Quali diritti per la natura?

Possiamo conferire diritti legali a entità naturali come fiumi, montagne ed ecosistemi? È utile di fronte alla crisi ambientale? Sebbene queste domande non orientino ancora le politiche pubbliche, rivelano l’aspirazione a un cambiamento di paradigma nel nostro rapporto con la natura. Esempi provenienti da tutto il mondo illustrano diversi approcci e il loro potenziale impatto sulle pratiche e sulle mentalità legali.

Negli ultimi tre anni, una parte del mondo accademico e dei media — anche se una minoranza — ha affrontato la questione dei diritti della natura. Il dibattito è guidato da alcuni giuristi e filosofi le cui posizioni, spesso molto ben argomentate, differiscono ampiamente tra loro. A livello teorico, non c’è consenso su quali possano o debbano essere i diritti della natura. Ma le domande fondamentali sono le stesse: un fiume, una montagna, un ecosistema possono avere dei diritti propri, possono diventare persone giuridiche a pieno titolo? È necessario e utile di fronte alla crisi ambientale che l’umanità deve affrontare?
Queste domande non sono più riservate, anche se non rappresentano ancora una questione pubblica, nel senso che non guidano le politiche pubbliche. A volte danno l’impressione di una forma di radicalismo pro-ambiente, una variante giuridica dell’ecologia profonda che si occupa di un cambiamento di paradigma nel rapporto tra gli esseri umani e le entità della natura non umana.

Non si tratta di un tema nuovo. Contributi che sono diventati dei classici, come l’articolo di Marie-Angèle Hermitte, “La nature, sujet de droit?”, pubblicato nella rivista Annales nel 2011, e il successivo sviluppo del concetto di animismo giuridico, o la proposta di Christopher Stone del 1972 di dare agli alberi il diritto di appellarsi in tribunale, hanno aperto la strada alle attuali discussioni teoriche. Ma lo slancio attuale non è limitato alle mura dell’Università. Nasce dall’effettiva attuazione dei diritti della natura in tutto il mondo. Anche in questo caso, i fatti sono molto diversi, ed è illusorio parlare di diritti della natura nel loro insieme. Inoltre, sarebbe come perdere di vista il significato dell’espressione… Due esempi importanti aiutano ad illustrarlo.

Il Parlamento neozelandese ha conferito personalità giuridica al fiume Whanganui il 20 marzo 2017. Il testo adottato, intitolato Te Awa Tupua Act in base a una delle possibili denominazioni del fiume in lingua maori, afferma nella seconda sottosezione della sua seconda parte – avendo cura di separare le due sezioni:

“Articolo 12: Te Awa Tupua è un insieme indivisibile e vivente, che comprende il fiume Whanganui dalle montagne al mare, incorporando tutti i suoi elementi fisici e metafisici.

Articolo 14: Te Awa Tupua è una persona giuridica e ha tutti i diritti, i poteri, i doveri e le responsabilità di una persona giuridica”.

L’articolo 12 caratterizza l’entità in questione. L’articolo 14 conferisce a questa entità la personalità giuridica. Il testo separa le espressioni “insieme indivisibile e vivente” e “persona giuridica” — anche se c’è una connotazione animista in questo testo, non influisce sull’atto stesso della personalizzazione giuridica. Soprattutto, questa legge è un atto del Parlamento. Nasce dalla volontà del popolo nazionale e ne eredita la forza normativa. In effetti, fa parte di un lungo processo di riconciliazione post-coloniale che ha preso in considerazione le rimostranze del popolo Maori dal Trattato di Waitangi del 1840, che ha suggellato l’inizio della colonizzazione britannica della Nuova Zelanda. Alcune di queste rimostranze, registrate da un tribunale di transizione, sono state in grado di portare alla proposta e all’attuazione di leggi.

In reazione alla loro espropriazione territoriale e alla perdita dei loro usi tradizionali, le rivendicazioni dei Maori non erano particolarmente mirate alla personalizzazione giuridica del fiume Whanganui. Esiste un enorme divario concettuale tra la convinzione che, per le tribù rivierasche, questo fiume sia uno dei loro antenati e la personalità giuridica autonoma che ha acquisito nel 2017. Resta comunque il fatto che il ricorso a questa tecnica di personalizzazione giuridica può portare a una riconciliazione culturale e a una convergenza di interessi.

