Nell’ambito artistico e archeologico i falsi sono molti, moltissimi, e appartengono a tutte le epoche, nel senso che in tutte le epoche si sono costruite opere destinate a ingannare, a determinare scorrette attribuzioni e a garantire denaro disonesto. Che cosa sia un falso ce lo ha spiegato Federico Zeri, uno tra i massimi esperti e conoscitori d’arte del Novecento, talmente abile da poter capire con i soli sensi della vista e del tatto l’originalità o meno dei manufatti.
Qual è il vero falso? Il vero falso è l’oggetto che è stato eseguito in un’epoca diversa da quella dello stile che vuole esibire. Cioè il falso è sempre un oggetto destinato a ingannare. […] Il vero falso ha dietro di sé sempre la volontà di imbrogliare, cioè di spacciare per antico quello che è invece una creazione contemporanea.[1]
Capire che un oggetto di aspetto antico è invece un falso costruito in epoca meno antica è materia di grandi esperti, anche se oggi suffragata da sistemi scientifici di altissima specializzazione. Tuttavia, una anche minima percentuale di dubbio riesce spesso a tenere vivi i dibattiti sull’effettiva falsità; ne è esempio clamoroso la Sindone di Torino, dichiarata falsa da gran parte degli esperti e soprattutto dalla prova del Carbonio 14, ma ancor oggi venerata e ritenuta vera da molti credenti.
Le storie dei falsi e dei falsari sono spesso avvincenti; tra i tanti, due casi eccezionali possono porsi come modelli in questo settore: le vicende del Papiro di Artemidoro e l’attività di falsario di Han Van Meegeren.
Una parte del Papiro di Artemidoro
L’annosa disputa relativa al cosiddetto Papiro di Artemidoro ha portato alla ribalta non solo argomenti tecnici e storici di un certo rilievo, ma anche la figura romanzesca del celebre falsario ottocentesco, il greco Costantino Simonidis. La vicenda del Papiro e lo scontro non ancora terminato tra il filologo Luciano Canfora e l’archeologo Salvatore Settis, nonostante una recente sentenza abbia dato ragione a Canfora, sarebbero materia per un libro giallo non ancora scritto. Durante la lettura di alcune pagine di Canfora, che da anni scrive e interviene contro Settis con impressionante intensità, mi è tornato in mente per contrasto il personaggio dell’americanista Bonetto in La donna della domenica e del suo rivale Marpioli. Per dileggiare Bonetto in una disputa accademica, Marpioli non ne fa il nome, ma lo chiama soltanto «taluno»[2].
Il rivale scrive dell’altro come se fosse una nullità, di cui – vecchio trucco anche di molti politicanti – finge quasi di non ricordare il nome. Fruttero e Lucentini del resto non trascurano di raffigurare l’americanista Bonetto come un paranoico, ossessionato dalla propria reputazione, convinto di sé eppure pauroso ed infantile.
Il brano seguente invece appartiene a un volumetto del 2011 in cui Luciano Canfora commenta le affermazioni dei suoi rivali, Settis e il papirologo Gallazzi, con queste parole:
Strani questi due studiosi che si mettono di buona lena a raccontare storie su storie di cui non sanno nulla, oltre tutto reiteratamente contraddicendosi e ingarbugliandosi. La leggerezza di quelle dichiarazioni e ricostruzioni analitiche spicca ancor più se si pensa […].[3]
Nella disputa sul Papiro Luciano Canfora è in realtà molto lontano dalle arguzie velenose raccontate da F&L e, nonostante la levatura culturale e la stima che gli si può senza alcun dubbio attribuire, si pone qui come una sorta di figura tipica dei nostri tempi, inficiati dalla banalità delle trasmissioni televisive, dai ring politici tra personaggi logorroici e da tanta litigiosità sul web. Come l’americanista Bonetto, Canfora da qualche anno vuole distruggere il suo avversario, mentre Salvatore Settis mantiene un atteggiamento più controllato, anche se decisamente astioso. Purtroppo, Canfora e Settis sono due personaggi eminenti della nostra cultura e lo scontro ha finito, a mio modo di vedere, per danneggiare la reputazione di entrambi.
