Fantasma d’Oriente

Affannosa e straziante corsa contro il tempo, racconto di un frenetico pellegrinaggio di tre sole febbrili giornate alla ricerca delle tracce di un amore smarrito dieci anni prima nell’immensità di Costantinopoli, Fantasma d’Oriente, apparso nel 1892, è un capolavoro rivelazione di una sensibilità singolare e suggestiva. Immerso in un tempo onirico, Fantasma d’Oriente è una ricerca di frammenti di passato, dell’immagine e dell’anima di una donna e una città egualmente amate, egualmente perdute, ancora presenti, già assenti. Lirico, desolato, convulso, è un poema in prosa della commozione e del ricordo, funebre, tenero e spettrale.

In questo breve romanzo, la delicata prosa descrittiva e impressionista di Pierre Loti riproduce in maniera ineguagliabile le impressioni e i sentimenti di una natura sensibile con forme insolite, colori, suoni, profumi. In queste pagine l’esotismo, lontano dall’essere un capriccio esteriore, si risolve in un tentativo d’evasione dalla caducità umana e dalla morte, e dalla sua solitudine, a cui nemmeno l’amore eterno può porre rimedio.

                      I

 

                  Settembre 188…(1)

 

Mezzanotte, dopo una fresca sera di fine settembre dove già si annunciava un principio d’autunno. Dovunque silenzio. Nella mia vecchia casa pacificamente addormentata, io solo veglio, lo spirito colmo d’attesa e ansietà. Da quasi due ore mi sono ritirato nella mia stanza, dicendo che sarei andato saggiamente a coricarmi in previsione della mia partenza di domani, la mattina per tempo. Ma il sonno non viene. Chiuso nelle mie stanze private, girando senza meta da un locale all’altro, incedo vagamente sognando, come alla vigilia dei miei lunghi viaggi di marinaio per campagne lontane e interminabili, e dentro di me, scorro in lenta e sinistra rassegna tempi andati, cose per sempre finite, volti già morti.

Stavolta, tuttavia, non parto che per un mese soltanto, e non mi reco oltre Costantinopoli, ma il viaggio sarà triste…

E veramente laggiù, perché tanto m’inquieti l’idea di tornarvi, dev’essere stato recitato un atto indimenticabile di quel dramma oscuro che è stata la mia vita; perché ogni cosa provenga di là, una parola tartara che mi sovvenga, un’arma orientale, una stoffa turca, un profumo, subito mi sprofondino in fantasticherie d’esiliato dove riappare Stambul(2)! E non è nemmeno per semplice estro artistico che il mio appartamento di qui ricorda quello d’un emiro d’altri tempi, assomiglia a una dimora orientale che, per incanto, si sia piantata nel mezzo della mia amata casa di famiglia, con i suoi archi dentellati, i suoi antichi ricami dorati, la calce bianca. Al tempo in cui abitavo sulle rive del Bosforo, un incantesimo del quale non mi libererò mai mi è stato gettato dall’Islam, e mi rapisce in mille maniere, che sia negli oggetti, nei disegni, nei colori, o persino in quei vecchi fiori fiabeschi ingenuamente dipinti sulle maioliche dei miei muri. E soprattutto, mi attira questo triste incanto, mi richiama laggiù dove sarò domani…

È dunque vero che sto per rivedere Stambul… È vicino e reale, questo pellegrinaggio che, da dieci anni, sogno…

Da dieci anni, da quando i casi del mio mestiere di marinaio mi scaraventano in tutti gli angoli del mondo, non ho mai potuto ritornare là, mai; sembrerebbe che un sortilegio, un castigo spietato, me ne abbiano sempre tenuto lontano. Non ho mai potuto tenere fede al solenne giuramento di ritornare che avevo fatto partendo a una fanciulla circassa, sprofondata in un’assoluta disperazione.

E non so più nulla di lei, che fu l’innamorata alla quale credevo di essermi dato sin nel profondo dell’anima, per il tempo e per gli infiniti più in là.

Ma da quando l’ho lasciata, sono continuamente tormentato in sogno da una visione, sempre la stessa: la mia nave compie a Stambul una sosta imprevista, rapida, furtiva; questa Stambul rivista in sogno è strana, ingrandita, falsata, sinistra; scendo in fretta a terra, con l’angoscia di arrivare da lei, e mille cose me lo impediscono, la mia ansietà aumenta con il trascorrere delle ore; poi, all’improvviso, ecco il momento di salpare, e quindi di partire senza averla rivista, senza aver neppure ritrovato qualche sua traccia, e tanta è l’angoscia che mi risveglio…

In questa sera d’attesa, vado a cercare tremando, per rileggerlo, un libro che ho pubblicato un tempo, per il bisogno di dar sfogo al mio male, di gridarlo forte a chiunque passasse per strada e che, dal giorno in cui è apparso, non ho mai osato riaprire. Un povero libriccino, che adesso mi sembra scritto tanto goffamente, ma in cui ci avevo messo tutta la mia anima di allora, la mia anima confusa e rapita dai primi smarrimenti mortali, non pensando, del resto, che avrei scritto ancora e che più tardi si sarebbe saputo chi era l’anonimo autore di Aziyadé.(3), un nome di donna turco da me inventato al posto di quello vero, che era più dolce e grazioso, ma che non intendevo rivelare.)

Con raccoglimento, come se guardassi in una tomba sollevando la lapide, comincio a sfogliare quelle pagine dimenticate, sorprendenti anche per me che un giorno le scrissi.

Sono fanciullaggini che per prima cosa mi fanno sorridere. Una sorta di Loti convenzionale, come m’immaginavo d’essere. Poi, qua e là, qualche bravata, qualche oscenità; le prime banali e logore, di cui ho pietà; le altre tanto disperate e intense che paiono ancora delle preghiere. Oh! La mia gioventù, quando potevo bestemmiare e pregare!…

Ma tutte le cose non dette che riposavano fra quelle righe, fra quelle parole sorde e impotenti, a poco a poco si ridestano, emergono dalla lunga notte dove avevo lasciato che svanissero. Mi riappaiono, quelle insondabili profondità della mia esistenza, del mio amore d’allora, senza le quali, del resto, non vi sarebbero stati né un profondo incanto né un’intima angoscia. Di tanto in tanto, per un ricordo, per un dolore evocato da questo libro, provo quella specie di sussulto gelato o di fremito intimo che arriva dai grandi abissi intravisti, dai grandi misteri accarezzati. Misteri di preesistenze, o di non so che altro, impossibile neppure vagamente formulare. Perché l’impressione, rievocata d’un tratto, di un raggio di luna di maggio su quella campagna pietrosa di Salonicco dove ebbe inizio la nostra storia, è sufficiente a farmi provare proprio quel fremito. Oppure la visione del sole delle sere d’inverno, che entra nel nostro rifugio clandestino di Eyub(4)? O una frase pronunciata da lei, che mi torna in mente con il suo accento turco e il suono della sua giovane voce pensierosa? O più semplicemente ancora, l’ombra di un certo grande muro desolato, che fa cadere su un angolo di strada solitaria l’oppressione di una vicina moschea? Queste cose talmente tenui, appena percettibili, a mala pena esistenti, a che sono dunque legate, nell’intimità sconosciuta dell’anima umana, a che d’ancestrale si riallacciano, a quali avventure perite, a quale polvere ancora sofferente, per farci rabbrividire così? E soprattutto, perché si provano quegli strani subitanei ricordi, solo quando si tratta del paese, del luogo o del tempo che l’amore ha toccato con la sua bacchetta meravigliosamente e mortalmente fatata?

Sfoglio molte pagine in fretta, senza neanche scorrerle: sono quelle dove avevo adattato, cambiato i fatti con più o meno indelicatezza, per l’esigenza del libro o per meglio sviare ricerche indiscrete. Poi, ecco i nostri ultimi giorni a Eyub, con lo strazio della partenza, mentre la primavera tornava ancora una volta sulla vecchia Stambul, spargendo per le strade tristi i fiori bianchi dei mandorli. E adesso, la fine, tutto quel passaggio immaginario di Azraël(5) che avevo aggiunto, non soltanto perché mi sembrava, a causa delle mie idee di allora sulle avventure scritte, che un epilogo fosse necessario, ma piuttosto perché avevo ardentemente sognato, per noi due, una tale fine. Oh! Mi ricordo, l’avevo composta con sangue e lacrime, quella conclusione, e, benché inventata, è stata così vicina ad avverarsi che la rileggo questa sera, dopo tanti anni, con un turbamento che non mi attendevo più, quasi come si andrebbe a rileggere, nell’aldilà, l’ultima pagina del giornale della nostra vita.

Ebbene! La vera fine rimane ancora misteriosa, e tremo pensando che la conoscerò presto, che parto domani per andare a rivangare laggiù tutti questi ricordi.

Quanto al vero seguito, eccolo qui, semplicemente.

No, non so più nulla di lei. Non fondo su nulla la mia convinzione, insieme dolce e infinitamente desolata, che ho della sua morte. A poco a poco, la nostra storia d’amore si è chiusa, ma senza una soluzione precisa; la nostra storia assieme si è persa, ma senza finire.

Le rare letterine che, nei primi tempi, malgrado la stretta sorveglianza, attraverso mille difficoltà, mi arrivavano ancora, hanno smesso, ormai quasi sette anni fa, di portarmi il loro pianto soffocato. Finite anche le lettere di Achmet, e finite in modo inquietante: divenute in un primo tempo strane, inverosimili, con certe confusioni di nomi e persone che lui non avrebbe mai fatto, con una tale insistenza a non parlarmi mai di lei, che non ho più osato chiedere nulla, e nemmeno rispondere, per il timore di qualche trappola tesa, di mani estranee che intercettassero i nostri segreti.

