La rivoluzione perenne del cristianesimo per una perenne rivoluzione della politica

 

Quello che è più difficile da capire quando si è abituati alle immagini tradizionali di Dio, è questo intrecciarsi della storia umana con una “storia” di Dio. E giungiamo così all’idea centrale: lungi dall’essere il comandante universale, il Dio biblico è anzitutto il liberatore. Si ignora generalmente che la Genesi non è il primo Libro della Bibbia. Ben più antico è Esodo, considerato dagli Ebrei come il primo Libro, il Libro fondatore. Il che vuol dire che gli ebrei riconoscono che il loro Dio non è prima di ogni cosa il creatore universale, ma anzitutto il loro liberatore. E il testo è esplicito: «Vi ho liberati dall’Egitto, il paese della schiavitù». Ora, Egitto si dice Mizraim e questo termine significa anche «duplice angoscia», che alcuni rabbini hanno spiegato come l’angoscia di vivere e l’angoscia di morire. Dunque, il Dio della Bibbia è prima di tutto colui che libera l’uomo da tutte le schiavitù, dall’angoscia di vivere e di morire.

Virtù del coraggio di uomini e donne liberi per una rivoluzione perenne del cristianesimo che sappia dialogare con una politica in perenne rivoluzione.

Nel suo celebre film Nell’anno del Signore, Luigi Magni descrive il processo e la tragica fine dei due carbonari Angelo Targhini e Leonida Montanari, incarcerati e giudicati di lesa maestà, giustiziati nel 1825 in Piazza del Popolo, a Roma. Nel film di Magni, mentre i due carbonari si trovano in carcere, Leonida Montanari esclama: «Chi fa la rivoluzione non si deve portare niente appresso! Amori, affetti, tutte palle di cannone legate al piede! Il rivoluzionario è come il santo, lascia tutto e invece della croce prende il coltello e si incammina».

Oltre alla vicenda dei due carbonari giustiziati dallo Stato Pontificio, il fascino delle parole messe in bocca a Montanari rimane quello di una stretta relazione fra il rivoluzionario e il santo. Una sorta di misticismo legato alla rivoluzione che, a prima vista, apparterebbe alla sfera della politica piuttosto che a quella religiosa.

Invece, come nel film di Luigi Magni, anche nell’opera di Francesco Germinario, ritroviamo lo stesso legame, lo stesso intento. Un legame stretto fra senso religioso e rivoluzione politica, che riguarda, prima di tutto, l’utilizzo del linguaggio. Il paragone fra il rivoluzionario e il santo, pronunciato e quasi professato dal Montanari di Magni, è in prima istanza un accostamento linguistico che, scavando più in profondità, diviene un accostamento ideale e concettuale. Un rivoluzionario è colui che lascia tutto per mettersi in cammino, colui che prende il coltello e sceglie della propria storia.

Riprendendo le prime battute del testo di Germinario, l’idea di rivoluzione è esattamente quella di essere i fautori della storia, di essere i protagonisti di una storia che si va costruendo.

Le rivoluzioni storicamente avvenute, come anche il racconto del rivoluzionario, ci riportano a questa peculiare protagonismo della persona che fa la rivoluzione e, facendo la rivoluzione, costruisce la storia.

Osservato dal punto di vista delle scansioni temporali, si potrebbe rilevare che la prima sensazione che emerge nelle rivoluzioni concerne proprio la percezione umana del tempo: questo è vissuto in una maniera molto veloce, trasmettendo agli uomini la convinzione che il tempo rivoluzionario è quella cornice in cui si verificano modifiche e cambiamenti radicali che in genere avrebbero richiesto decenni, se non intere epoche storiche, per realizzarsi. Nella sua opera di distruzione dei sistemi politici o economico-sociale esistenti, il rivoluzionario matura progressivamente la convinzione di potere dominare il tempo[1].