Tutto nasce da un oggetto raro, un papiro ritrovato in un ammasso di cartapesta usato per costruire una maschera, che probabilmente – come vuole Canfora – non sarebbe che un clamoroso falso e quindi la sua vendita del 2004, per due milioni e settecentomila euro, una clamorosa truffa. L’oggetto ritrovato da un collezionista armeno è alto poco più di 30 cm. e lungo oltre due metri e mezzo:
la prima parte si compone di un frammento di cm 27,5 x cm 32,5 contenente l’agraphon (parte non scritta) e la colonna I; la seconda parte si compone di tre frammenti (a, b e c) che costituiscono le colonne II e III del testo; la terza parte, ampia oltre cm 93,5, è composta da circa venti frammenti e contiene una carta geografica, le colonne IV e V del testo e un vasto frammento con raffigurazioni di mani, piedi e volti; la quarta parte contiene un disegno. Il verso del papiro è completamente coperto di disegni.[4]
Il Papiro consiste quindi di un testo introduttivo alle successive tavole attribuite al geografo Artemidoro di Efeso; l’importanza del reperto giustifica la battaglia sorta intorno ad esso. Ma a dare un apparente stop alla vicenda, nel 2018, è venuta addirittura una sentenza della procura di Torino, nella persona del procuratore Spataro, che è giunto a questa affermazione: «La certezza del falso è abbondantemente provata, sulla base di elementi indiziari gravi, precisi e concordanti»[5]. Il truffato è la Fondazione per l’Arte della Compagnia di San Paolo, che acquistò il papiro dall’antiquario armeno su suggerimento di Settis.
Conosciuta la sentenza, gli amici di Canfora non hanno saputo trattenere la gioia – anche loro ben lontani dallo stile di F&L –, ma la loro reazione appare in realtà, come nel caso di Silvia Ronchey, più uno sgradevole giubilo sul cadavere del presunto colpevole che una legittima soddisfazione per la verità riaffermata.
Eppure, la procura di Torino ora ha mostrato che l’ostinazione e l’onestà alla fine sono destinate a vincere. Che il vero può prevalere sul falso, sulla disinformazione, sulla fake news, sulla disonestà, materiale e, peggio, intellettuale: le perizie raccolte nell’inchiesta della procura e diffuse ieri stabiliscono in via definitiva che il Papiro è una truffa, truffa che però resterà penalmente impunita poiché il procedimento è stato archiviato per intervenuta prescrizione. Che quel goffo manufatto fosse falso in cuor loro lo sapevano ormai quasi tutti nel mondo degli studi e probabilmente anche in quello della finanza. […] La parola finale è truffa. Certo, la frode del mercante non è più perseguibile. Neanche la hybris degli intellettuali coinvolti è certo perseguibile – se non dal legittimo risentimento dei banchieri beffati – ma è e resterà, nella nostra memoria, imprescrittibile.[6]
Dopo la sentenza di Torino la stampa italiana in genere ha fornito notizie con il suo tipico pressapochismo, e cioè ritenendola un punto fermo e rendendo conto puramente delle parole di Spataro, pesanti come macigni. Tuttavia, è evidente che non si tratta di un giallo con identificazione dell’assassino tramite DNA o impronte digitali, perché la Procura non ha interpellato i detective! Ecco allora la reazione del presunto colpevole, l’intellettuale coinvolto, Salvatore Settis:
E poi dicono che la magistratura ha poco ascolto in Italia. È bastato che il Procuratore Spataro diramasse alle agenzie una fatwa sul Papiro di Artemidoro perché i giornali italiani, senza eccezioni, celebrassero la chiusura del caso, la verità che trionfa, il crimine sgominato. Nemmeno uno si è chiesto se un magistrato abbia in proprio la competenza per pronunciarsi sull’autenticità di un reperto archeologico, ignorando la comunità scientifica di riferimento e dichiarando “inutile disporre una consulenza”. Da Chiasso in su, tira un’altra aria: quando Canfora, apostolo della falsità del papiro, ha ‘postato’ su papylist, la mailing list di riferimento per i papirologi di tutto il mondo, un comunicato sulla “definitiva chiusura del caso” nelle stanze della Procura torinese, Andrea Jördens, la presidente dell’Associazione internazionale dei papirologi, gli ha chiesto seccamente: “Ma che c’entra questo con la scienza?”[7]
Una notizia interessante che deriva da questa affermazione di Settis è che esiste Papylist, mailing list dei papirologi, mentre l’altra considerazione che si può fare subito è che Canfora e Settis, i due litiganti, non sono dei papirologi e non lo è certamente il procuratore di Torino. Immaginiamo una controversia sulla scoperta di una nuova razza di insetti: ci stupiremmo molto se fosse condotta, nonostante qualche fragile affinità, da due veterinari. In questo campo, invece, qualcosa di poco serio accade, i frontmen sono due intellettuali esperti di antichità, un grecista e un archeologo, ma non dei papirologi. Due papirologi di fama, l’italiano Claudio Gallazzi e la tedesca Bärbel Kramer, sono in realtà tra i primi assertori dell’autenticità del Papiro, ma nessuno dei due gode di popolarità di massa, a differenza dei due frontmen, che oltre agli studi si dedicano nel tempo libero alla politica.