E come fare, da lontano, a decifrare quest’enigma? A quale amico abbastanza devoto, abbastanza abile e fidato, affidare simili ricerche, a Stambul, dietro le inferriate degli harem? Di anno in anno, del resto, speravo di tornare, e invece i casi della mia vita mi conducevano altrove, in Africa, in Cina, sempre più distante… Allora, piano piano, senza che ne fossi del tutto colpevole, in me si faceva strada una sorta di acquietamento dei ricordi; si scoloravano come sotto la polvere, sotto la cenere del sepolcro.

Solamente la notte, nella lucidità del sogno, ritrovavo, in forma costantemente uguale, i miei rimpianti inappagati; sempre quei ritorni immaginari in una Stambul dalle cupole troppo alte e troppo tetre stagliate in un grande cielo morto; sempre quelle corse affannose, mio malgrado frenate da inerzie invincibili e prive di sbocchi; e infine, sempre quel risveglio, all’ora presunta di prendere il mare, con l’angoscia e i rimorsi d’aver sciupato i pochi istanti che avrebbero dovuto bastarmi per arrivare a lei.

Oh! La Stambul strana, l’opprimente città spettrale che ho veduto nelle mie notti! Qualche volta restava distante, mostrando soltanto all’orizzonte il suo profilo; sbarcavo al crepuscolo su qualche spiaggia deserta, intravedendo, in lontananza, i minareti e le cupole; attraverso paesaggi funebri, seminati di tombe, cominciavo a correre, oppresso dal sonno; oppure finivo nelle paludi, e i giunchi, gli iris, tutte le piante acquatiche ostacolavano la mia corsa, si legavano attorno a me, mi avvolgevano di catene. E il tempo passava, e non riuscivo a proseguire.

Altre volte, la mia nave di sogno mi conduceva sino ai piedi della città santa; era nelle vie, allora, che subivo il supplizio di non arrivare. Nel dedalo buio e deserto, correvo prima verso il quartiere alto di Mehmed-Fatih, dove abitava il suo vecchio padrone; poi, durante il cammino, d’un tratto mi ricordavo che non potevo andare direttamente da lei; esitavo, febbrile, mentre i minuti fuggivano, non sapendo più come decidermi per trovare almeno qualcuno già conosciuto che mi dicesse qualcosa di lei, che sapesse dirmi se fosse ancora viva e cosa fosse diventata, oppure se fosse morta e in quale cimitero l’avessero posta. E il mio tempo si perdeva nelle indecisioni, in incontri con persone simili a spettri, che mi sbarravano il passo. Altre volte, sprecavo in cose da nulla i miei preziosi minuti, mi attardavo, come durante le mie passeggiate d’una volta, nei bazar di armi, mi sedevo nei caffè ad aspettare persone che avevo mandato in cerca di notizie e che non tornavano; o ancora, mi perdevo, con il terrore dentro, in quartieri sconosciuti e deserti, in vicoli sempre più stretti che m’imprigionavano come trappole in mezzo al profondo della notte; e infine, sopraggiungeva di colpo il momento, il momento inesorabile di spiegare le vele, assieme a quell’immensa inquietudine che mi portava al risveglio. In questo sogno assillante, che in questi dieci anni mi ha visitato tante volte, anche ogni settimana, mai, mai ho rivisto, che fosse sfigurato o morto, il suo giovane volto; mai ho ottenuto, neppure da un fantasma, un’indicazione, vaga che fosse, sul suo destino…

Ma adesso il maleficio che mi teneva lontano sembra alla fine spezzato. Nel completo possesso della mia attività mentale e fisica, vado a rivedere in pieno giorno, in pieno sole, quella città che per me si è a poco a poco mescolata a quel sogno oscuro, al punto da apparirmi lei stessa quasi chimerica.

Posso credere a stento che nulla m’intralcerà il cammino; che arriverò alla meta; che camminerò per quelle strade senza venir trattenuto dalle inerzie del sonno, che interrogherò degli esseri viventi, e che forse ritroverò la cara traccia perduta.

Ma è proprio vero che parto domani, e parto in modo altrettanto normale e tranquillo che per un viaggio qualunque. I miei bauli sono di sotto, pronti per essere portati via al mattino dalla carrozza che mi porterà al treno. Incalzato, come sempre nella mia vita, attraverserò l’Europa in gran fretta, in tre giorni, col rapido che va da Parigi a Bucarest. Per strada, tuttavia, nei Carpazi, mi fermerò per una settimana nel palazzo di una regina sconosciuta(6): una sosta che senza dubbio ricorderà un poco il sogno e l’incantesimo, prima dell’inquietante tappa finale. Poi, da Varna, attraverso il Mar Nero, in ventiquattr’ore, guadagnerò Costantinopoli.

Terminati per caso in anticipo i miei preparativi di viaggio, non vi è nulla che turbi la pace di questa vigilia di partenza, in tutto questo silenzio e questo sonno che mi circondano.

Adesso, raduno i piccoli oggetti più preziosi che porterò con me, delle lettere, degli amuleti e un certo anello che lei mi aveva donato. Poi, con raccoglimento, vado ad aprire un cassetto misterioso, nascosto sotto dei vecchi ricami orientali; è il sepolcro dove riposano mille piccole cose portate da Eyub, foglietti su cui sono tracciate goffamente dalla sua scrittura infantile delle parole turche, pezzi di stoffa ritagliati dal nostro divano di Bursa, resti di poveri fiori che spuntarono un giorno di primavera nei giardini di Stambul. In fondo a questo nascondiglio, sotto questi frammenti, cerco un indirizzo scritto in caratteri arabi che, la mattina della mia partenza, fu dettato da Achmet allo scrivano pubblico della piazza di Ieni-Djami; a sua detta, mi doveva servire da suprema risorsa per ritrovarlo, se non fossi tornato che dopo molti anni, dopo aver utilizzato tutte le altre buste con sopra il suo nome, dettate da Aziyadé la sera prima, tutti gli altri mezzi per corrispondere con loro.

Eccolo, questo indirizzo; è di cinque o sei righe, non finisce più. Indica il nome e l’abitazione di una vecchia armena: “Anaktar-Chiraz, che vive nel sobborgo di Kassim-Pacha, in una casa bassa, nella piazza di Hadij-Ali; di fianco c’è un venditore di frutta, e di fronte un vecchio che vende dei tarbush(7).”

Achmet riteneva che quella donna non avrebbe sicuramente mai lasciato la sua casa, poiché ne era proprietaria. Un giorno l’aveva raccolto e curato di non so quale malattia, durante la sua infanzia d’orfanello. Lui diceva che lo amava molto, e avrebbe sempre saputo dove trovarlo, anche se avesse cambiato venti volte mestiere e dimora. Povero indirizzo ingenuo, che fu scritto, ora ricordo, all’aria aperta, ai piedi della moschea, sotto i platani, al sole chiaro e limpido della primavera e della giovinezza, e che ha riposato quasi dieci anni nell’oscurità di questo cassetto, mentre io percorrevo il mondo! È ingiallito, impallidito, ha acquisito l’aspetto di un’antica carta che interessa persone ormai defunte. Mi fa male rivederlo, così sciupato. Mi sembra incredibile di poterlo riportare alla grande luce dell’Oriente, e che le parole là scritte mi possano mai servire a riallacciare un filo conduttore con esseri ancora vivi e reali, che non siano parti della mia fantasia, fantasmi dei miei ricordi. Quella vecchia armena, quel mercante di frutta, quel venditore di tarbush, povera gente qualunque, d’un sobborgo perduto, e pure quel piccolo quartiere antico dove vagamente ricordo di essere andato, una o due volte, a sedermi al crepuscolo con Achmet all’ombra di quei pergolati secolari, nel giardinetto triste d’un caffè turco: chissà adesso cosa sarà di tutto ciò, chissà cosa ne ritroverò?

Dieci anni sono d’altronde un abissale distacco, in cui ogni immagine sprofonda nella medesima nebbia. Così, all’inizio, il mio sogno era rimasto un sentimento d’ansietà ancora sedato, di una pacata malinconia. Ma ecco che, a questo pensiero, affiora in me un turbamento più forte, istantaneo: può anch’essere ch’ella viva! Da lungo tempo, questo pensiero non mi si era presentato in modo così straziante. E davvero, poiché non so nulla, poiché di nulla sono sicuro, non è dunque impossibile che presto, fra pochi giorni, tanto che ne fremo come dovesse essere domani, me la ritrovi dinnanzi. Oh! Ritrovare ancora il suo sguardo, ch’ero ormai avvezzo a credere morto, quello sguardo afflitto o felice; rivedere, com’ella diceva, i suoi “occhi faccia a faccia”. Oh! Quale angoscia, e quale ebbrezza, in quell’attimo!…

E come sarà lei adesso, come sarà il suo viso di ventott’anni! Mi apparirà in tutto il suo splendore di donna, la fanciulla sottile d’un tempo, dagli occhi verdi color del mare? Oppure sciupata, chissà, per sempre disfatta come creatura di carne e d’amore? Ma che importa, del resto, sia invecchiata e morente… io l’amo ancora. In ogni modo, però, l’attimo di questo strano incontro sarà per entrambi tremendo, e senza un possibile seguito; non avrà un domani in cui non possa insinuarsi il timore. Aziyadé e Loti, quelli d’un tempo, almeno, sono ormai andati. Qualsiasi cosa possa esser di loro rimasta, s’è trasformata, e forse, nel viso e nell’anima, appena gli somiglia; com’è provato da questo libriccino infantile che ho appena riposto, sono tutt’e due morti.

