Il nesso guerra-politica – polemos/politiké – è arcinoto. Storicamente, etimologicamente. Non solo – e non tanto – in senso antinomico. Allorché si afferma che la guerra interviene nel momento in cui la politica fallisce. Ma soprattutto in senso, diciamo così, complementare. Secondo la celebre asserzione di Clausewitz. In genere – egli osservava – si crede che la guerra metta fine all’agire politico. Invece «la guerra non è se non la continuazione del lavoro politico, al quale si frammischiano altri mezzi… il lavoro politico non cessa per effetto della guerra, non si trasforma in una cosa completamente diversa, ma continua a svolgersi nella sua essenza, qualunque sia la forma dei mezzi di cui si vale»[1].
Pertanto, il nesso guerra – politica, non è solo di continuità e contiguità, ma potremmo dire ontologico. Essenziale. Originario. Genealogico. Non solo tra guerra e politica sembrerebbe esserci una identità. Ma la guerra costituirebbe l’origine e il fine ultimo della stessa politica. Insomma, anche il suo destino. Insiste Clausewitz: «La guerra è uno strumento della politica; essa ne deve necessariamente assumere il carattere, deve commisurarsi alla sua medesima scala; la condotta della guerra, nelle sue linee fondamentali, altro non è che la politica stessa, che depone la penna e impugna la spada»[2].
Ma è pur vero che – rovesciando l’assioma di Clausewitz – è la politica che può essere considerata la prosecuzione della guerra con altri mezzi. E ciò non contraddice – anzi rafforzerebbe – quel celebre assioma. In altri termini, è la guerra a precedere la politica. L’aristotelico zoonpolitikon sarebbe, pertanto, uno stadio storicamente successivo all’hobbesiano bellum omnium contra omnes. E’ la guerra a costituire – generandola – la politica. Che in forme e con strumenti diversi, prosegue la guerra. Insomma, al di là della consueta convinzione che le oppone dialetticamente – polarmente – tra guerra e politica il nesso è inscindibile. Poco importa – nel contesto, beninteso, che stiamo esaminando – se è la guerra a dare origine alla politica o viceversa, se è la politica a dare origine alla guerra. Come coppia antitetica, la guerra sarebbe caratterizzata esclusivamente dalla violenza. Mentre la politica avrebbe a che fare con la pace. Ma stanno davvero così i termini del discorso?
Se è il conflitto il carattere distintivo della guerra, il conflitto politico non si dà forse in tempi di pace? E dunque, non è forse anche la pace ad essere attraversata dal conflitto? Diciamo pure, dalla guerra? Certo, in tempi di pace il conflitto si esprime nella forma mediata della politica. Mentre nella guerra la sua espressione è immediata. E tuttavia – Machiavelli docet, ben prima di Carl Schmitt – la politica, in tempi di pace, non potrà mai abrogare il conflitto. Può civilizzarlo. Non abrogarlo. Non fosse altro perché la logica del conflitto è consustanziale – diciamo così – sia alla guerra che alla politica. Sia alla guerra, in altri termini, che alla pace. Non è forse in tempi di pace che la politica – come diceva Max Weber – si configura come una «lotta per il potere»[3]? Anche – soprattutto – in tempi di pace. Quella pace – come riteneva Platone sulla scorta della celebre asserzione di Eraclito – che è solo un nome. Perché «di fatto ogni Stato, per sua stessa natura, si trova sempre con tutti gli altri in guerra non proclamata»[4].