Ovviamente, non sono personalmente in grado di fornire dati e neppure intuizioni sulla reale natura del Papiro, ma nella giungla delle opinioni espresse in tanti anni di discussioni è emersa una figura romanzesca e fascinosa che da sola merita attenzione, quella di Costantino Simonidis, il grande falsario greco protagonista di una vita spericolata e di varie attività truffaldine. Luciano Canfora ha tradotto dal greco gli scritti seri di Simonidis[8] e, vedi caso, ha attribuito proprio a lui la fabbricazione fraudolenta del Papiro di Artemidoro, che quindi – detto per inciso – potrebbe rientrare tra le opere più notevoli di Simonidis e avere anch’esso un suo qualche valore storico!
Non ci sono dubbi che personaggi come Simonidis facciano parte di un ristretto numero di imbroglioni per così dire simpatici, sia perché truffano cosiddetti o sedicenti esperti, sia perché possiedono indubbie capacità. La vita di Simonidis, che ha ispirato il Simone Simonini protagonista del bel romanzo Il cimitero di Praga di Umberto Eco, può essere riassunta in breve. Formatosi come stampatore, incisore e calligrafo, trascorse alcuni anni sul Monte Athos ospite di uno zio abate e lì, luogo decisamente insolito in cui crescere, conobbe da vicino i manoscritti greci. A partire dal 1850, compiuti i trent’anni, comincia la sua attività di falsario di mappe, manoscritti e documenti antichi da lui stesso fabbricati. Muovendosi tra l’Egitto, Costantinopoli, Londra, Lipsia, Berlino, riuscì in alcuni casi a vendere le sue opere, ma fu anche spesso scoperto ed espulso dai paesi in cui aveva commesso i reati. Giunse anche, secondo alcune fonti, a fingere la propria stessa morte per evitare condanne in contumacia. Se vogliamo fidarci di Canfora, la sua opera di falsario del Papiro di Artemidoro dimostra che Simonidis ci sapeva fare tecnicamente, ma non troppo, visto che lo stesso Canfora giudica rozze le figure e lo stile del testo.
Il falsario Simonidis era nato nel 1820, mentre l’altro falsario leggendario dei tempi moderni, l’olandese Han Van Meegeren, nel 1889. Li accomuna la scelta di non eseguire falsi nel senso di copie di opere esistenti, ma al contrario di creare opere nuove e sconosciute facendole passare per imprevedibili e straordinari ritrovamenti. Diversissima invece è la vicenda personale, anche se entrambi conobbero una fine ingloriosa.
Han Van Meegeren era un ottimo illustratore, un pittore la cui attività professionale, tra ritratti e calendari, gli consentiva una vita agiata. La scelta di sbugiardare e umiliare i critici d’arte divenne definitiva intorno al 1933, quando aveva oltre quarant’anni, forse per un desiderio di rivalsa, forse per dimostrare che non era solo un pittore di cose carine, meno probabilmente per desiderio di soldi o di fama. Sta di fatto che, durante un periodo trascorso in Provenza, riuscì con infinita pazienza a determinare un sistema efficace di copia, vale a dire per creare su una tela originale del XVII secolo, con colori recuperati da quadri coevi, un’immagine che potesse essere attribuita a Franz Hals, o a Terbooch, o a Jan Vermeer.
Van Meegeren ebbe un colpo di genio: di Vermeer erano noti pochissimi quadri e solo uno a soggetto sacro, un fatto poco spiegato dagli storici. Se allora il falsario crea una Cena in Emmaus usando i materiali e lo stile di Vermeer, l’inganno sarà più facile e la notizia di maggior importanza. Van Meegeren prese come modello compositivo una delle Cene in Emmaus di Caravaggio e la interpretò alla Vermeer, usando una vecchia tela, vecchi colori riciclati e un forno abilmente gestito per invecchiare e screpolare l’opera. Questo aspetto tecnico dell’esecuzione fu per Van Meegeren molto più impegnativo della copia dello stile. Il falso fu completato con un lavoro certosino, durato sei mesi, nel 1937.