È quasi un sacrilegio dirlo, ma, in questo momento, credo che preferirei la certezza di non trovare laggiù che una tomba. Per lei e per me, desidererei di più che m’avesse preceduto nell’estrema polvere, che non pensi né soffra. E allora adempierò alla mia promessa di tornare di fronte a qualcheduna di quelle piccole steli funerarie, dalle mistiche e fidenti iscrizioni, che sfidano pacificamente l’indefinito delle nostre vite, didentro i boschi di cipressi…

C’è qualcosa di opprimente, di quasi inquietante nelle mie stanze, stasera. Ogni cosa vi ha assunto un’aria lugubre, con quest’unico candelabro che lascia gli angoli in mezzo a un’oscurità confusa; qua e là, tagli d’acciaio lucente, lame ricurve di iatagan(8), mentre, sul rosso cupo delle pareti dipinte, i ricami esotici sembrano la raffigurazione simbolica di misteri orientali per me assolutamente inesplicabili. Quali esseri sconosciuti, di quale generazione precedente alla nostra, hanno fissato in questi disegni i loro sogni, i loro immutabili sogni? Coloro per cui sono state temprate queste armi e intessuti questi ori, che sogni avevano, quali amori, quali speranze? Li sento come non mai distanti da me, quei credenti, che ora dormono in terra sacra, ai piedi di bianche moschee. Stasera ognuna di queste decorazioni del vecchio Oriente mi fa avvertire meglio quanto siano differenti sin nel profondo dell’anima le razze umane, e quanto sia insensato, impossibile e funesto andare a cercare l’amore laggiù. Tra i due amanti smarriti rimane sempre la barriera delle eredità e delle educazioni profondamente differenti, il baratro delle cose che non possono venir comprese. E occorre ch’essi prevedano che poi, quando verrà la fine, non avranno nemmeno, per cullarli assieme nell’ultima ora, il comune ricordo, ancora un po’ dolce, dei miraggi religiosi della loro infanzia; né dopo, per ricongiungersi, la stessa terra.

Sembra così che il tempo e la morte ci separino ancora di più, e che ci si vada a dissolvere in due nulla opposti.

Qui ogni cosa, come in un serraglio, è impregnata di odori turchi, fin troppo; pure questo silenzio è pesante, accresciuto com’è dalla gravezza profumata dell’aria; spalanco le finestre…

Il silenzio non diminuisce, pare piuttosto aumentare, protratto da tutta la calma circostante. Entra una falena, assieme ai lunghi raggi di luna. Entra pure una frescura, una frescura dolcissima, che viene dal giardino, dalla campagna e dalle grandi paludi, oltre gli olmi degli argini. Mi sento ridestato da quest’aria fresca, come da un sogno molto cupo, e mi sporgo dalla finestra per respirare la vita. Le cose familiari del vicinato allora m’appaiono, nei posti che ben conosco; il chiaro di luna dona loro, stanotte, un qualcosa di immutabilmente tranquillo, persino d’irreale. Ma sono sempre le stesse; ho già visto nella mia vita questi vecchi tetti, queste ali di muro, questi passaggi nei giardini, queste masse ombrose di verde, e si direbbe che in questo momento tutto ciò mi canti qualche inno malinconico della mia terra natale, mi consigli di non partire. Tanti altri, più semplici di me, non hanno mai abbandonato questo paese, neppure il suo circondario!… Forse, se avessi fatto come loro…

Un profumo sale dai giardini; un effluvio d’umidità, di muschio, di foglie secche, particolare delle prime sere fresche in cui levano brume leggere. Di già l’autunno! Ancora un’estate che se ne va, che sarà passata quando ritornerò da Stambul. Mio Dio! Per questo viaggio perderò le nostre ultime belle giornate, con la più bella fioritura di rose sui nostri muri, e non vedrò più, per quest’anno, due cari abiti neri passeggiare nel nostro cortile(9), agli ultimi fulgori di settembre. E chi può sapere, con tutti gli imprevisti del mio mestiere di mare, quando ritroverò queste cose? Eccomi adesso indeciso, triste e quasi trattenuto, alla vigilia di questa partenza, dal rimpianto di ciò che lascio.

Poi, d’un tratto, tutto cambia, nell’istante in cui rientro nella stanza turca rosso cupo dove risplendono le armi; tutto si perde, nell’attesa inquieta di Stambul, semplicemente a causa di un amuleto che sono andato a prendere in fondo a un portagioie e che mi sono appeso al collo.

Era da tanto che non lo vedevo, questo amuleto orientale; è composto da non so quali piccoli oggetti misteriosi chiusi in un sacchetto. Il sacchetto, cucito assai goffamente da una piccola mano maldestra che però vi aveva posto ogni cura, è fatto da un pezzo di tessuto dorato su cui è ricamato un fiore rosa; e questo lembo di stoffa è stato scelto, e poi ritagliato, in ciò che restava di più fresco di una piccola veste che una fanciulla circassa aveva indossato per due estati della sua vita per andare a scuola attraverso sentieri erbosi, lungo il Bosforo, al villaggio di Kanlidja. Penso che sia un gesto vecchio come il mondo questa triste fanciullaggine che consiste nello scambiarsi, quando ci si ama, delle misere cosucce che risalgono ai nostri primi anni di vita e a farne degli amuleti contro il reciproco oblio; l’ho visto tanto volte, in esseri di razze completamente diverse. E questa uniformità dei sentimenti umani, ahimè, non fa che sollevare in me tanti dubbi sull’individualità propria delle anime: quando vi si pensa, sorge la tentazione, tanto esse sembrano simili, di non guardare a loro che come a effimere emanazioni di quella medesima impersonale totalità costituita dalla specie che eternamente si rinnova.

È quindi così in tutti noi: quando l’amore cresce e si eleva sino ad aspirare alla durata eterna, o quando l’amicizia si fa così profonda da generare l’inquietudine della fine, accade di gettare il pensiero indietro, verso l’infanzia di chi si ama. Il presente appare limitato e breve; e allora, sapendo che l’avvenire forse non ci sarà mai, si tenta di ricogliere il passato, che, almeno esso, è stato. “A chi somigliavi quand’eri bambina? Dimmi com’era il tuo viso, il tuo vestito? Cosa fantasticavi quand’eri ragazzo? Cosa facevi di solito, a che giocavi? Ma anch’io ci tengo a raccontarti le mie prime gioie infantili e i miei primi dispiaceri; e voglio anche regalarti una piccola cosa di quel tempo passato, che tanto mi era cara.” A Eyub, nel mistero pieno di pericoli del nostro appartamento turco, chiusi entrambi e allarmati dal minimo rumore che rompeva il greve silenzio esterno, trascorrevamo spesso le nostre serate d’inverno in conversazioni del genere. E tante volte nella mia vita – prima d’averla conosciuta e dopo averla quasi dimenticata -, tante volte ho fatto lo stesso, ahimè, con altre, sotto la dolce suggestione dell’amicizia o il mortale incanto degli amori… Oh, che pietosa illusione è tutto ciò!

E tuttavia, mio Dio, ha forse avuto la parte più bella d’ebbrezza che un uomo possa attendersi dalla vita, e forse dovrebbe essere poi felice di morire colui al quale una fanciulla deliziosa ha sentito il bisogno di donare un amuleto contro l’oblio, e lo ha composto con tanto amore, lacerando la più sacra tra le reliquie della sua infanzia.

Stasera, d’altronde, questo talismano di stoffa dorata ha prodotto il suo effetto magico, perché ha stranamente completato l’evocazione cominciata dalla lettura del libro. D’un tratto, colei che me lo aveva dato è come presente: la vedo, mentre mi appende l’amuleto al collo, levando poi verso di me uno sguardo da cui traspariva tutta la sua piccola anima semplice e seria: il suo viso è uscito dalla notte con l’espressione degli ultimi giorni e l’interrogazione suprema dei suoi occhi… Allora, ciò che forse un attimo prima c’era di un poco forzato, di un poco esitante nel mio sentimento per lei scompare, assieme a tutto quanto mi ero detto di razionale e di freddo, di egoista e di atroce sulle probabilità della sua morte. Oh no! Al posto di quella tomba, ritrovi lei piuttosto, e non m’importa come né a quale prezzo. Anche se poi dovessi ricominciare a soffrire, vorrei comunque rivederla; non lo spero, ma sento che lo vorrei, a qualsiasi costo. Ah! Ritrovarla, anche invecchiata, anche vicina alla morte, ombra ancora un po’ cosciente che comprenda soltanto che sono ritornato e che intendo domandarle perdono; ombra che possegga ancora i suoi occhi, la loro espressione, e che io possa amare per un istante con tutta la mia anima e tutta la tenerezza della mia pietà. Oppure, se così dev’essere, che la ritrovi dimentica di me, giovane, sempre bella, mentre si gode in pace l’estate della sua vita, quegli anni di sole ch’erano la sua parte, come di ogni altra creatura, e che io non avevo il diritto di sottrarle.

Esistono quelle barriere di cui ho parlato, quelle profonde differenze di razza e religione? Non lo so più. Sopra ogni cosa passa l’amore, l’incanto di uno sguardo che va dal profondo di un’anima al profondo di un’altra. E in questo momento, se lei fosse qui, andrei a prenderla per mano, e senza esitare, con un sorriso, lo porterei in mezzo a tutto quanto ho di più caro e di più venerato.

Tutte le mie mutevoli impressioni di questa sera si fondono ora in questo tenero desiderio di rivederla, in questo slancio – del resto quasi senza speranza – rivolto verso di lei.

 

II

 

Bucarest, ottobre 188…

 

Circa quindici giorni dopo, all’altro capo dell’Europa, in un grande palazzo reale dove sono giunto la notte e mi trovo tutto solo.

Dopo aver attraversato in gran fretta la Germania e l’Austria, mi sono fermato una settimana dalla deliziosa regina di questo paese, nel suo castello estivo, in mezzo ai Carpazi.

