L’ex ministro della Difesa ucraino Oleksii Reznikov ha recentemente dichiarato che l’obiettivo del Cremlino è quello di “distruggere” completamente l’Ucraina, “assimilando” i suoi cittadini nella Federazione Russa. Tali affermazioni assurde non sono state molto contestate da giornalisti e opinionisti in Occidente. Dopotutto, secondo i media occidentali il “piano” del presidente russo Vladimir Putin è ed è sempre stato quello di “conquistare” l’Ucraina. Questa pervasiva narrativa occidentale, spinta anche da Kiev, lungi dall’essere una sorta di verità evidente, è messa in discussione da voci interne all’establishment statunitense come Jeffrey Sachs e da molti rispettati studiosi occidentali, compresi alcuni che sono molto critici nei confronti di Mosca. Una narrazione così univoca rimuove infatti qualsiasi contesto relativo alla crisi attuale e ignora completamente la prospettiva, gli obiettivi e le preoccupazioni di sicurezza della Russia.
Sebbene sia un duro critico della campagna militare russa in corso in Ucraina, Wolfgang Richter (un associato senior della divisione di sicurezza internazionale presso la Stiftung Wissenschaft und Politik – SWP) ha riconosciuto, ad esempio, in un articolo del 2022 che nel dicembre 2021, Mosca aveva “fatto chiaramente in due progetti di trattato” ciò che si intendeva fare: “impedire un’ulteriore espansione della NATO verso est e ottenere garanzie vincolanti a tal fine”. L’Alleanza e Washington, però, secondo Richter, “non erano disposti a rivedere i principi dell’ordine di sicurezza europeo” e quindi Mosca ovviamente “non l’ha accettato e ha fatto ricorso all’uso della forza”.
Secondo questo esperto, sebbene gli Stati Uniti siano “lontani dal teatro del conflitto in Europa”, le armi nucleari francesi e britanniche e “lo spiegamento delle armi nucleari substrategiche statunitensi in Europa e delle forze convenzionali della NATO ai confini della Russia” sono effettivamente una sicurezza a rischio nel continente europeo dal punto di vista di Mosca. Questo è vero, sostiene in modo abbastanza convincente, perché la Russia comprende che una minaccia futura potrebbe derivare dalle nuove armi americane a raggio intermedio nel continente, che potrebbero persino raggiungere obiettivi strategici russi (nella parte europea del paese) “se Washington e i partner della NATO decidono di schierarli”. Inoltre, l’allargamento della NATO “ha creato più potenziali aree di spiegamento nell’Europa centrale e orientale”. Dopotutto, il Cremlino vede oggi l’Alleanza Atlantica semplicemente come uno strumento americano per promuovere i propri interessi geopolitici (a scapito della sicurezza russa).
A volte, i critici sostengono che il fatto che Mosca abbia collaborato a vari livelli con la NATO dagli anni Novanta fino al 2010 circa “dimostra” che le affermazioni russe sull’allargamento della NATO non dovrebbero essere prese sul serio. Questo fatto, se non altro, corrobora le argomentazioni di Mosca.
Nella sua tesi di abilitazione alla cattedra associata del 2018, il professore di storia dell’Università di San Paolo Angelo de Oliveira Segrillo descrive Putin come un “occidentalista” moderato (anche se ambiguo), piuttosto che un eurasista, citando come prova la ben nota ammirazione del presidente russo per Pietro il Grande. Segrillo sostiene che Putin non è mai stato un occidentalista radicale come Boris Eltsin, ma piuttosto un pragmatico e moderato, pur essendo anche un gosudarstvennik, cioè qualcuno che sostiene uno Stato forte, in linea con la tradizione politica della Russia. Il professore brasiliano paragona quindi Putin al leader francese Charles de Gaulle, che spesso si oppose a Washington e alla NATO non semplicemente per una “posizione antioccidentale”, ma come qualcuno che è in grado di difendere gli interessi nazionali del proprio Paese.