Se il rivoluzionario è colui che domina il tempo e produce storia, è soprattutto colui che distrugge, critica e sconvolge l’ordine esistente, per creare un nuovo ordine, per dare una nuova forma alla storia. La rivoluzione consiste in una dialettica fra distruzione critica e costruzione progettuale, in cui il rivoluzionario concepisce se stesso come protagonista immerso nella tensione polare. Ma questo è possibile, secondo l’idea di Germinario, in quanto da una parte le istituzioni umane non sono eterne e immutabili e dall’altra in quanto il tempo stesso è vettoriale, orientato. Due acquisizioni che provengono direttamente o indirettamente dal cristianesimo.

La possibilità che le istituzioni cambino, che i poteri che governano i territori e i cittadini non siano eterni ma storicamente fondati è un’idea che ritroviamo già in teologi come Tommaso d’Aquino, per il quale le istituzioni civili e politiche hanno il compito di rispecchiare lo stato di natura dell’essere umano, di soddisfare i suoi bisogni e le sue attese. E quando questo non avviene, le istituzioni stesse possono essere cambiate o possono mutare di per sé o, nel caso della rivoluzione, crollare. Perché le istituzioni civili e politiche non hanno una validità assoluta e immutabile, caratteristiche che appartengono solo a Dio, ma sono storicamente fondate.

In questo senso, allora, il rivoluzionario è colui che contribuisce al corso della storia, colui che sceglie di dominare il tempo e di fare del tempo un fattore di cambiamento. In questa concezione del tempo consiste la più rivoluzionaria acquisizione cristiana.

Come ben sottolinea Germinario, la razionalizzazione del tempo e la filosofia della storia sono acquisizioni derivate dal cristianesimo. Nel mondo greco e latino, come ben sappiamo, il tempo ha una base ciclica, secondo l’ordine delle stagioni. Una ciclicità temporale da cui non si può venir fuori e da cui non c’è da attendersi nulla. Tant’è che non ricordiamo il mondo classico per aver prodotto grandi rivoluzioni. Invece, l’idea che il tempo sia orientato verso la salvezza, che Gesù sia morto e risorto per la comunità cristiana e per tutti gli esseri umani e che ci sia la salvezza alla fine dei tempi è ciò che ha aperto il tempo ad un orizzonte, che ha impresso alla storia una spinta verso un continuo miglioramento, verso una costante e inesorabile realizzazione del Regno di Dio.

Se il tempo ha un senso, se la storia ha una direzione, allora l’essere umano diviene protagonista di questa storia, protagonista in una relazione con Dio che lo vede impegnato in prima persona nell’adoperarsi per la salvezza personale e comunitaria. Così, il tempo si apre alla speranza, viene orientato verso un miglioramento che, in termini secolarizzati, potremmo definire come utopia.

Ogni rivoluzionario, dunque, non è solo produttore di tempo, creatore della storia, ma soprattutto colui che indirizza verso un’utopia, verso qualcosa che non c’è ancora ma che, prima o poi, ci sarà.

È questo il motore di ogni rivoluzione, da quella industriale a quella bolscevica di Lenin, passando anche per le rivoluzioni fasciste e naziste. Rivoluzioni che hanno un paradigma di riferimento, che hanno una tensione verso cui dirigere le masse. Un’utopia che riecheggia il non ancora della tensione escatologico-messianica presente già nella Bibbia e che ritroviamo nell’incompiutezza verso cui apre il messaggio cristiano e paolino, in modo particolare. Non più un tempo ciclico, ma un tempo orientato, un tempo incompiuto con istituzioni politiche e sociali non assolute, ma sempre e comunque mutabili.