L’ho lasciata ieri, e qui, a Bucarest, dove dovevo passare la notte, mi hanno dato ospitalità al palazzo reale, al momento disabitato.

Non c’è nulla di tanto desolato e tristemente solenne come un palazzo vuoto. Non appena mi trovo solo nel mio appartamento, una specie di silenzio, del tutto particolare, m’avvolge. Da molto lontano, questo rumore di carrozze, ancora più incessante qui a Bucarest che a Parigi, m’arriva come fosse un sordo brontolio di temporale; mi separano dalle strade animate delle grandi piazze vuote, dove vigilano delle sentinelle, e anche nel palazzo nulla si muove.

Nel castello della regina, mio malgrado, mi ero lasciato distrarre e affascinare da mille cose. Ma qui, la mia ultima tappa prima di Stambul, che non dista più di ventiquattro ore, fino al mattino sento risuonare sul selciato, sempre più distintamente, come in un crescendo, il passo regolare delle sentinelle di guardia alle porte.

 

 

Martedì, 5 ottobre(10)

 

Alle quattro del mattino, prima dell’alba, lascio il palazzo reale. Nelle strade di Bucarest fa un gran freddo. Un landò mi conduce a briglia sciolta alla stazione, in mezzo a una fiumana di altre carrozze che corrono nell’oscurità. Il cielo ha le tinte gelide dell’inverno. Attraverso queste strade nuove e diritte, che assomigliano a quelle di una qualsiasi capitale europea, non so più troppo bene dove mi trovi, né dove mi portino così in fretta questi cavalli; in ogni modo, non riesco più chiaramente a figurarmi d’essere sulla via di Stambul, e che vi giungerò domani.

Alle cinque del mattino eccomi in treno, nei pesanti vagoni letto dell’Orient-Express.

Poi, verso le otto, il treno s’arresta sulle rive del Danubio, che occorre attraversare in battello. Fa sempre molto freddo, con una leggera nebbia all’orizzonte di una liscia pianura, infinita. Qui però già appaiono degli abiti orientali; i battellieri indossano il fez, mentre sul fiume alcune imbarcazioni, immobili lungo le rive, issano la bandiera turca, rossa con la mezzaluna bianca. Allora, d’un tratto, più acuto, si risveglia in me il sentimento della meta verso cui sono incamminato in questa fredda mattina d’ottobre, per queste acque e queste distese.

Sull’altra sponda montiamo in un misero trenino, con cui in giornata dobbiamo attraversare la Bulgaria.

Com’è cupa e selvaggia, in questo giorno d’autunno, questa Bulgaria in rivoluzione, in guerra.

Una lunga sosta, verso mezzogiorno, non so in quale villaggio, nel mezzo di una pianura deserta. Ecco un accampamento di cavalleria. I cavalieri sono in tenuta da campagna, l’aria determinata e superba, pronti a battersi all’indomani. La loro banda si dispone in circolo per suonarci un motivo strano, di una rara malinconia orientale, simile a una marcia guerriera, lenta e ostinata, verso un epilogo che sarà la morte. E ascoltando, sento che sto per piangere… Sempre di più, il mio avvicinamento a Stambul mi fa attribuire un’importanza esagerata alle cose più insignificanti che incontro lungo il cammino, le cambia d’aspetto, me le mostra come attraverso un velo nero.

Quanto più ci approssimiamo al Mar Nero, tanto più l’aria si fa meno fredda. Le stazioni – poveri villaggi, di tanto in tanto, spersi nel mezzo di regioni desolate – cominciano ad avere dei nomi tartari che posso capire, tradurre, e che mi fanno provare lo stesso piacere che se ritornassi nella mia patria: Piccolo mercato, Piccolo diavolo. Costumi turchi, turbanti, abiti di bigello orlati di nero iniziano ad apparire ai confini, – e io ascolto con attenzione, per sentire quelle genti parlare la lingua amata, in questo triste e aspro paese.

Infine m’appare Varna, e saluto così i primi minareti, le prime moschee.

Il Mar Nero è calmo quando saliamo sulla barca che ci conduce al piroscafo per Costantinopoli. L’aria è diventata tiepida, leggera, e Varna, che si allontana dietro di noi, mostra i suoi minareti bagnati dalla luce dorata del tramonto.

Un rumoroso tavolo per passeggeri, sul piroscafo ripieno di turisti – ed ecco per me il momentaneo oblio, fra il brusio delle voci, nella banalità dei più comuni discorsi.

Ma poi, quando passeggio da solo, immerso nella notte grigia, sul ponte di questa nave che fila rapida verso il sud, senza scossoni, silenziosa, come se scivolasse, mi rammento che sono prossimo alla meta, e che domani vi giungerò. Su questa nave, per abitudine del mestiere, mi sorprendo di non avere quarti da fare, di trovarmi in mezzo a marinai che non obbedirebbero ai miei ordini e che non mi conoscono; nulla mi riguarda, che sia la manovra o la rotta, e ciò mi sembra quasi inverosimile; ciò basta, in questa notte anomala, a gettarmi in non so quale incertezza di sogno sulla realtà della mia presenza a bordo. Qui nessuno conosce il mio nome, ancor meno ciò che vado a fare laggiù e quanto quest’arrivo mi turbi. Questo ritorno a Stambul assume a quest’ora un qualche aspetto furtivo, e pure funebre, nel silenzio sempre più profondo della nave, che s’addormenta nella sua fuga.

Istintivamente i miei occhi fissano e seguono due o tre piccoli fuochi molto distanti, appena percettibili, che sembrano accesi a caso nello spazio indistinto, nel cielo o in mare, non si capisce bene, e che sono dei fari sulla costa turca. Nella notte buia, dove l’orizzonte non ha contorni, il mare si fa sempre più liscio, la nostra andatura sempre più rilassata.

Nei sogni, i miei ritorni immaginari avvenivano così, molto in fretta; scorrevo nell’oscurità verso Stambul, e stasera finisco quasi per avere l’impressione di non essere che il fantasma di me stesso, in cammino notturno verso il paese che ho amato.

 

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III

 

Giovedì, 6 ottobre

 

All’alba, un impiegato dall’accento straniero viene ad avvisare i passeggeri nelle cabine che stiamo per entrare nel Bosforo. Mi ero appena addormentato, dopo aver trascorso la notte a sognare, e mi risveglio di soprassalto, con un palpito al cuore solo di fronte al nome del Bosforo.

Sul ponte, dove fa freddo, a uno a uno appaiono i passeggeri, indifferenti, loro, e semplicemente delusi da ciò che vedono. In effetti, l’entrata del Bosforo è piuttosto tetra, tra quelle montagne anonime, che si abbozzano, ancora indistinte, a tinte cupe. È l’alba di un giorno d’autunno, grigia e brumosa, sotto un cielo basso e immobile. Non si vedrà quasi nulla, con quei banchi di nebbia che si trascinano come vele.

Per dei turisti è fastidioso: si perderà l’effetto dell’arrivo. Quanto a me, che non avrò che due giorni e mezzo, nient’altro che due giorni e mezzo per questo pellegrinaggio, vado pensando che se il tempo già volge all’inverno, se piove, com’è probabile, tutto sarà più triste, più complicato, le mie ricerche più difficili…

Ieri sera non avevo visto i passeggeri della terza classe che adesso ingombrano il ponte: sono proprio dei veri turchi, questi: gli uomini in caffettano, le donne velate. Poi, d’un tratto, mentre ci approssimiamo alla terra, ci giunge un odore penetrante, caratteristico, delizioso per i miei sensi; un odore ben noto un tempo e a lungo dimenticato, l’odore della terra turca, qualche cosa che viene dalle piante o dagli uomini, non so, ma che non è cambiato e che, in un istante, mi riporta tutto un mondo d’impressioni d’altri tempi. Allora, all’improvviso, è come se nella mia esistenza si aprisse uno squarcio di dieci anni, il crollo di tutto ciò che è accaduto dopo quel giorno d’angoscia in cui ho lasciato Stambul, e mi ritrovo completamente in Turchia ancor prima d’avervi rimesso piede, come se una certa anima mia, che non se ne sarebbe mai partita, fosse venuta a riprendere possesso del mio corpo irresponsabile ed errante.

Cominciamo a discendere il Bosforo, e la grande fantasmagoria delle due sponde, lentamente, si svolge dinnanzi a noi. Riconosco ogni cosa, i palazzi, i più piccoli villaggi, i più piccoli giardini. Ora mi sento così calmo da stupirmene, da non comprendermi più; si direbbe che abbia lasciato la terra turca appena ieri. Provo un po’ d’ansia soltanto quando passiamo davanti ad alcuni cimiteri dove si trovano, in riva alle acque, sotto gli alti cipressi giganti dai tronchi rosa e dal fogliame scuro, delle tombe di donna. Fisso a lungo quelle tombe; sempre pietre diritte, sovrastate da una specie di coronamento simmetrico che rappresenta dei fiori. Mi capita pure di voltarmi di colpo, con una vaga inquietudine, per seguire con gli occhi, man mano che s’allontana, una lapide blu o verde con le iscrizioni dorate; mi sono sempre immaginato che la sua tomba dovesse essere così. Eppure chissà quali figure, senza dubbio completamente ignote, dormono là sotto!

Ecco già i padiglioni imperiali e i grandi harem, poi la fila dei palazzi bianchi con le terrazze di marmo, e finalmente, là, in fondo in alto, uscire d’un tratto dalla nebbia che si squarcia il profilo incomparabile di Stambul.

Oh! Stambul è là! Proprio reale, adesso che si avvicina in fretta, sotto una luce chiara e regolare; riportata al suo aspetto normale, che dieci anni di sogni mi avevano un poco mutato, eppure quasi altrettanto bella che nei miei ricordi. E mi stupisco di sentirmi sempre più tranquillo nell’anima, e persino di parlare con i compagni di viaggio assegnatimi dal caso, additando loro come una guida i palazzi e le moschee.