In modo molto diverso, abbiamo assistito all’emergere dei diritti soggettivi della natura, intesa come collettività di specie ed ecosistemi, sulla scia del movimento neocostituzionalista sudamericano, che è consistito nel sancire nella legge fondamentale di diversi Paesi, in particolare Ecuador e Bolivia, una visione della società e della natura sostenuta da moltissime comunità indigene. Ad esempio, la Costituzione ecuadoriana dichiara che la ‘Madre Terra’ è un essere vivente e stabilisce una serie di diritti: alla vita e all’esistenza, al rispetto, alla rigenerazione della sua biocapacità e al mantenimento dei suoi cicli vitali, all’acqua come fonte di vita, all’aria pura, ecc.

L’attacco alla natura sta mettendo a rischio l’umanità

Questo contesto corrisponde quindi anche al desiderio tardo post-coloniale di prendere in considerazione i valori, anzi le cosmovisioni, di queste comunità all’interno delle linee guida fondamentali che una nazione si pone attraverso la sua costituzione. Abbiamo analizzato altrove, in relazione al populismo dell’Europa orientale, il modo in cui le costituzioni riflettono, incorporano e generano affetti collettivi. Nel contesto sudamericano, non è impossibile pensare che la costituzionalizzazione dei diritti della natura debba canalizzare nuovi sentimenti positivi e una nuova etica della responsabilità verso la natura. Inoltre, la natura non è diventata una persona giuridica come in Nuova Zelanda — è compito di ogni cittadino notare una violazione dei propri diritti e segnalarla al giudice. Va anche notato che l’inclusione di questi diritti da parte dei giudici in una Costituzione li rende una norma fondamentale, ma non ereditano la stessa forza normativa di una legge derivante dalla volontà del popolo.

Se cerchiamo troppo di sussumere questi esempi sotto l’angolo di un movimento globale a favore dei diritti della natura, corriamo il rischio di perdere la loro sostanza e di diluirli troppo rapidamente sotto categorie generali come ‘animismo legale’ (anche se il legame tra le credenze animiste, che sono in ogni caso molto eterogenee, e l’operazione di personalizzazione legale è molto difficile da stabilire), e il funzionamento della personalizzazione giuridica nel diritto è tutt’altro che diretto o ‘ecocentrismo giuridico’ (mentre i nostri due esempi riflettono soprattutto la concessione fatta alle credenze umane nei confronti della natura e, sebbene eterocentrici in termini di pluralismo giuridico, sono comunque antropocentrici). La questione principale, come abbiamo detto, è se la natura possa e debba avere dei diritti o una personalità giuridica propria.

I sostenitori sia dell’animismo giuridico che dell’ecocentrismo giuridico affrontano questa questione in modo serio e al livello di analisi richiesto. L’animismo giuridico consiste nell’ammettere che ci può essere una coincidenza fondamentale tra il fatto antropologico, in tutta la sua diversità e complessità, di attribuire l’agentività e una forma di spirito a vari esseri della natura non umana e l’operazione interna della legge di conferire la personalità giuridica, cioè una forma di autonomia relativa di azione, alle entità della natura. A volte si tratta delle stesse entità da entrambe le parti, ma non è questo il punto essenziale. Il punto è che l’operazione strettamente giuridica della personalizzazione è anche un fatto antropologico che rivela che anche noi abbiamo credenze animistiche.

Avrebbe senso investire la natura di una personalità giuridica.

L’ecocentrismo giuridico affronta la questione dall’angolo opposto. Indipendentemente dalle capacità e dalle proiezioni della mente umana sul mondo, esiste una fonte di obblighi morali e norme giuridiche nella natura non umana e nelle entità singolari della natura? I diritti della natura derivano da una sorta di legge naturale? E come possiamo scoprire queste norme se, appunto, non sono iscritte nella nostra natura? A questo punto del suo pensiero, l’ecocentrismo giuridico, per essere coerente con se stesso, non ha altra scelta che impegnarsi in una sorta di normativismo negativo (come la teologia negativa), e dire che ci sono diritti della natura proprio perché non conosciamo e non possiamo esprimere positivamente questi diritti. Ciò equivale a un silenzio concettuale della legge sulla natura e, in termini pratici, a una limitazione massima dell’intervento umano nell’ambiente.

In Comment le droit nous rapproche de la nature [1], discuto criticamente queste due posizioni e considero, al contrario, come il diritto positivo — ossia il diritto così come esiste, così come viene codificato, senza essere riferito a fonti normative che rimangono esterne ad esso — di fatto interiorizza una certa distanza tra gli esseri umani e la natura, rendendola uno sfondo in gran parte impensato del diritto. Questo include, ovviamente, le modalità di appropriazione della terra e gli usi che vengono fatti dell’acqua e delle foreste, ma in questo libro sostengo che non è nelle disposizioni specifiche del diritto ambientale, nel codice urbanistico o in altre disposizioni che si riferiscono direttamente alla natura che questa distanza tra diritto e natura viene realmente decisa.