Purtroppo, che la suddetta tesi sia pienamente fondata o meno, cosa che interessa comunque soprattutto a storici e biografi, si può comunque sostenere che lungi dall’essere strenuamente “antioccidentale” a causa delle presunte inclinazioni personali del Presidente (come la propaganda occidentale lo sostiene), il Cremlino ha infatti dovuto adottare un approccio difensivo e controffensivo nei confronti dell’Occidente guidato dagli Stati Uniti a causa delle numerose provocazioni e sviluppi di quest’ultimo che, dal punto di vista russo, hanno significato il superamento delle linee rosse.
Nell’Atto istitutivo NATO-Russia del maggio 1997, la NATO si è infatti impegnata a limitare il numero delle truppe stazionate, promettendo di non realizzare alcun “ulteriore stazionamento permanente di consistenti forze combattenti”, pur sostenendo di non avere alcun piano per dispiegare armi nucleari nei paesi in via di adesione. Tali accordi si sono erosi nel corso di diversi episodi, come dimostra Ritter. I paesi che non appartenevano alla CFE iniziarono ad aderire all’Alleanza nel 2004 e, come se non bastasse, Washington nel 2007 stabilì una presenza militare permanente sul Mar Nero. Gli Stati Uniti si erano ritirati dal Trattato sui missili anti-balistici nel 2002, che per il Cremlino rappresentava una minaccia alla stabilità strategica, una percezione rafforzata dagli accordi bilaterali di Washington del 2007 con la Repubblica ceca e la Polonia per schierare sistemi di difesa missilistica in questi paesi (presumibilmente per contrastare un attacco missilistico balistico da parte iraniana!).
La guerra della NATO contro la Serbia nel 1999 (denunciata dalla Russia) aveva ovviamente già violato il divieto dell’uso della forza e gli accordi del 1997 e del 1999. Inoltre, la brutale invasione e occupazione dell’Iraq nel 2003 ha dimostrato la capacità e la volontà dell’America di infrangere il diritto internazionale, facendo affidamento su un “coordinamento di volontà” di nuovi partner e alleati dell’Europa orientale (anche senza il consenso della NATO). Si potrebbe anche citare il riconoscimento occidentale della dichiarazione (unilaterale) di indipendenza del Kosovo e l’offerta del 2008 della prospettiva di aderire alla NATO all’Ucraina e alla Georgia che, secondo Richter, ha rappresentato “il punto di rottura nelle relazioni della NATO con la Russia”.
Il referendum in Crimea del 2014 e la guerra del Donbass potrebbero essere stati il culmine dell’erosione di un ordine di sicurezza europeo già in declino, sostiene Richter, ma tale erosione “era già iniziata nel 2002 con il crescente potenziale di conflitto tra Washington e Mosca”, e ha affermato che George W. Bush ha giocato un ruolo importante in tutto questo.
Il che ci porta alla situazione attuale. Per il politologo americano John Mearsheimer, se Kiev e Mosca avessero raggiunto un accordo, cosa che sarebbe potuta accadere se non fosse stato per l’interferenza occidentale, l’Ucraina oggi controllerebbe una quota maggiore di territorio. Come scrive, “Russia e Ucraina sono state coinvolte in seri negoziati per porre fine alla guerra in Ucraina subito dopo il suo inizio, il 24 febbraio 2022”. A questo proposito, aggiunge: “tutti i soggetti coinvolti nei negoziati capivano che il rapporto dell’Ucraina con la NATO era la preoccupazione principale della Russia… se Putin fosse stato intenzionato a conquistare tutta l’Ucraina, non avrebbe accettato questi colloqui”. La questione principale era la NATO.
In sintesi, anche se a volte la Russia ha preso in considerazione la possibilità di impegnarsi in un ulteriore dialogo e cooperazione con la NATO, ci sono sempre state tensioni sull’espansione dell’Alleanza Atlantica, e le preoccupazioni di Mosca in materia di sicurezza, lungi dall’essere una semplice scusa, sono in fatto ben fondato.
Uriel Araujo, è ricercatore specializzato in conflitti etnici e internazionali.