L’ancoraggio è rumoroso, in mezzo all’intrico di piroscafi e velieri che portano tutte le bandiere d’Europa. E subito comincia l’invasione furiosa dei battellieri, dei doganieri, dei facchini; cento caicchi ci prendono d’assalto, e tutta questa gente, che sale a bordo come una marea, parla e grida in tutte le lingue del Levante. Oh! Lo conosco bene, questo chiasso dell’arrivo, queste voci, queste intonazioni, questi volti; e quest’ammasso d’imbarcazioni intorno a noi, questi fumi neri, sopra i quali si alzano, laggiù nel cielo chiaro, le cupole delle moschee sante! Anch’io mi unisco a tutto questo rumore; d’altronde, le parole turche, anche le più dimenticate, mi ritornano in mente tutte assieme. Discuto con i battellieri per il mio trasporto, e coi facchini per il mio bagaglio, di particolari del tutto indifferenti, per il semplice bisogno di muovermi o solo di parlare. Perfino nella barca dove alla fine mi sono sistemato con le mie valige continuo questo strano mercanteggiamento; e così, quasi senza emozione, se non forse un tremito quando il mio piede vi si posa, mi ritrovo a terra, all’attracco di Costantinopoli.

Dopo più di un’ora persa in formalità di dogana, di passaporto, di non so che cosa su quest’attracco nella parte bassa di Galata, sempre piena dello stesso stravagante brulichio e dello stesso clamore, eccomi dunque giunto a Pera, alloggiato in un elegante hotel ingombro di turisti. A momenti le dieci, quanto tempo sprecato, mentre ogni minimo istante dovrebbe essere contato!

E poi bisogna pranzare, aprire le valige, ripulirsi… E il tempo continua a fuggire.

La camera dove mi cambio è una normale stanza agli ultimi piani, che domina dalle sue finestre un insieme di case all’europea molto banale; però, sopra questi tetti, ci sono due o tre scorci meravigliosi, su Stambul o Scutari d’Asia: cupole, minareti, cipressi, che sembrano come sospesi nell’aria. E queste cose, appena intraviste, bastano per darmi, con un turbamento delizioso e un bisogno di fretta un poco febbrile, la consapevolezza di questa vicinanza. Mio Dio, chissà che cosa avrò saputo stasera! Forse nulla, ahimè! In due giorni, cercare nell’immensa Stambul misteriosa la traccia smarrita da sette o otto anni di una donna di harem, che follia! Non ci riuscirò mai, non troverò niente.

Il mio piano, pensato a lungo, è quello di cercare anzitutto quella vecchia armena del sobborgo di Kassim-Pacha, indicata da Achmet come ultima risorsa e di cui ho ritrovato il complicato indirizzo la notte della mia partenza. Se è viva, forse mi fornirà la chiave di tutto; questo sarebbe il mezzo più semplice e più rapido.

Ora aspetto un interprete che hanno promesso di portarmi, perché nella mia ricerca avrò bisogno di qualcuno che sappia leggere il turco, che io so soltanto parlare. Verrà, verrà, mi dicono con calma esasperante. Ma il tempo continua a scorrere, e questo non arriva.

Allora mi decido a scendere di nuovo a Galata per cercarne un altro che mi hanno indicato.

Questo non è in casa…

Ritorno di corsa all’hotel. Già mezzogiorno e mezzo. Dio mio, quanto tempo perduto, e io non ho che due giorni! È come nei miei sogni: tutto mi trattiene!…

Ecco che finalmente mi portano un interprete. È un orribile vecchio greco, furbo, ficcanaso, che si offre di seguirmi per tutto oggi e domani. Per prova gli mostro l’indirizzo di quella vecchia, che legge correttamente; sa molto bene dove si trova quella piazza di Hadij-Ali dov’ella abita, e mi ci condurrà in fretta perché l’ora preme. Faremo prima a piedi, mi dice, guadagneremo tempo, per certe scorciatoie che lui conosce, per vie dove né carrozze o cavalli potrebbero passare. E finalmente usciamo, per incamminarci. Le nubi del mattino sono scomparse dal cielo. Grazie a Dio, sarà quasi una giornata d’estate, luminosa e calda; tutto sarà meno sinistro. Io tengo in mano l’indirizzo della vecchia Anaktar-Chiraz, il piccolo prezioso filo conduttore in cui è riposto tutto il mio piano e che dopo dieci anni rivede il suo sole d’Oriente. Cammino con passo rapido, impaziente di arrivare, con l’impressione fisica di essere diventato leggero, di scivolare, per così dire, senza toccare il suolo; questo contrasta con le inerzie notturne, che, per tanti anni, mi ritardavano così pesantemente in sogno; mi pare di sentirmi ribollire il sangue in testa, che circola più rapido del solito; vorrei correre, senza questo vecchio che mi segue e mi trascino come un impaccio.

Dove mi porta? Purché abbia capito. Ecco dei quartieri nuovi, che non conosco per niente. Tutto è cambiato: qui hanno costruito paurosamente dopo la mia partenza, e queste enormi alterazioni dei luoghi mi fanno provare, ancor più penosamente, la sensazione che la mia storia d’amore e di gioventù si sia completamente dissolta nel passato, nella polvere, e che invano ne cercherò la traccia sepolta…

Ah! Ecco dei vecchi quartieri turchi – delle piccole strade tortuose, dove comincio a sentirmi un poco a casa mia… Siamo scesi in una borgata che un tempo mi era assai familiare… Dietro a questa svolta, in fondo, deve esserci un antico convento di dervisci urlatori, lugubre, coi suoi catafalchi che si scorgevano attraverso le inferriate delle finestre, pauroso quando vi si passava la sera… Sì, è ancora là; senza rallentare il passo, getto uno sguardo tra le sbarre di ferro delle finestre: sempre le stesse vecchie bare, coperte dagli stessi vecchi scialli e dagli stessi vecchi turbanti, tutto soltanto un poco più roso di una volta dalla muffa e dai vermi. È strano come questi oggetti di morte, poiché sono rimasti tali, ravvivino in me proprio dei ricordi di primavera e d’amore.

Mi ritrovo sempre di più. Ora dobbiamo essere assai vicini al quartiere di Anaktar-Chiraz, perché rivedo una certa piccola moschea la cui cupola, piegata dal tempo, si eleva bianca di calce tra i cipressi neri. E rivedo anche il caffè. Il caffè con il pergolato centenario dove una sera Achmet mi aveva presentato a quell’anziana donna. Ho dunque toccato la prima tappa del mio pellegrinaggio, e sento nascere in me un po’ di fiducia, un po’ di speranza di giungere alla meta.

Conoscendo la diffidenza che ispira uno straniero, vado a sedermi in disparte, nel giardinetto triste di questo piccolo caffè, là, sotto il pergolato ingiallito, contro il vecchio muro, nello stesso posto di una volta; chiederò un narghilè, come uno del posto, mentre lui, il vecchio greco, andrà in giro a raccogliere informazioni.

Ritorna scoraggiato; devo avere sbagliato qualcosa, mi dice, oppure il mio indirizzo è falso; nel vicinato nessuno la conosce…

Eppure sono ben sicuro che dev’essere proprio qui vicino! Poiché usciva da casa sua, quella vecchia, quando una sera Achmet l’aveva chiamata per farmela conoscere e pregarla di ricevere per lui le lettere che avrei scritto dal mio “paese franco”… Se è morta, è impossibile che almeno qualcuno non se ne ricordi. Su! Che ritorni a interrogare i vecchi del quartiere; che insista, malgrado i visi cupi e chiusi, e io raddoppierò la ricompensa promessa.

Un altro quarto d’ora d’impaziente attesa. Riappare, agitando in modo trionfante un pezzo di carta scarabocchiato. Un vecchio ebreo, che la conosce molto bene, ha scritto lassù, in cambio di denaro, il suo nuovo indirizzo. Ella non è morta, ma si è trasferita tre anni fa, per andare ad abitare molto lontano da qui, a Pri-Pacha, all’estrema periferia, in prossimità dei grandi cimiteri israeliti.

Quanto tempo ci vorrà, ahimè, per andarci! Tuttavia, ho in mano una traccia, una pista quasi sicura, a cui preferisco affidarmi, piuttosto che tentare una strada più incerta e pericolosa. Presto, non importa dove, andiamo a cercare due cavalli sellati, e partiamo.

Oh! Come trovare delle parole per esprimere la malinconia di questo tragitto a cavallo, fino a Pri-Pacha, in questa limpida e pacifica giornata d’autunno, sotto questo sole ancora caldo, che ha già assunto il suo splendore morente di fine estate…

Camminiamo parallelamente all’ansa del Corno d’Oro, ma sulla sponda opposta a Stambul, un poco distanti dal mare, nella tetra campagna, aggirando i sobborghi costruiti in riva alle acque.

Come se fosse predestinato, dobbiamo passare per tutti quei luoghi un tempo così familiari che attraversavo, quando abitavo a Eyub, i mattini d’inverno – i mattini cupi e freddi di febbraio o di marzo – per ritornarmene a bordo della mia nave dopo le notti incantevoli. Sono questi anche i luoghi che ho più spesso rivisto, da dieci anni, nelle mie visioni notturne; nel sogno di oggi sono più distinti, ma non mi sembrano molto più reali.

Proseguiamo in fretta, mettendo al trotto i nostri cavalli ogniqualvolta è possibile. Ora scendiamo in mezzo a pantani, ora saliamo su alture, sempre un po’ desolate, dalla terra arida, da dove scorgiamo in fondo la riva opposta, la grande visione di Stambul completamente indorata di luce.