E tuttavia, nonostante tutto, è la pace che politicamente ricerchiamo. E’ alla pace, nonostante il disincantato “nominalismo” platonico, che politicamente aspiriamo. E’ la pace che tutti invochiamo: «Nulla salus bello: pacem te poscimus omnes». Giacché nella guerra non si dà alcuna salvezza, come recita la celebre sentenza che compare nel discorso con cui Drance polemizza con Turno. Nell’undicesimo canto dell’Eneide (v. 362). Sentenza che – pochi versi dopo (v. 399) – Turno a sua volta riprenderà. Nella sua aspra, violenta replica a Drance. Pace e guerra: due termini che denotano concetti simmetricamente opposti. In quanto l’uno è il rovescio dell’altro. E che Virgilio colloca, quasi accostandoli – a separarli sono solo due punti – nello stesso verso. Due sostantivi che evocano due realtà, due fenomeni polarmente antitetici. Giacché, dove c’è l’uno non può esserci l’altro. E viceversa. Se c’è la guerra non può esserci la pace. Se c’è la pace non può esserci la guerra. L’una esclude l’altra. In via di principio (dejure). E in termini fattuali (de facto). E tuttavia i due termini, sebbene antitetici, risultano correlati.
“Pace” – eirene (greco), pax (latino), peace (inglese), Friede (tedesco), paix (francese), slam (arabo) – è infatti un termine che, in genere, si dà in coppia con “guerra” (polemos, bellum, war, guerre, Hrb). Al quale frontalmente si contrappone. Possiede, tuttavia, un’altra caratteristica. La definizione del suo concetto si ottiene per negazione. Per sottrazione. Pace non è altro che il rovescio semantico della guerra. Pace è la “non guerra”. L’assenza di guerra. Mentre del concetto di guerra – che denota, diciamo così un “male” – abbiamo una definizione positiva, il concetto di pace – che denota un “bene” – si ricava per opposizione. Per contrasto. Per negazione. Pax, infatti, ha lo stesso etimo di pactum. Entrambi i termini derivano dal verbo latino pango, che vuol dire stabilire, stipulare. Ma anche dal verbo paciscor, che vuol dire fare un accordo, pattuire. La pace, pertanto, è quella particolare condizione che viene stabilita, pattuita dopo un conflitto. Dopo una guerra. E’, in altri termini, un principio di ordine che subentra ad un precedente disordine.
Solitamente noi diciamo che la pace è la cessazione della guerra. Siamo in pace quando non siamo in guerra. Mentre non siamo soliti affermare che la guerra sia la non pace. La conclusione della pace. A rifletterci attentamente, è come se la condizione “fisiologica” delle relazioni umane fosse contrassegnata positivamente da una negazione, da un “male”. Dalla guerra, appunto. Mentre la condizione “patologica” fosse contrassegnata negativamente da una realtà positiva, da un “bene”. Cioè dalla pace. In quanto sospensione, intervallo della regolarità, del continuum della guerra. E’ Cicerone, in epoca romana, a ribadire il reciproco rapporto di coessenzialità tra guerra e pace, affermando – nella Settima Filippica – che «Si pace fruivolumus, bellum gerendum est». Frase che è stata poi contratta nel più celebre motto: «si vis pacem, para bellum».
Il concetto di pace – correlato a quello di guerra – denota pertanto un’assenza, una mancanza, un vuoto. La pace non è altro – come dice Clausewitz – che l’esclusione, la mancanza, l’assenza di quell’ «atto di forza che ha per scopo di costringere l’avversario a sottomettersi alla nostra volontà»[5]. Ed è esattamente questo “atto di forza” che definisce, nella sostanza, il concetto di guerra. Anche se, sotto il profilo dell’odierno diritto internazionale, non c’è una definizione giuridicamente univoca del concetto. In generale possiamo, in ogni modo, affermare che la guerra è quel fenomeno contrassegnato dal confronto armato fra due o più soggetti collettivi. Un fenomeno che ha, a suo modo, scandito l’intera storia della nostra civiltà.