Ma se fare il falso rivelava capacità tecniche elevate, ora vendere il falso doveva appoggiarsi su capacità di altro tipo, quelle del truffatore. In questo campo, Van Meegeren si rivelò altrettanto geniale e ordì una trama complessa per giustificare il possesso fortunoso di un’opera che necessitava di essere autenticata da un professionista. Il falsario inventò una vecchia signora olandese, residente in Italia, proprietaria di una collezione di opere fiamminghe, desiderosa di vendere i suoi quadri per motivi economici, ma in difficoltà per via del divieto fascista di esportare quadri all’estero. Van Meegeren fece vedere il suo Vermeer a Gerard Boon, un uomo politico appassionato d’arte, ben sapendo che sarebbe poi passato anche al vaglio di un vero esperto, il suo nemico prediletto tra i critici d’arte, Abraham Bredius. Bredius cadde nel tranello e autenticò la Cena in Emmaus di Vermeer, nel settembre del 1937, con parole di entusiasmo per il ritrovamento e di ammirazione per la bellezza dell’opera.
Van Meegeren vendette l’opera ad un prezzo altissimo. Nel 1938 fu organizzata una mostra al Museo Boijmans di Rotterdam per presentarla al pubblico.
Stando ai suoi biografi, Van Meegeren ebbe per un certo periodo il desiderio di autodenunciare il proprio falso, per poter rendere pubblica la sua beffa e diventare famoso, ma di certo alla fine non cedette all’istinto. Poco tempo dopo, la signora olandese in Italia cedeva un altro quadro, questa volta di de Hooch. Van Meegeren, tornato in Olanda durante la guerra, avrebbe prodotto alcuni altri falsi negli anni Quaranta. Due di essi erano di nuovo dei Vermeer.
Il falsario aveva trovato un sistema di vendita efficace e si serviva di due intermediari fidati: tuttavia, per una delle transazioni, fu coinvolto un nuovo interlocutore che, quasi subito, si rivelò in combutta con gli occupanti tedeschi, i nazisti. La vendita del Cristo e l’adultera di Vermeer divenne un affare di stato, la cifra sborsata dai tedeschi fu stratosferica e rimpolpata dalla restituzione allo stato olandese di duecento quadri trafugati. Nessuno peraltro dubitava che il Vermeer non fosse un Vermeer.
Pochi anni dopo, un altro Vermeer passava di mano, in Olanda, e il falsario incassava ulteriori cifre da capogiro.
L’abilità di Van Meegeren restava segreta e perfetta, ma l’epilogo della sua storia è paradossale se non quasi grottesco: il pittore, terminata la guerra, si trovò quasi per caso indagato e poi incarcerato per collaborazionismo. Per salvare la pelle, durante il processo, dimostrò che il Vermeer finito in mano nazista lo aveva dipinto lui e che quindi non si poteva parlare di collaborazione, ma semmai del contrario. Con rabbia da una parte, ma forse felice perché poteva finalmente raccontare tutto, Van Meegeren svuotò il sacco.
La storia del processo occupò le prime pagine dei giornali per mesi. Il pittore, che per dimostrare di essere un falsario aveva raccontato e fatto vedere tutti i suoi trucchi, ne uscì come un eroe, diventando – sembra – uno dei personaggi più popolari dell’Olanda liberata.
Ma non durò molto, perché Han Van Meegeren, condannato nel mese di novembre del 1947 ad appena un anno di reclusione, morì un mese dopo per una crisi cardiaca.
Simonidis, Van Meegeren, due storie esemplari che ci confermano la semplice regola enunciata da Federico Zeri:
Il falso nasce quando l’opera d’arte viene commercializzata e quando ci sono i collezionisti. È una legge logica. Il giorno in cui la gente compra pagando molto un’opera d’arte, c’è chi la fa falsa.[9]
Note
[1] F. Zeri, Cos’è un falso e altre conversazioni sull’arte, Longanesi, Milano, 2011 (formato Kindle).
[2] C. Fruttero e F. Lucentini, La donna della domenica, Mondadori, Milano, 1972, p. 171.
[3] L. Canfora, La meravigliosa storia del falso Artemidoro, Sellerio, Palermo, 2011, p. 58.
[4] Dalla voce di Wikipedia: “Il papiro di Artemidoro”.
[5] Dal testo della sentenza della Procura di Torino del 10 dicembre 2018.
[6] S. Ronchey, La procura di Torino dà ragione a Luciano Canfora, in «La Repubblica», 10/12/2018.
[7] S. Settis, Spataro ha sentito solo il parere di Canfora, in «Il Fatto Quotidiano», 15/12/2018.
[8] C. Simonidis, Opere greche, Edizioni di Pagina, Bari, 2012.
[9] F. Zeri, Cos’è un falso e altre conversazioni sull’arte, cit.