Oltre la tristezza mia, che oggi mi mostra le cose viventi sotto il loro aspetto funebre, quale altra tristezza dimora dunque là eternamente, e aleggia ai margini di Costantinopoli? Ho tentato di esprimerla in uno dei miei primi libri, ma non ce l’ho fatta, e oggi, a ogni pietra, a ogni tomba che riconosco sulla mia strada, mi si ripresentano le impressioni indicibili di un tempo, con questo tormento interiore, che è stato uno dei più continui della mia vita, di sentirmi impotente di dipingere e di fissare con parole ciò che vedo e che sento, ciò che soffro…

Dovunque, sulla terra, sulle rocce, sull’erba rasa, una tinta uniforme d’un grigio rosso, simile alla patina del tempo; si direbbe che una cenere ricopra questa terra, sulla quale troppe razze umane sono transitate, troppe civiltà, troppi spossanti splendori. E, di tanto in tanto, in mezzo a questa specie di lande abbandonate, qualche minareto bianco, circondato da cipressi neri.

Ci ritroviamo dinnanzi a un burrone più profondo, dove bisogna discendere; appare molto aspro e selvaggio, come se ci trovassimo a cento leghe da una città. In basso, sotto alcuni platani, c’è un’antica fontana, dove una volta incontravo quasi ogni mattina la stessa giovane turca, che pareva molto bella sotto i suoi veli. Passavo di là prima del levar del sole, all’alba d’inverno, e alla stessa ora lei veniva da sola a riempire a questa fontana la sua brocca di rame. Incrociandoci nella via deserta, annebbiata dai vapori del mattino, ci scambiavamo uno sguardo di riconoscimento; dopodiché, i suoi occhi, l’unica cosa visibile nel suo viso velato, si distoglievano, con un mezzo sorriso. Era da dieci anni che non avevo più pensato a lei, e la rivedo, adesso, come in uno specchio nitido, ritrovando tutte le mie impressioni tristi di quelle aurore, di quelle corse nelle strade ancora deserte, col viso sferzato dall’aria secca e gelida o dalla nebbia grigia. E come mi sentivo turbato nell’anima, allora, domandandomi ogni mattino se, con tutti quei pericoli attorno a noi, al calar delle tenebre mi sarei potuto riunire ancora a colei che avevo lasciato, oppure se, prima di sera, sarebbe passato Azraël ad annientare ogni cosa…

A Pri-Pacha, dove siamo finalmente arrivati, dopo aver interrogato i passanti troviamo la casupola della vecchia armena da cui dipende l’esito del mio pellegrinaggio – e sono molto ansioso di bussare alla sua porta. Due volte, tre volte, l’antico battente risuona forte, sino a far tremare le assi tarlate; non viene ad aprire nessuno. D’altronde le imposte sono chiuse. Un vecchissimo ebreo, almeno centenario, esce in fretta da una casa vicina, imbacuccato in un caffettano verde:

“La vecchia Anaktar-Chiraz?” ci risponde con aria sospettosa, “cosa volete da lei?”

Il nostro aspetto lo rassicura: “Sì, sta proprio qui, ma non è in casa; è partita ieri per andare da una sua parente ammalata, laggiù a Kassim-Pacha da dove arriviamo, proprio accanto a dove viveva una volta.”

In quell’attimo sono preso da una vera febbre. Che fare? Il tempo passa, dev’essersi fatto tardi. Non so neppure l’ora, perché prima, nella mia precipitazione, ho dimenticato l’orologio in albergo; il sole, però, mi sembra già che s’abbassi. Una volta scesa la notte, non si può tentare più nulla a Stambul – e io non ho che un giorno soltanto dopo questo che va terminando. In verità, mi sembra che nel sonno abbia avuto il completo presentimento di ciò che sarebbe stato questo viaggio; tutto si svolge esattamente come nei miei sogni: gli ostacoli che si accumulano, l’inquietudine delle ore troppo brevi, quest’angoscia di non avere il tempo di arrivare sino alla fine.

Che decidere adesso? Non lo so più troppo bene, e la mia mente un poco si perde. Dobbiamo ritornare sui nostri passi, fino a Kassim-Pacha, da dove siamo arrivati, con questi cattivi cavalli presi a nolo che non vogliono più camminare?… No, Eyub, dove abitavo, e che m’attira come un’amante, è qui, troppo vicina, proprio di fronte, sull’altra sponda del Corno d’Oro, che in questo punto si restringe e sarà più rapido attraversare. E poi mi sento proprio ridiventato un abitante di quel santo sobborgo; i dieci anni che mi separano da quando vi ho vissuto sono completamente svaniti, tanto che ho quasi l’illusione di tornare a casa mia, in mezzo a volti familiari, e che, senza sforzo, potrei immaginarmi di ritrovarvi la mia abitazione come l’ho lasciata, coi cari ospiti d’un tempo. Almeno entrerò a sedermi in quel piccolo vecchio caffè dove io e Achmet trascorrevamo le sere d’inverno, assieme ai dervisci cantastorie; non è possibile che in quel quartiere non ci sia qualcuno che non mi riconosca, che non abbia compassione di me e acconsenta a farmi da guida nelle mie ricerche – che, senza dubbio, non possono più inquietare nessuno.

Lasciamo allora i cavalli; scendiamo verso l’argine a prendere un caicco, e scegliamo un rematore giovane, per fare più in fretta – ed eccoci subito scivolare, a forti colpi di remo, leggeri, sull’acqua tranquilla.

Comincio a puntare gli occhi laggiù, di fronte a me, scrutando da lontano quell’altra riva dove stiamo per approdare.

Ma perché non mi ci raccapezzo? Eppure è proprio qui davanti, ne sono certo.

Oh! Mio Dio, tutto è cambiato! La mia casa, così vecchia, e le altre due o tre che la attorniavano, non esistono più. Non avevo previsto questa distruzione, e mi sento stringere forte il cuore. La cornice che aveva circondato la mia vita turca è per sempre distrutta, e ciò rigetta tutto in un passato più oscuro.

Metto piede a terra, cercando di orientarmi, di riconoscere almeno qualche cosa. Dov’è allora il piccolo caffè dei dervisci cantastorie? Al suo posto c’è un grande muro bianco, che non conosco, un nuovo corpo di guardia, con dei soldati schierati. E tutte le case attorno sono chiuse, mute, inavvicinabili soprattutto. Via! Qui sono uno straniero oramai. Sono stato un pazzo a venirci a perdere i miei minuti contati, quando al contrario avrei dovuto tornare indietro, seguire l’unica traccia un poco sicura, trovare a qualunque costo la vecchia armena.

Eppure anche questo faceva parte del mio pellegrinaggio, rivedere Eyub, e ne ero così vicino!

Oh! E la sacra moschea, e i viali delle tombe sante! Sono ora a due passi da quelle cose rare e misteriose, una volta così familiari, nel mio vicinato; forse non le rivedrò mai più: avrò il coraggio di lasciare Eyub senza andare a rivederle? Del resto, di corsa, perderò soltanto cinque o dieci minuti. Dico allora al battelliere: “Va’, accosta un poco più lontano, all’approdo di marmo, all’entrata del cimitero santo.”

Lasciato il vecchio greco col rematore nel caicco, ridiscendo a terra, da solo, conscio all’improvviso del silenzio glaciale del luogo, della sua sonorità funebre, che avevo scordato e che altera il suono dei miei passi. Nel viale di pace eterna, sulle lastre di marmo inverdite dall’ombra, dove si vorrebbe camminare lentamente, a testa china, oggi devo passare con quella fretta febbrile che getta su tutte le cose, anche quelle già viste, un’indefinibile aria di inesistenza. Corro, corro, in questo viale, tra le due ali di padiglioni funebri e di tombe, in mezzo a tutto quel silenzioso biancore dei marmi. A destra e a sinistra, ai bordi dello stretto viale, ci sono vecchi muri bianchi, forati da una serie di archi ogivali, attraverso cui lo sguardo spazia sotto le volte ombrose di una specie di boschetto pieno di tombe. Nulla è mutato, naturalmente, in tutte queste cose sacre e immutabili; questo luogo soltanto, così stranamente mischiato ai miei ricordi d’amore, era lo stesso ben prima della nostra esistenza e rimarrà tale ancora a lungo dopo che noi saremo entrambi passati.

In fondo al viale, in un’ombra più intensa, sotto un’oscura volta di platani, mi fermo davanti alla piccola porta dell’inviolabile santa moschea. Vi sono sempre le stesse vecchie mendicanti, dal viso velato, sedute, accoccolate, immobili su degli scalini. Una di queste, risvegliatasi al suono dei miei passi, s’allarma nel vedermi arrivare, chiedendosi se per caso avrò l’impudenza di varcare la soglia: “Yasak! Yasak!” (Proibito! Proibito!), mi dice con voce irritata, allungando una mano da morta come per sbarrarmi il cammino. Le rispondo tranquillamente, in quella lingua turca che già riparlo con la facilità di un tempo: “Lo so, buona madre, che è proibito; voglio semplicemente dare un’occhiata all’ingresso e poi me ne andrò.” Dicendo questo le do un’elemosina; allora, con voce calma, rassicura le altre, che pure s’erano inquietate: lo sa, lo sa; è del paese; viene solo a guardare. E infatti guardo rapidamente, di sfuggita; quante volte un tempo, quando abitavo Eyub, ero venuto fino a questa soglia, di cui riconosco ancora ogni singola pietra, nella semioscurità che scende dai grandi alberi. Nel luogo buio dove mi trovo, in mezzo a queste povere donne velate, immobili come fantasmi, pare che una chiarezza quasi irreale risplenda laggiù, nel cortile della moschea, sul candore secolare della calce e delle maioliche…

E subito, dopo che vi ho gettato lo sguardo, riparto di corsa per il viale santo, ripreso dalla trepidazione delle ore che fuggono, della luce che m’appare più dorata, dall’angoscia del crepuscolo e della sera.