Non è un caso, infatti, che sin dall’antica Grecia, l’intera realtà viene addirittura identificata con la guerra: «Polemos è padre di tutte le cose, di tutte re», afferma Eraclito. Mentre la pace è solo un nome, come abbiamo appena visto, secondo Platone. E nella stessa direzione procede il pensiero di Machiavelli. Che al tema della guerra dedica un intero libro (Dell’arte della guerra, 1516-1520). Così scrive il Segretario fiorentino nel XIV capitolo – Quod principem deceat circa militiam – del Principe: «Debbe dunque uno principe non avere altro obietto né altro pensiero, né prendere cosa alcuna per sua arte, fuora della guerra et ordini e disciplina di essa; perché quella è sola arte che si spetta a chi comanda».
Pochi decenni dopo, Hobbes procede ancora oltre. Egli ritiene che la condizione “naturale” delle relazioni umane – prima della costituzione del Leviatano – sia caratterizzata dal bellum omnium contra omnes. Per arrivare infine al secolo scorso. Quando, in un saggio del 1932 su “Il concetto di politico”, riflettendo sulla celebre definizione di Clausewitz, secondo cui «la guerra è la continuazione della politica con altri mezzi», Carl Schmitt scrive: «La guerra non è scopo o meta o anche solo contenuto della politica, ma ne è il presupposto, sempre presente come possibilità reale».
Non dobbiamo, pertanto, sorprenderci più di tanto se il termine politica (politiké) e il termine città (polis) ruotino entrambi attorno allo stesso asse semantico attorno al quale ruota polemos. E’ per questo tratto inconfondibilmente conflittuale della condizione umana che, perlomeno in Occidente, si è codificato un “pensiero della guerra”. Mentre solo a partire dal XVIII secolo, grazie al celebre scritto di Kant, Per la pace perpetua, si comincia a parlare di una “filosofia della pace”.
In quest’opera – nella quale riprende alcuni concetti anticipati in un saggio comparso nel 1784, Idea di una storia universale dal punto di vista cosmopolitico – Kant propugna una vera e propria istituzione internazionale. Che ha il compito di promuovere “giuridicamente” la pace. Perfettamente consapevole che «la guerra è il male peggiore che affligge la società umana ed è fonte di ogni male e di ogni corruzione morale», Kant ritiene – realisticamente – che al flagello della guerra, tuttavia, «non è possibile fornire una cura assoluta e immediata». Ciò nonostante, la guerra deve essere scongiurata. Espulsa giuridicamente dalle relazioni tra gli Stati. Secondo quel diritto che egli definisce “cosmopolitico” (juscosmopoliticum)[6].
Si tratta di un diritto che riguarda tutti gli individui. Per la semplice ragione, precisa Kant, del comune diritto al possesso della superficie della terra. Poiché quest’ultima è di forma sferica, gli individui non possono allontanarsi e separarsi all’infinito gli uni dagli altri. Pertanto devono – che lo vogliano o meno – accettare non solo di stabilire tra di loro delle relazioni. Ma di coesistere pacificamente. In tal senso, il diritto cosmopolitico teorizzato da Kant – che consiste dunque nel rapporto di reciprocità tra il dovere dello Stato visitato e il diritto dell’individuo visitante in esso ospitato – anticipa un altro fondamentale diritto. Il diritto, cioè, di ogni individuo ad essere considerato cittadino non soltanto del proprio Stato. Ma del mondo intero.
Ma se è vero che con l’illuminista Kant fa ingresso nella storia una “filosofia della pace”, è altrettanto vero che è l’avvento del Cristianesimo a segnare una svolta radicale rispetto ad un nuovo modo di concepire la pace e di giudicare la guerra.
La pace, nel Cristianesimo, viene personificata, incarnata nella stessa persona di Cristo: «Egli è la nostra pace» (Ef. 2,14), scrive Paolo. Che aggiunge: «Poiché Cristo è la nostra pace, egli ha fatto dei due (giudei e gentili) un solo corpo» (Ef. 2, 14). Abbattendo, così, il muro dell’inimicizia, dell’ostilità che li teneva separati. E immediatamente dopo la sua Resurrezione, il primo saluto che Gesù rivolge agli apostoli è: «Pax vobiscum» (Lc. 24,36).