Se le acquisizioni cristiane diventano il terreno fertile per le rivoluzioni, la nostra riflessione può spingersi ulteriormente avanti nel parallelismo fra il rivoluzionario e il santo. Rimanendo sulle Sacre Scritture e sull’esperienza di Dio nel popolo ebraico, concordiamo con ciò che afferma Jacques Ellul nel suo Anarchia e cristianesimo. Riflettendo sull’esperienza cristiana delle origini e sull’idea anarchica ancor prima del Movimento anarchico come fenomeno politico ottocentesco, possiamo leggere:

 

Quello che è più difficile da capire quando si è abituati alle immagini tradizionali di Dio, è questo intrecciarsi della storia umana con una “storia” di Dio. E giungiamo così all’idea centrale : lungi dall’essere il comandante universale, il Dio biblico è anzitutto il liberatore. Si ignora generalmente che la Genesi non è il primo Libro della Bibbia. Ben più antico è Esodo, considerato dagli Ebrei come il primo Libro, il Libro fondatore. Il che vuol dire che gli ebrei riconoscono che il loro Dio non è prima di ogni cosa il creatore universale, ma anzitutto il loro liberatore. E il testo è esplicito: «Vi ho liberati dall’Egitto, il paese della schiavitù». Ora, Egitto si dice Mizraim e questo termine significa anche «duplice angoscia», che alcuni rabbini hanno spiegato come l’angoscia di vivere e l’angoscia di morire. Dunque, il Dio della Bibbia è prima di tutto colui che libera l’uomo da tutte le schiavitù, dall’angoscia di vivere e di morire.[2]

 

La prima esperienza che il popolo ebraico fa di Dio è quella di essere il liberatore. E l’esperienza che la prima comunità cristiana farà di Gesù è proprio l’esperienza di liberazione dall’angoscia del vivere e dall’angoscia del morire, ovvero da ogni schiavitù.

Il centro dell’annuncio cristiano, il kerygma, è l’annuncio di passione, morte e resurrezione di Gesù Cristo, annuncio di una liberazione della vita dopo la morte. E se la morte non è l’ultima parola in quanto c’è la resurrezione, allora neanche il peccato personale e la schiavitù collettiva sono l’ultima parola.

Il binomio del kerygma, infatti, è fra schiavitù e morte da una parte e liberazione e resurrezione dall’altra. Se a livello teologico questo è un punto fermo dell’annuncio cristiano, per la politica è divenuto il sistema di promozione e di realizzazione delle principali rivoluzioni sociali che hanno costruito il loro sistema e la loro narrazione seguendo il senso biblico-messianico della storia.

Ogni rivoluzione, infatti, ha una tensione verso l’utopia ma anche una narrazione storica tipicamente messianica fatta di un’origine edenica, una caduta nella schiavitù e nell’oppressione, fino ad arrivare ad una nuova liberazione attraverso la rivoluzione.

Questo lo ritroviamo nelle principali rivoluzioni marxiste dove il ruolo messianico è affidato al proletariato, ma anche nelle rivoluzioni conservatrici fasciste e naziste. Infatti, il ritorno ai fasti di un Impero Romano passato o il mito della razza ariana sono le narrazioni che guidano le rivoluzioni del fascismo e del nazismo, come elementi fondanti a cui viene affidato un ruolo messianico nel nuovo ordine sociale. Ma anche le rivoluzioni liberali e borghesi hanno una narrazione simile, per cui si attribuisce alla nascente borghesia un ruolo messianico teso al miglioramento delle condizioni individuali e, di seguito, collettive della popolazione.

Ogni ideologia, intesa come sistema di pensiero, ha uno sviluppo narrativo che vede nella rivoluzione il motore di una storia fatta di una caduta nella schiavitù e nel degrado da una iniziale condizione paradisiaca, per giungere ad una liberazione futura e ad un ripristino delle primordiali condizioni di partenza. Queste narrazioni ideologiche hanno dato forma alla borghesia, al marxismo, al fascismo e al nazismo, per cui la rivoluzione è il punto di rottura della storia, il salto dalla condizione passata a quella futura, nel presente. Scrive Germinario:

 