Certo, i recenti sviluppi del diritto ambientale probabilmente forniranno risposte concrete alla perdita di biodiversità (ad esempio, la Direttiva Habitat dell’Unione Europea), o permetteranno di ripensare la destinazione del risarcimento finanziario in caso di inquinamento o distruzione di un ecosistema (ad esempio, il riconoscimento del danno ecologico nel Codice Civile, che ne riconosce l’oggettività indipendentemente dagli interessi umani coinvolti). Ma queste nuove disposizioni non hanno nulla a che fare con i diritti della natura, mantenendo la natura in un semplice rapporto di protezione e tutela, e modificando questo rapporto solo marginalmente.

La tesi che difendo è che altri rami del diritto positivo, a priori al di fuori dell’ambito delle questioni ambientali, possono essere oggetto di un esercizio di immaginazione in grado di far emergere il potenziale di agentività giuridica della natura e di modificare il nostro rapporto con essa. Prendiamo ad esempio il diritto ereditario romano. Si tratta ovviamente di un esercizio anacronistico. Ma con il diritto romano siamo vicini al cuore della nostra antropologia giuridica fondamentale. Se ci sono dubbi sugli eredi di un proprietario deceduto, la sua terra eredita la sua personalità giuridica. Un bosco, un campo, un giardino diventano persone giuridiche indistinguibili dalla personalità giuridica di un essere umano deceduto, per il tempo necessario a un altro essere umano per subentrare. Questo periodo di vuoto, designato dall’espressione latina hereditas jacens, non è quindi vuoto; è pienamente occupato da una persona giuridica naturale. Questo vecchio concetto merita di essere riattivato in un modo o nell’altro e di diventare una sorta di diritto esecutivo degli ecosistemi contro gli interessi umani privati o pubblici, individuali o collettivi. Cosa potevano prevedere le generazioni passate sulla nostra capacità e volontà di preservare il patrimonio naturale che ci hanno lasciato in eredità, e cosa sappiamo del rapporto delle generazioni future con l’ambiente? In caso di dubbio, potrebbe essere sensato considerare alcuni segmenti significativi della natura come hereditas jacens.

Si possono fare molte altre ipotesi, che consistono in estensioni dei diritti esistenti e nello sviluppo, attraverso l’analisi di questi diritti, di possibili nuove relazioni con l’ambiente naturale. Facciamo un ultimo esempio, all’interfaccia tra diritti umani fondamentali, diritto sanitario e protezione dei dati personali. La protezione giuridica del genoma umano è garantita da dichiarazioni nazionali e internazionali che attingono a queste diverse fonti, anche se non si può negare che sia guidata anche da concezioni giusnaturaliste. Ma che dire dell’exposome, ossia di tutte le esposizioni ambientali a cui un individuo è sottoposto dalla vita intrauterina alla morte? L’exposome influenza la nostra salute e le nostre capacità e influenzerà la nostra identità sociale e personale. Lo stato del nostro corpo nel corso della vita è definito dalla costante interazione tra il nostro genoma e l’exposome. Quest’ultimo dovrebbe essere protetto allo stesso modo del primo? Come sarebbero i diritti dell’exposome? L’exposome è un’entità ibrida che influenza l’identità di un individuo ed è anche comune a una popolazione di individui. Dovrebbe quindi ricevere lo status di bene comune? Chi lo possiederebbe in comune, chi avrebbe il diritto di accesso e di utilizzo? Anche in questo caso, l’argomento sembra speculativo, ma discussioni simili a queste speculazioni sono in corso all’interno dell’Organizzazione Mondiale della Sanità.

Potremmo quindi pensare che è nell’approfondimento e nell’estensione dei diritti esistenti che si può realizzare un cambio di paradigma nel nostro rapporto con l’ambiente, per la semplice ragione filosofica che la legge interiorizza una distanza dalla natura che è nel nostro interesse rendere esplicita e modulare pragmaticamente.

Autore

Sacha Bourgeois-Gironde è professore di economia comportamentale all’Università Panthéon-Assas e ricercatore di scienze cognitive all’Istituto Jean-Nicod (ENS). Il suo lavoro principale riguarda l’analisi dei bias cognitivi nella teoria delle decisioni. La sua ricerca si concentra anche sulle aspettative che gli individui formano rispetto alla natura delle istituzioni (vicinanza, trasparenza, benevolenza, accessibilità cognitiva) e sull’analisi delle condizioni alle quali le istituzioni possono o devono interiorizzare queste aspettative. È autore di diverse dozzine di articoli scientifici in economia e scienze cognitive e, recentemente, di The Mind under the Axioms – decision-theory beyond aware preferences, Academic Press, 2019.


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