E’ nel Vangelo di Marco, tuttavia, che la pace viene affermata come “valore” in sé: «Avete inteso che fu detto: amerai il tuo prossimo e odierai il tuo nemico; ma io vi dico: amate i vostri nemici e pregate per i vostri persecutori, perché siete figli del Padre vostro celeste, che fa sorgere il suo sole sopra i malvagi e sopra i buoni, e fa piovere sopra i giusti e sopra gli ingiusti. Infatti se amate quelli che vi amano, quale merito ne avete? Non fanno così anche i pubblicani? E se date il saluto soltanto ai vostri fratelli, che cosa fate di straordinario? Non fanno così anche i pagani?» (Mt. 5, 43-47).
E ancora: «Avete inteso che fu detto: occhio per occhio e dente per dente; ma io vi dico di non opporvi al malvagio; anzi se uno ti percuote la guancia destra, tu porgigli anche l’altra; e a chi ti vuol chiamare in giudizio per toglierti la tunica, tu lascia anche il mantello. E se uno ti costringerà a fare un miglio, tu fanne con lui due» (Mt. 5, 38-41 ). Le Beatitudini, infine, riassumono l’intero insegnamento di Gesù sulla pace e il perdono: «Beati gli operatori di pace, perché saranno chiamati figli di Dio. Beati i perseguitati a causa della giustizia, poiché di essi è il regno dei cieli » (Mt. 5, 9-10).
Nonostante ciò, la guerra resta tuttavia una realtà storica. Con cui fare realisticamente i conti. E’ così che nel Cristianesimo nasce la dottrina della cosiddetta “guerra giusta” (bellumjustum). Formulata soprattutto da Agostino e Tommaso. Fermo restando che il disegno di Dio per l’umanità è quello di riunirla nell’amore e nella pace, ciò non toglie che la guerra si opponga a questo disegno divino. Poiché la guerra contraddistingue la vita della città terrena. Dove regna il desiderio incontenibile per il potere e la volontà, altrettanto incontenibile, di dominio. Desiderio e volontà che generano divisioni, violenze e guerre: «La pace – scrive Agostino – deve essere nella volontà e la guerra solo nella necessità, affinché Dio ci liberi dalla necessità e ci conservi nella pace. Infatti non si cerca la pace per provocare la guerra, ma si fa la guerra per ottenere la pace. Anche facendo la guerra, dunque, sia ispirato dalla pace in modo che vincendo, tu possa condurre al bene della pace coloro che tu sconfiggi»[7].
Tommaso riprende sostanzialmente le argomentazioni di Agostino, in merito alla guerra giusta. Che può contemplarsi a patto che sia l’autorità del principe a dichiararla, non un qualsiasi privato cittadino. E a patto che vi sia, evidentemente, una“causa giusta”. Ovvero, una colpa da parte di coloro contro i quali si fa guerra. Infine, per considerare giusta una guerra, deve esserci – secondo Tommaso – una “retta intenzione” nel farla. Insomma, la guerra deve essere combattuta soltanto per promuovere il bene. E per ristabilire la giustizia violata.
Dopo la crisi dell’Impero cristiano, tramontato nella tragedia della guerra seicentesca dei Trent’anni e delle guerre di Religione europee, è Spinoza a riconsiderare la pace non solo come valore. Ma a correlarla con la giustizia: «La pace – scrive nel Trattato teologico-politico – non è assenza di guerra. E’ una virtù, uno stato d’animo, una disposizione alla benevolenza, alla fiducia, alla giustizia». La pace, insomma, non può prescindere dalla giustizia. Anzi, la presuppone. Almeno in via tendenziale. La pace reca con sé – perlomeno in latenza – tale aspirazione. Essa resta un valore. Una virtù, come dice Spinoza. Ma se manca la giustizia, può essere revocata in dubbio. Se la pace non è in vista del “Bene comune”, a certe condizioni può venir violata. Quando forze inique di guerra e di aggressione ne minacciano la stessa possibilità di esistenza, il ricorso alla guerra può essere in questo caso giusto. E’ la dottrina agostiniana e tomistica del bellum justum. Che si ripresenterà, nel dibattito internazionale, con lo scoppio della Guerra del Golfo nel 1990. E nel 1999 con l’intervento della Nato nel Kossovo.