Il rivoluzionario, per dire meglio, è persona dotata di una forte e radicata memoria storica, l’unica facoltà che appunto gli permette di formalizzare il confronto fra le due dimensioni temporali; e proprio questa memoria storica egli intende trasmettere per giustificare la propria azione di rottura: sono gli orrori del passato e quelli del presente a giustificare la rottura rivoluzionaria. Ciò significa che la rottura rivoluzionaria costituisce uno stacco dal passato, senza però dimenticare quest’ultimo, perché è questo confronto che permette al rivoluzionario di valorizzare e difendere le proprie posizioni politiche. Come a dire che nella politica rivoluzionaria l’Éschaton subisce una torsione che non è dato di rintracciare nella tradizione giudaico-cristiana: l’azzeramento rivoluzionario del passato avviene mantenendone al tempo stesso il ricordo quale elemento di comparazione. Dotata, come s’è detto, di memoria storica, la rivoluzione è indotta a comparare il presente rivoluzionario al passato, per sottolineare con maggior vigore il suo progetto di rottura.[3]

 

Il problema ideologico sotteso a tutti i movimenti rivoluzionari che abbiamo citato è sottolineato da Germinario come torsione dell’Eschaton. C’è un momento in cui la rivoluzione cessa, in cui il punto di rottura fra passato e futuro si esaurisce e i poli dialettici si chiudono nel presente o, meglio, in un eterno presente. È qui che si consuma il dramma di ogni narrazione ideologico-religiosa delle rivoluzioni, ovvero nel momento in cui la rivoluzione cessa, ecco che si stabilisce un nuovo ordine, una fine della storia che schiaccia l’evoluzione storica nell’immobilismo della situazione attuale.

Le più grandi promesse di liberazione, le narrazioni messianiche, le rivoluzioni politiche si trasformano in incubi dittatoriali, in una stabilità storica che schiaccia la trascendenza della storia divina nell’immanenza dello Stato totalitario. Le più grandi aspirazioni utopiche dell’essere umano diventano i peggiori incubi a cui l’umanità e la storia occidentale hanno assistito nel corso del Novecento.

I regimi totalitari del fascismo, del nazismo, del comunismo, come anche dello Stato borghese, sono la parabola autoritaria dello schiacciamento della trascendenza teologica sul piano dell’immanenza politica. In questa assimilazione della religiosità nel processo di secolarizzazione politica, Germinario intravede la peculiarità delle ideologie del Novecento. Nella pretesa di scacciare il Male dal mondo e dall’essere umano, le ideologie politiche hanno assimilato un compito che era tipico della religione, finendo per creare sistemi oppressivi e autoritari. Così, mentre tutte le grandi narrazioni rivoluzionarie si sono arenate sulla cessazione della storia e sull’immobilismo totalitario e autoritario, la religione cristiana è colei che vive una sorta di rivoluzione perenne.

Dal momento che Dio ha scelto di intrecciare la sua storia con la storia dell’umanità, il tempo ha assunto una tensione vettoriale asintotica, mai compiutamente realizzabile in questo mondo. Per il cristiano ogni processo storico, ogni momento di liberazione sociale e politica, ogni rivoluzione, come anche ogni potere, costituisce un momento provvisorio in cui ritrovare il binomio schiavitù-morte e liberazione-resurrezione. Un momento mai compiuto in se stesso, ma sempre in tensione fra un già nella passione-morte-resurrezione di Cristo e un non ancora, il quale si compirà solo alla fine della storia.

Questa tensione escatologica connaturale al cristianesimo, pone il cristianesimo stesso come una rivoluzione permanente, per utilizzare un concetto di Lev Trotzkij. Achille Zarlenga, commentando la figura di Ernesto Bonaiuti, prete modernista, scrive:

 