È a Kassim-Pacha, naturalmente, alla ricerca di quella vecchia, che devo ritornare a ogni costo. E stavolta ci andrò per mare; da qui è la via più rapida.

Quando sono di nuovo disteso nel mio caicco, dico al rematore: “Va’ veloce, presto, ti darò una buona ricompensa!” Mi risponde con un sorriso lucente e si mette a remare con tutta la forza delle sue braccia. La corrente ci aiuta, e discendiamo rapidi il Corno d’Oro, allontanandoci dal cupo Eyub.

Ma dobbiamo passare davanti al sobborgo di Hadjikeuï(11). E se mi ci fermassi? Il quartiere non è tetro come quello che ho lasciato, e chissà che forse qualcuno non mi riconosca, qualcuno di quei vecchi ebrei che impiegavo al mio servizio, l’alto Salomone, o il vecchio Kaïrullah, insomma chiunque, purché mi guidi. Ormai che ci sono, proverò anche questo… E così potrò rivedere la mia casa, la prima delle mie case turche, perché ho abitato anche qui, prima di realizzare il sogno quasi impossibile di stabilirmi a Eyub.

In quel libro di gioventù dove ho raccontato della mia vita in Oriente ho taciuto il nostro soggiorno a Hadjikeuï, per brevità, ma anche per obbedire a una specie di sentimento d’orgoglio che adesso m’appare proprio ridicolo: Hadjikeuï è un quartiere povero, non molto benvisto a Costantinopoli.

Eppure in principio proprio qui avevo preso casa, lasciando il mio alloggio europeo di Pera; qui avevo ricevuto Aziyadé per la prima volta, dopo il suo ritorno da Salonicco. Vi restammo circa due mesi, ben nascosti, prima di riuscire a trovare una casa sull’altra riva, nel quartiere delle tombe sante; ma avevamo conservato, per ogni eventualità, questo primo rifugio più sicuro, dove, per capriccio, talvolta ci incontravamo ancora.

Col tempo, come tutto muta nei nostri ricordi, tutto si scorda! Ed ecco che non riconosco più neppure la scalinata della nostra via, ovvero il ponte d’assi che una volta ci era così familiare, e dove approdavamo con quella certezza che ci dona l’abitudine, nel mistero delle buie notti protettrici.

Per l’impazienza scendo altrove, all’entrata di una via israelita che ricordo in modo assai vago. E, sempre seguito dal vecchio greco, ricomincio a camminare svelto, a correre, braccato senza tregua dall’inquietudine dell’ora che sfugge.

A una svolta, capitiamo in una strada dove c’è un mercato ebreo: grida di venditori e compratori, folla affaccendata, tutto ricolmo di panieri, di frutta e legumi, di fornelli dove si arrostiscono carni all’aperto, di banchi di cambiavalute e usurai… E qui proprio mi ritrovo, il cuore mi batte all’impazzata, perché la mia casa non può essere lontana.

E comunque questo mercato m’aveva lasciato un ricordo assai singolare, praticamente unico fra tutti. Che abitassi a Hadjikeuï o Eyub, ogni sera vi venivo con Achmet per cambiare o per prendere in prestito denaro da questi ebrei, ma anche per comperare il pane e i dolci destinati ai pranzi misteriosi di Aziyadé. Costantinopoli è l’unica città del mondo dove mi sia veramente mescolato alla vita del popolo, alla vita di questo popolo orientale, colorato, rumoroso, pittoresco, ma bisognoso, povero, dedito a mille piccoli mestieri, a mille piccoli commerci. Anche il mio fedele compagno, Achmet, era un figlio di questo popolo: conosceva i minimi dettagli di questa vita faticosa, era abituato a cavarsela con praticamente nulla, e m’insegnava la sua arte, a volte facendo di me un uomo del popolo come lui. E del resto anch’io ero povero allora, e qualche volta molto in pena nel sostenere il mio ruolo di Hassan(12)

Questo mercato, che oggi attraverso a passo sciolto e rapido, sentendo pesare al mio fianco la cintura di cuoio dove ho fatto cucire – un po’ come fanno i marinai – la mia riserva di monete d’oro! Oh! Questo mercato, quante miserie mi ricorda, sopportate disinvoltamente per lei! Quante timide trattative, e richieste di crediti, somme che oggi mi fanno sorridere… Ma, sotto l’abito turco, quelle cose mi parevano accettabili, quasi mi divertivano, e mi donavano ancora di più l’impressione d’essere uscito da me stesso e d’essermi trasformato in una di quelle creature semplici che mi circondavano. C’era ancora tanta infanzia nella via vita, a quel tempo!

Dopo la via del mercato, ecco una piazza tranquilla affacciata sul mare, silenziosa, circondata da pergolati di viti e adorna nel centro di un’antica fontana di marmo. Qui c’è la mia casa, che a un tratto mi riappare, reale, alla luce dorata del tramonto… E finalmente ho ritrovato qualcosa d’un tempo, qualcosa che è appartenuta al mio dolce passato e che esiste ancora…

Mi avvicino, con non so quale timore, con uno strano turbamento nell’anima; incedendo vado a sedermi davanti a un piccolo caffè, all’aria aperta, sotto un pergolato ingiallito dall’autunno – e la guardo. (Com’è inadatto il nome di cafè per indicare questi chioschi orientali dove si fuma il narghilè.) La fisso, la mia casetta di una volta, un po’ come guarderei un oggetto onirico che osasse mostrarsi in pieno giorno. Mi pare rimpicciolita, d’aspetto misero; pure è proprio quella; bastano quelle chiazze di muffa, sui muri, a ridestare in me mille ricordi.

Nemmeno la piazza è cambiata; neanche una pietra è stata spostata da quando v’abitavo. Mio Dio, è possibile che ogni cosa sia rimasta tale e quale, che il sole l’illumini così radiosa, che io mi ci ritrovi ancor giovane, e che, dopo tutti questi anni, non sappia nulla di lei, neppure se viva o se dorma nell’amplesso della terra?

Da quando ho cominciato la mia lunga corsa errante, questo è il mio primo momento di pace e fantasticherie. Questo sole d’ottobre, che in un primo tempo m’appariva gioioso, su questa piazza solitaria, all’improvviso diventa triste, più triste della nebbia o della notte. Ora non m’affascina più, e neanche m’inganna; ora non vedo che la sua impassibilità di fronte ai continui annientamenti, alle continue fini. Sento la morte, una malinconia di morte nella sua dolce luce; i suoi raggi sono pieni di morte…

Un ragazzo si presenta per servirci. Io gli chiedo:

“Il padrone del caffè è anziano? È qui da molto tempo?”

“Il padrone?… Oh! Saranno forse cinquant’anni,” risponde stupito, “è un padre tanto vecchio.”

“Digli allora che mi venga a parlare.”

Appena lo vedo mi ricordo subito di quel vecchio:

“Mi riconosci? Abitavo là, nella casa di fronte; ne sono passati d’anni.”

“Ah! Sì!” dice, un po’ sorpreso. “E dopo te ne sei andato ad abitare a Eyub. Eppure, no… Saranno almeno vent’anni da quello che penso (si contano sempre male gli anni, in Turchia), ora saresti assai più vecchio.”

“E ti ricordi del mio servitore, Achmet?”

Si ricorda molto bene del mio servitore Achmet; ma non può fornirmi alcuna informazione su di lui: dalla mia partenza nessuno l’ha più rivisto a Hadjikeuï.

Allora gli chiedo di andare a chiamare tutti gli anziani del quartiere, tutti coloro che in un modo o nell’altro possano ricordarsi di me.

Ben presto si forma un assembramento: vicini, curiosi, gente qualunque, che mi guardano come uno spettro dell’aldilà, stupiti di vedermi ancor giovane; sembra che in tutti i loro ricordi il mio passaggio qui rimonti a poco a poco a epoche incerte e remote.

Non avevo dubbi. Non hanno dimenticato quel francese che ebbe la strana idea di venire a isolarsi fin qui. Ma, ahimè, nessuno riesce a dirmi nulla di Achmet. Però, se voglio, mi propongono di andare a cercare un ebreo che mi conosceva assai bene e che forse potrà darmi qualche informazione: si chiama Salomone.

Salomone! Certo che voglio vedere Salomone! Che lo conducano in fretta, ci sarà un buona ricompensa. Mi servivo spesso di Salomone; andava a fare delle compere per me assieme ad Achmet, e conosceva persino le visite e le uscite clandestine di una musulmana dalla mia casa. Al momento della mia partenza lo avevo cacciato, è vero, per non ricordo quale raggiro; ma che importa, purché mi guidi! Sarà praticamente una gioia rivederlo, come ogni cosa che si è legata alla mia vita d’un tempo…

Eccolo che arriva. Senza dubbio neanche lui ce l’ha più con me, perché appare tutto commosso al riconoscermi, e bacia la mano che gli tendo. Avevo lasciato un uomo alto e superbo, lo ritrovo curvo e incanutito.

“Achmet,” mi dice, “non l’ho mai più rivisto, e non ho più neppure sentito parlare di lui dopo la tua partenza. Deve aver lasciato il paese, oppure sarà morto.”

Poi mi promette che passerà la sera in ricerche e che salirà domani a Pera per informarmi.

Via! Qui non otterrò più nulla. Ancora una sosta sprecata. E il tempo preme, occorre ripartire…

Eppure vorrei proprio entrare nella mia casa, giacché ci sono così vicino; soprattutto vorrei salire al primo piano, in quella stanza che avevo preparato con tanto amore per accoglierla.