Se la pace è ormai per tutti divenuta – radicandosi stabilmente nella coscienza comune – una virtù, un valore in sé, è anche vero, tuttavia, che essa non può essere disgiunta dalla giustizia, come abbiamo visto. Pace e giustizia, dunque. Una aspirazione che attraversa la nostra storia. E che la tragedia della Seconda guerra mondiale, le minacce atomiche sempre possibili e l’odierna globalizzazione iniqua rendono di nuovo attuale più che mai. Come necessaria aspirazione razionale di tutti i popoli. Non a caso, la Carta dell’Onu che recepisce il pacifismo giuridico di un grande teorico kantiano del diritto, Hans Kelsen – allude esattamente a questo.
Allude, cioè, ad una concezione razionale della pace. Fondata sui diritti universali dell’uomo. Ovvero, su una giustizia cosmopolitica. Dopo il terribile secolo delle Guerre mondiali, della Shoah, dei totalitarismi, dei lager e dei gulag. Dopo il terribile secolo della “guerra fredda”, delle guerre civili ed etniche che sono di nuovo divampate anche nel cuore dell’Europa. Nel secolo del nuovo millennio, che si è aperto con l’attacco terroristico alle Twin Towers. E nel quale ancora risuona il lugubre rumore delle armi che si fronteggiano in tanti conflitti sparsi un po’ ovunque nel mondo,siamo ormai tutti consapevoli che soltanto una condizione di pace è effettivamente in grado di garantire il pieno rispetto dei diritti dell’uomo.
Anche se da sola – lo abbiamo visto – la pace non basta a risolvere i problemi che affliggono oggi l’umanità. E’ certo un valore irrinunciabile. Una virtù necessaria. Ma non sufficiente. Giacché deve rappresentare la condizione preliminare per garantire una ordinata convivenza umana. All’insegna della democrazia, della libertà e della giustizia tra i popoli.
Dovrà essere sempre di più la ragionevolezza del diritto – non l’ottusa forza delle armi – a costituire lo strumento privilegiato della pace. Ma il diritto potrà essere strumento privilegiato di pace solo nel contesto di una comune, condivisa legislazione internazionale. La sola che potrà nel futuro garantire a tutti i popoli della terra una sua applicazione effettiva. Nella consapevolezza che, affinché vi sia tale effettiva applicazione, sarà necessario che l’ordinamento normativo giuridico internazionale venga dotato di un potere coattivo. Di un potere, cioè, che possa far ricorso all’uso legittimo della forza per ottenere l’osservanza delle norme pattuite nell’ordinamento.
Poiché la pace, nell’odierna complessità del mondo globalizzato, sarà sempre di più intrecciata alla sicurezza internazionale. Che va al di là della semplice e sola assenza di conflitti armati. Anche lo sviluppo – come del resto recita la stessa Carta dell’Onu – il rispetto dei diritti dell’uomo, la protezione dell’ambiente costituiscono – e costituiranno sempre di più nel futuro – invalicabili presupposti per garantire la sicurezza e la pace nel mondo.
[1] K. von Clausewitz, Della guerra, Mondadori, Milano, 1970, p. 811.
[2] Ivi, p. 819.
[3] M. Weber, La politica come professione, Armando Editore, 1997, p. 48.
[4] Platone, Leggi, I, 626.
[5] K. von Clausewitz, Della guerra, cit., p. 231.
[6] I. Kant, Per la pace perpetua, in Scritti politici e di filosofia della storia e del diritto, Utet, Torino 1965, pp. 283-335.
[7] Agostino, Le Lettere, III, 189, 6.