Il cattolicesimo è dunque un gruppo sociale che, come scrive il prete modernista, «non è un fatto che si svolge fuori dalla vita nazionale di un paese» ma «getta le sue ramificazioni in tutti gli organi dello Stato» (Buonaiuti 1948, 13). Spingendo al parossismo l’equazione tra socialismo e cristianesimo, Buonaiuti scrive che tale equivalenza implica «una conoscenza cioè insieme sociale e religiosa che afferma risolutamente la identità del sentimento religioso e della speranza rinnovatrice sociale» (Buonaiuti 1948, 73). L’Italia ha bisogno nella sua ottica di una politica riformatrice, radicale e libera, che porti miglioramenti all’educazione, ai rapporti internazionali e agli affari interni, solo così il paese sarebbe stato in grado di competere con le nuove sfide imposte dalla contemporaneità. Invece, il pontefice Pio X, «ha lasciato che tutti i lanzichenecchi della presunta ortodossia, come cani in una battuta di caccia, si mettessero sulle orme del cosiddetto modernismo», opprimendo col «ferro e col fuoco» i suoi figli dissidenti, non cogliendo il grande fermento che animava l’esperienza eterodossa e rimanendo quindi sordo alle crescenti rivendicazioni di emancipazione sociale e affrancamento intellettuale che si levavano dai ceti più diversi dello stato italiano.[4]

 

Come ricorda Bonaiuti, autore ripreso anche da Francesco Germinario, il cristiano si occupa delle questioni del sociali e politiche, consapevole che da una parte può contribuire a migliorarle, a rivoluzionarle, dall’altra riconoscendo che nessun regime esaurisce e realizza totalmente il Regno di Dio. In questo senso, allora, la religione, e in particolare il cristianesimo, è una sorta di salvaguardia della deriva autoritaria e totalitaria della politica. Un cristianesimo rivoluzionario che, ci costa dirlo, non è sempre stato in linea con la Chiesa come istituzione ufficiale. Un cristianesimo che si è nutrito anche del fascino dell’eretico come rivoluzionario all’interno delle istituzioni e dall’interno delle istituzioni, come colui che ha spinto le istituzioni ecclesiastiche a ripensarsi e a cambiare.

Si vengono a costituire, così, due polarità fra politica e religione. Polarità che hanno bisogno di rimanere distanti in quanto generano campi elettrici in cui far scaturire il flusso della storia e dei cambiamenti rivoluzionari e politici. Se il polo elettrico della religione finisse schiacciato su quello della politica, l’energia elettrica cesserebbe, la forza rivoluzionaria si spegnerebbe e avremmo quell’immobilismo della fine della storia, di cui abbiamo accennato con i totalitarismi. Mentre, se il polo della politica venisse assimilato dal polo religioso, ecco che avremmo quel conformismo clericale di cui la Chiesa stessa ha sofferto nei secoli passati. Un conformismo fatto di una Chiesa trionfante, di una Societas christiana, di ingerenze partitiche. Mentre cristianesimo e politica si rendono servizio a vicenda nella misura in cui vivono un dialogo dialettico fra di loro, una polarità in cui far scorrere la corrente della rivoluzione. D’altronde, come ci ricorda lo stesso papa Francesco in Gaudete et exsultate, la santità (come la rivoluzione) è una lotta.

Non si tratta solamente di un combattimento contro il mondo e la mentalità mondana, che ci inganna, ci intontisce e ci rende mediocri, senza impegno e senza gioia. Nemmeno si riduce a una lotta contro la propria fragilità e le proprie inclinazioni (ognuno ha la sua: la pigrizia, la lussuria, l’invidia, le gelosie, e così via). È anche una lotta costante contro il diavolo, che è il principe del male. Gesù stesso festeggia le nostre vittorie. Si rallegrava quando i suoi discepoli riuscivano a progredire nell’annuncio del Vangelo, superando l’opposizione del Maligno, ed esultava: «Vedevo Satana cadere dal cielo come una folgore» (Lc 10,18).[5]

Se, dunque, ritornando alla citazione del film di Luigi Magni «il rivoluzionario è come il santo», è anche vero che il santo è come un rivoluzionario. Un lottatore con se stesso, con il Male che si porta dentro in quanto essere umano. Una lotta che non riguarda solo la politica e che la politica non potrà mai risolvere in maniera definitiva, perché paradossalmente eliminare il Male dal mondo significa annichilire la libertà stessa dell’essere umano. Una libertà che ciascuno e ciascuna di noi si gioca giorno dopo giorno nelle scelte che vive a livello personale e a livello politico.

