterza 1973, pp. 357-365.
[20] Cfr. M. Martelli, Etica e storia. Croce e Gramsci a confronto cit., pp. 148-153 e 189-190.
[21] Cfr. B. Croce, Elementi di politica, in Id., Etica e politica cit., p. 175 sgg.
[22] Cfr. ibidem.
[23] B. Croce, Filosofia della pratica. Economia ed etica, Bari, Laterza, 1963, pp. 239-240.
[24] Cfr. M. Montanari, Politica e storia. Saggi su Vico, Croce e Gramsci cit., p. 111.
[25] Dal diario di Croce, in data 4 ottobre 1943, dopo la caduta del fascismo: «Stanotte mi sono svegliato poco dopo le tre e non ho potuto ripigliare sonno. Sono stato a rimuginare la guerra, il diritto internazionale e altri concetti affini, cercando sotto la stretta della terribile passione di questi giorni la parte da condannare moralmente; ma la conclusione è stata la rassodata conferma della vecchia teoria che la guerra non si giudica né moralmente né giuridicamente, e che quando c’è la guerra non c’è altra possibilità né altro dovere che cercare di vincerla» (citato in J. Jacobelli Croce Gentile. Dal sodalizio al dramma cit., p. 239).
[26] N. Bobbio, Benedetto Croce e il liberalismo, in Id., Politica e cultura, Torino, Einaudi, 1955, pp. 219-220.
[27] Cfr. B. Croce, Liberismo e liberalismo, in Id., Etica e politica cit., p. 320. Croce si riferisce qui a Hobhouse che aveva concepito il «Liberal Socialism» come una forma politica aperta a riforme sociali, di giustizia, a organizzazioni di aiuto reciproco per combattere la povertà, in opposizione all’imperialismo inglese. A tale riguardo M. Martelli, Etica e storia. Croce e Gramsci a confronto cit., p. 50: «Croce ebbe invece sempre una concezione ʻaristocraticaʼ del liberalismo, di profonda diffidenza verso ciò che allora si chiamava il ʻdemosocialismoʼ, ed una visione edulcorata del colonialismo (mosso a suo parere sì da un ʻsentimentoʼ di ʻvantaggi economiciʼ, di ʻpotenzaʼ ecc., ma anche ʻdi un più largo amore per l’umanità e la civiltà in generaleʼ) e dell’imperialismo (un ʻnomeʼ nuovo, ʻnato nell’Inghilterra del ʻ90ʼ, solo al fine di designare ʻun migliore avviamento, più forte e coerente, da dare alla politica coloniale ingleseʼ».
[28] Cfr. Id., Etica e politica cit. p. 284 sgg.
[29] Cfr. Id., Principio ideale, teoria. A proposito della teoria filosofica della libertà, in Id., Il carattere della filosofia moderna, Bari, Laterza, 1963, p. 117.
[30] Cfr. Id., Storia d’Europa nel secolo decimonono, Bari, Laterza, 1961, cap. I. La concezione liberale di Croce è stata criticata duramente da autori variamente appartenenti alla tradizione liberale o no, tra gli altri da Antonio Banfi, per il quale la filosofia di Croce passò disinvoltamente da uno scetticismo intellettualistico a una fede nella libertà, senza mutare radicalmente natura e rappresentò sul piano sociale la tradizione dei ceti medi conservatori con la sua irresponsabilità sociale orgogliosa di sé. Il conservatorismo di Croce assunse però l’aureola dell’ideale, perché inquadrò la storicità in una serie di valori astratti, primo fra tutti il più astratto di tutti, la libertà, che non rappresentava altro che la vuota neutralità conservatrice di una classe alleata dei latifondisti meridionali, ostili alle forze popolari. Quando appunto queste si risollevarono e chiesero la riforma agraria, l’aspetto conservatore del modello culturale crociano uscì dalla latenza, in cui si dissimulava per via della sua opposizione di fronda al regime, e apparve chiaramente. Così si può dire che sia stato il fascismo a consacrare l’idealità della filosofia crociana, cfr. A. Banfi, L’uomo copernicano, Milano, Il Saggiatore, 1965 [1950], pp. 142-156; N. Bobbio, Benedetto Croce e il liberalismo cit., pp. 211-268; Sartori, Democrazia. Cosa è, Rizzoli, 1993, pp. 36-37 e Id., Stato e politica nel pensiero di Benedetto Croce, Napoli, Morano, 1966.
[31] B. Croce, Principio ideale, teoria. A proposito della teoria filosofica della libertà, in Il carattere della filosofia moderna, Bari, Laterza, 1963, p. 119.
[32] Nota M. Martelli, Etica e storia. Croce e Gramsci a confronto cit., p. 153 che nella Filosofia della pratica «Vita» era sinonimo di «Realtà o Spirito», della sua inesauribile creatività, mentre ora «vitalità» tende a coincidere con l’utile, l’economico-politico, nettamente distinta dall’ambito morale.
[33] Cfr. B. Croce, Antistoricismo, in Id., Ultimi saggi, Bari, Laterza, 1935, pp. 246-258.
[34] Id., Filosofia della pratica. Economia ed etica cit., p. 405.
[35] Id., Teoria e storia della storiografia, Milano, Adelphi, 1991, p. 180.
[36] Cfr. M. Zanantoni, Per una rilettura dell’interpretazione crociana del fascismo, in M. Ciliberto (a cura di), Croce e Gentile fra tradizione nazionale e filosofia europea, Roma, Editori Riuniti, 1993, pp. 201-208. Cfr. anche, analogamente, G. Galasso, Croce e lo spirito del suo tempo, Bari, Laterza, 2002, p. 255 sgg.
[37] B. Croce, La fine della civiltภin Id., Filosofia e storiografia, Bari, Laterza, 1949, p. 311.