Pensiamo ai film: non sono la realtà, come gli specchi che incorniciano, delimitano e a volte distorcono, riflettono ciò che hanno di fronte, i vari aspetti della società che li produce. Il film offre soltanto degli indizi che non sempre riusciamo a cogliere, comunque mettiamo in gioco i nostri ricordi, le nostre conoscenze che interagiscono con ciò che vediamo, facciamo nostra una proiezione di cui altri si appropriano a modo loro.[1]

Il contadino del Seicento non poteva avere un’immagine di sé perché non possedeva uno specchio, così intere generazioni non hanno avuto un’immagine propria e hanno dovuto concepire la propria personalità grazie a un’immagine artificiale elaborata attraverso modelli concreti d’esperienza quotidiana insieme a quelli forniti, ad esempio dalle immagini religiose. Oggi, in un contesto di sovrabbondanza d’immagini, occorre chiedersi fino a che punto questa non determini una rinuncia a guardarle veramente con sospetto e attenzione. Oggi la verità fotografica non esiste più, di fronte a un’immagine non sappiamo come da chi è stata fatta, se è stata modificata o da dove proviene. Fenomeno analogo quando consultiamo un’enciclopedia. Prima esisteva la possibilità di far riferimento a un autore ben identificabile a cui poteva essere chiesta ragione di ciò che aveva scritto. Si aggiunga che la rete ci offre una temporalità orizzontale – sullo stesso piano dei risultati del motore di ricerca (che sono venduti e collocati nelle prime posizioni a un costo molto basso) – non è sempre facile periodizzare o avere una precisa autorialità di chi afferma chi o cosa. Occorre districarsi da una marmellata avvolgente e zuccherina di un sapere trasmesso in modo vago.

Una tale condizione ci obbliga a riflettere sulla memoria che non può più solo essere quella che solitamente prendiamo in considerazione: cioè la nostra facoltà individuale che ci permette, di situarci nel tempo e nello spazio consentendoci di comunicare con gli altri. Aspetti del passato riappaiono e sembrano attuali, alla portata di tutti senza appartenere ai ricordi individuali dei più. L’assenza, il non visibile, il non conosciuto possono fondare un’emozione comune? Così la memoria collettiva è diventata un luogo comune: se esistesse, una memoria condivisa esisterebbe anche un pensiero condiviso il che, è un ossimoro. Possiamo confrontare la memoria individuale (la memoria dei ricordi) con una memoria senza ricordi. Così la memoria senza ricordi è destinata a cambiare nel tempo, se viene condivisa è un mezzo di identificazione oppure se rifiutata, è quasi sempre di natura politica che si esplica nel momento del conflitto.

Marc Bloch durante la Grande guerra, lui stesso al fronte, scrisse nel 1921 “Riflessioni di uno storico sulle false notizie della guerra[2], “la guerra era stata un immenso esperimento di psicologia sociale, e le false notizie al di là della loro falsità, rivelarono in modo indiretto qualcosa di nascosto nella società che le accetta e le diffonde, solo se esse corrispondono alle sue attese profonde” attraverso dei mediatori, cioè dei circuiti dell’informazione. Bloch osservò come il rinnovarsi e l’ampliarsi (in quelle condizioni) della tradizione orale, diremmo oggi il sentito dire, aveva creato un ambiente favorevole alla diffusione di false notizie nelle trincee: ovvero aspettative, proprie volontà, propri desideri, senso di accettazione. La legge che lo storico ritrova anche nel suo capolavoro I re taumaturghi (Einaudi, 1974) è che si crede a ciò che si è disposti a credere, “così è terreno fertile del falso perché gli uomini assomigliano più al loro tempo che ai loro padri e la falsa notizia è lo specchio dove la coscienza collettiva si contempla” incrociando l’individuale cosciente con il collettivo incosciente. Per comprendere il fenomeno dovremmo attuare una batteria di domande:

Come i media svolgono oggi il ruolo di testimoni privilegiati degli avvenimenti globali?

Come le scoperte tecnologiche, in particolare quella digitale ha mutato lo scenario informativo globale?

Come un algoritmo può indirizzare verso un pensiero fatto di micro-azioni come quelle del desiderare, del piacevole, dell’acquistare… e nello stesso raccogliere informazioni su di noi?

Quali cause hanno prodotto l’inquinamento delle informazioni? Chi le controlla?

Quali effetti allontanano sempre più dalla realtà materiale scambiata con l’immaterialità?

Siamo davvero sicuri che la vista sia il più acuto dei nostri sensi, quello che ci inganna di meno?

Ecco una prima risposta: È avvenuta una grande mutazione antropologica che ha sostituito sempre più le parole con le immagini, la decodifica razionale con quella emotiva, facendo sì che l’informazione concorra con la cultura tradizionale nel settore del consumo e degli interessi, verso una nuova e più attuale cultura della contemporaneità, estremamente distante da quelle delle epoche del passato. Per la prima volta la realtà rappresentata dai media si sovrappone a quella reale condannando quest’ultima nell’isolata esperienza individuale, giorno dopo giorno…

Se consideriamo le immagini come una sorta di “macchina del tempo” proporre un viaggio tra l’allora e l’adesso (anche a ritroso) potrebbe essere il modo per:

  1. a) vincere la banalizzazione in nome di una vertigine, un ascensore o delle montagne russe, che le immagini possono fornire;
  2. b) vincere l’indifferenza attraverso la sfida propria dello scandire del tempo.
  3. c) interrogare le immagini prese non nella narrazione continua della vicende narrate, ma isolata in una o più sequenza in cui va sottolineata la natura non verbale dell’immagine e il commento sonoro o verbale che si accompagnano alle immagini;
  4. d) Mettere a confronto quanto i propri occhi stanno vedendo con le immagini riprodotte dal mezzo audiovisivo: ciò che la cinepresa ha registrato e ciò che l’occhio del cameramen ha visto in quel momento;
  5. e) raccogliere dalle immagini sullo schermo delle informazioni e convalidarle o meno con altre informazioni raccoglibili in altri ambiti. Cercando di interpretare l’intenzionalità dell’immagine.
  6. f) oggi si tende a mettere in discussione la teoria del rispecchiamento di cui si è largamente abusato come semplicistica e alla fine tautologica.

Allora chi propone e guida quel viaggio dovrebbe avere la consapevolezza chiedersi o sapere, se il filmato si propone come: 1- fonte, 2- agente di storia, 3 – mezzo di narrazione del passato, 4 – riscrittura e ricomposizione del tempo e degli eventi.

Note

[1] P. Sorlin, Introduzione a una sociologia del cinema, p. 74, ETS, Pisa, 2017.

[2] M. Bloch, La guerra e le false notizie, Donzelli, Roma, 1994.


https://www.asterios.it/catalogo/ontologia-della-menzogna