Per questo, la chiamata alla santità è una chiamata ad essere rivoluzionari all’interno della Chiesa e la chiamata ad essere rivoluzionari nella politica è una chiamata alla santità non solo per chi crede ma anche per chi non crede, intendendo il santo come il giusto. Un parallelismo fra santità e giustizia che ritroviamo già nelle pagine della Sacra Scrittura, per cui il santo è il giusto.

Allora, in conclusione, seguendo l’intuizione di Francesco Germinario sulla dimensione etica fra religione e politica, desideriamo indicare la virtù del coraggio come elemento comune al santo e al rivoluzionario, all’eretico e al politico, al mistico e al giusto. Scrive Luciano Manicardi a tal proposito:

 

La decisione coraggiosa è esercizio di libertà. E diviene anche coraggio di opporsi, di dire di no, fuggendo le tentazioni di compiacere gli altri e di adulare chi è più forte e potente di noi. Così il coraggio diviene capacità critica, attitudine di chi non si rende dipendente dagli altri e subordinato a loro, ma osa se stesso. Il coraggio è forza e volontà di scegliere nella notte, cioè nel bel mezzo di difficoltà, ma ha la forza di un’illuminazione, di un fiat lux, di un faro che indica la via da percorrere per un’umanità più vera. La fortezza che chiamiamo coraggio si manifesta nei confronti del tempo e della realtà come capacità di dare inizio ma anche di perseverare. Il coraggio che non si limita al momento della decisione contrastata e difficile, ma si rinnova nel tempo, diviene pazienza. Il coraggio svela così la sua duplice anima: è forza d’animo con cui una persona intraprende un’azione ed è perseveranza con cui essa persegue l’obiettivo. L’uomo coraggioso è pertanto chiamato a fare unità tra presente e futuro articolando insieme libertà e dovere, assumendo liberamente come proprio dovere l’atto coraggioso: la denuncia di un’ingiustizia, una decisione impopolare ma necessaria, la correzione del comportamento di un amico, il paziente e faticoso stare accanto a una persona che si trova nella sofferenza.[6]

 

Virtù del coraggio di uomini e donne liberi per una rivoluzione perenne del cristianesimo che sappia dialogare con una politica in perenne rivoluzione.

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Note

[1] Cfr. F. Germinario, Cristianesimo e rivoluzione, infra, p. 22-23.

[2] J. Ellul, Anarchia e cristianesimo, Elèuthera, Milano 2010, p. 60-61.

[3] F. Germinario, Cristianesimo e rivoluzione, infra, p. 58.

[4] A. Zarlenga, Ernesto Buonaiuti tra liberalismo modernista e socialismo cristiano, Liberalismi eretici. Norma, eccezione, fondamento, «Philosophy Kitchen», 8(5/Marzo 2018), p. 116

[5] GS 159.

[6] L. Manicardi, Spiritualità e politica, Qiqajon, Magnano 2019, pp. 40-41.

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Nota editoriale: il testo che avete letto è la prefazione al volume di Francesco Germinario Cristianesimo e rivoluzione in uscita da domani 16 maggio in tutte le librerie.

Autore

Matteo Losapio è presbitero dell’Arcidiocesi di Trani-Barletta-Bisceglie. Laureato in Filosofia presso l’Università di Bari e in Teologia presso la Facoltà Teologica Pugliese. Socio della Società Filosofica Italiana – sez. Bari, è redattore per la rivista «Logoi.ph – Journal of Philosophy» e del giornale «Cercasi un fine», periodico di cultura e politica. Per l’editrice Aracne ha pubblicato Pavel A. Florenskij. I due mondi dell’icona fra prospettiva rovesciata e metafisica concreta e Gregorio Palamas, crocevia d’Oriente. Si occupa di “filosofia della città”, filosofia contemporanea su riviste, giornali e sul suo sito personale www.makovec.it.


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