Mando Salomone a trattare con le persone che vi abitano: poveri armeni, che acconsentono, per una moneta d’argento, ad aprirmi la porta. Entro, salgo la nostra scala, rivedo la nostra adorata stanzetta, un tempo così graziosa col suo strano arredamento. E adesso più niente: miseri mobili, disordine, stracci consunti. Avrei fatto meglio a non insistere per rivedere questa pietosa profanazione; la semplice occhiata che ho gettato là dentro è sufficiente per far sprofondare ancor di più in fondo all’abisso quel passato di cui vado cercando traccia.

Ma, mentre ridiscendo, per questi scalini dove si sono posate le babbucce di Aziyadé, vengo colto da una pungente emozione, che non avevo previsto…

Un giorno tanto lontano della mia infanzia, un raggio di sole invernale, entrato da una finestra sulle scale, mi aveva impressionato in una maniera inesplicabilmente profonda – l’ho già raccontato, non so più dove. E qui, tanti anni dopo, avevo riprovato lo stesso brivido, rivedendo, in questa casa di Hadjikeuï, un raggio simile, dallo stesso significato misterioso, che, ogni sera, scivolava lungo la scala per illuminare un’anfora di Atene riposta in una nicchia del muro… Spesso dettagli insignificanti s’imprimono per sempre nella nostra memoria, e si direbbe che riassumano in sé tutto un luogo, tutta un’epoca penosa o rimpianta: ce ne sono stati di questi raggi di sole, per me già uniti a non so quale passato sconosciuto. Ci avevo pensato mille volte dopo la mia partenza dal paese turco, e un’angoscia strana, bizzarra e inquietante, mi era sempre salita all’idea che non avrei mai più rivisto quella striscia di luce pallida, che cadeva in quella nicchia, su quell’anfora, mai, mai più…

Ebbene! La nicchia vuota è sempre là nel muro, e mentre scendo, il sole la rischiara ancora con lo stesso raggio triste…

In tutto ciò che precede, una volta di più, mi sono perso nell’indicibile…

Risaliamo sul caicco, io e il greco, dopo questa sosta che è durata venti minuti preziosi, e continuiamo la nostra strada verso Kassim-Pacha, con tutta la forza dei nostri remi.

Sul Corno d’Oro c’è il consueto viavai, l’incessante incrocio dei piccoli caicchi silenziosi. Come è bello questo pomeriggio, tiepido, luminoso! A me, che arrivo dalle foreste di abeti dei Carpazi, dove già cade la prima neve, sembra quasi d’essere in estate… E ricado di nuovo negli inganni del sole. Mi lascio lentamente incantare e cullare da questo dondolio, un tempo così familiare: come un momento fa a Eyub, a poco a poco, m’immagino di trovarmi ancora in quei giorni lontani, quando avevo degli appuntamenti misteriosi, qui, sulle rive del Bosforo… I dintorni, d’altronde, sono così immutati! Le grandi cupole delle moschee si elevano sugli stessi luoghi; l’immensità del profilo di Stambul domina completamente sul gioioso movimento delle barche, proprio come dieci anni fa dominava i nostri avventurosi appuntamenti d’amore… Oh! Come raccontare l’incanto di questo luogo che si chiama Corno d’Oro! Come dirlo, anche vagamente: è fatto delle mie gioie inquiete e delle mie angosce, mescolate all’ombra dell’Islam; forse non esiste che per me solo…

Arriviamo presto allo scalo di Kassim-Pacha, di fronte al palazzo moresco sede dell’Ammiragliato. Guardo l’ora… A cosa pensavo dunque, quanto dovevo sentirmi turbato per non aver notato che il sole è ancora ben alto: sono appena le tre e mezza! Provo un senso di tranquillità al sapere che il giorno non è così vicino alla fine…

In dieci minuti di cammino affrettato giungiamo nuovamente al quartiere dove speriamo di trovare Anaktar-Chiraz. Si passa per delle viuzze tipicamente musulmane, dove camminano donne in babbucce velate di mussolina bianca.

Dopo aver compiuto questo lungo e inutile pellegrinaggio, eccomi ritornato al punto di partenza, a questa piazza d’Hadji-Ali, tranquilla e solitaria, con le sue casette basse, come una piazza di villaggio, dove mi siedo allo stesso piccolo caffè di poco prima, nel giardino, sotto il pergolato ingiallito che si sta sfogliando. In questo pacifico recesso, povero, quasi campestre, ci troveremo bene per discorrere del passato, senza testimoni, in mezzo a cose immutate da secoli; il posto, del resto, sembra scelto apposta per l’incontro quasi funebre che m’aspetta, per le cose tristi e cineree che senz’altro ci diremo.

Mando il mio greco intrigante a informarsi di Anaktar-Chiraz e a pregarla di venire qui, per parlare un poco con me. Stavolta sono sicuro che la troverà; mi preoccupa solo il dubbio di sapere se lei verrà, se non avrà paura, e per l’attesa chiedo un narghilè. La sera è sempre più tiepida, piacevole come le tranquille sere d’estate. Il sole, che tramonta, indora l’antica moschea e la vite sfogliata sotto la quale sto seduto. Nella piazza non passa nessuno; dal Corno d’Oro e dalle navi risale fino a me appena un rumore confuso; tutto attorno cala un profondo silenzio. Passano minuti e minuti d’attesa. Niente più indica l’immensa città vicina; ormai ho proprio la percezione dell’estate, di una sera d’estate che finisce, in qualche villaggio orientale, e una calma profonda ridiscende su di me.

Il greco finalmente ritorna, seguito da una vecchia donna vestita di nero, bruna, dai lineamenti duri, che riconosco immediatamente. L’avevo vista una sola volta nella mia vita, ma è proprio lei. Sembra smarrita, sconvolta; è terribilmente invecchiata. Basta che si ricordi qualcosa!

Evidentemente si è spaventata di fronte a queste persone sconosciute, a questo interrogatorio che deve subire in un luogo isolato. Con un inchino cerimonioso si siede dinnanzi a me, sull’orlo di uno sgabello, e mi guarda. Io sono controluce, e lei deve vedermi nell’ombra, con il sole sullo sfondo.

Oh! Sì, è proprio lei. Riconosco soprattutto il suo mezzo sorriso, buono, onesto, che per un istante ha rischiarato il suo viso incartapecorito e indurito. Una ciocca dei suoi capelli, rimasta nera come l’ebano, circonda il fazzoletto di seta, anch’esso nero, che come una benda avvolge la sua testa. Il suo abito liso, ma pulito, è tagliato all’europea, con una foggia fuori moda e degli sbiechi di velluto nero. Da noi, nei villaggi del Midi o dell’Alvernia, s’incontrano donne anziane con questi vestiti e quest’aspetto. Siede rigida, sul suo sgabello, e aspetta.

Comincio a interrogarla dolcemente, timidamente, in turco, timoroso delle sue risposte.

“Achmet? Achmet?” ripete, sempre con gli occhi smarriti. No, non se ne ricorda. È passato tanto tempo dalle cose che le racconto – e lei si è presa cura di tanti, tanti ne ha visto morire nella sua vita, giovani e vecchi -, e ce ne sono di Achmet, a Costantinopoli! “E poi,” aggiunge per scusarsi, “ho perso uno dopo l’altro mio marito e i miei figli. Da allora la mia mente è confusa, la mia memoria è svanita.”

Mio Dio, come rischiarare le tenebre che sono calate su quest’intelligenza, come potrò fare?… E poi ha soprattutto paura; paura d’essere interrogata riguardo a qualche questione di giustizia, paura di non so che neppure io.

“Non aver timore di nulla, buona donna,” le dico. “Sto cercando questo Achmet perché gli volevo bene, solo per questo. Sforzati di ricordare. Vorrei rivederlo. Aiutami. Ti supplico, adesso, lo vedi bene. Su, prova: Achmet, Mihran-Achmet? E poi io ti riconosco; sono sicuro d’essere venuto a parlarti qui con lui, dieci anni fa, quando abitavi in questo quartiere. E gli ho anche scritto da te, nei primi tre anni dopo la mia partenza. Tu l’hai curato, non te ne ricordi, quando era ferito e molto ammalato…”

Uno scintillio sembra rischiararle la mente. Si piega in avanti per guardarmi più da vicino, le si spalancano gli occhi, si dilatano; li immerge nei miei:

“Ma come ti chiami?” dice con voce brusca.

“Loti!”

“Loti!… Ah! Loti!… Ah! Achmet!… Ah! Mirhan-Achmet! Se mi ricordo, di Mirhan-Achmet!”

Qualche secondo di silenzio, in cui s’incupisce completamente. Poi riprende, in tono duro:

Eulû! Eulû! Yedi seneh dan, tchok dan euldi!” (Morto! Morto! Sette anni fa, è tanto che è morto!)

Che strano! Il principio della risposta, il tono crudele, il ripetersi aspro di questa prima parola dal suono sinistro, li avevo un tempo immaginati per Aziyadé, qualcosa d’assolutamente simile… Eulû! Eulû! M’ero immaginato che, per annunciarmi la sua morte, mi avrebbero perseguitato, accanitamente, proprio con questa parola.

E ho ascoltato, pressoché impassibile, la frase funebre, quasi dimenticando Achmet soltanto per ripetermi che la traccia diventa sempre più difficile da seguire, che non mi resta che riporre ogni speranza in sua sorella Eriknaz, e che bisogna, stasera stessa, a ogni costo, che io la trovi.

La vecchia continua:

“L’ultima notte ti ha chiamato ininterrottamente: ‘Loti! Loti! Loti!…’ Allora è a causa tua che è morto, a causa tua!”

Anche questo me l’attendevo. So bene che non è vero, che quel povero ragazzo è morto per la sua ferita; ma non mi sorprendo, perché m’ha chiamato nell’ultima ora, d’essere sospettato di qualche maleficio mortale. Sono solo colpito di sentirmi appena leggermente commosso, come se in questo momento avessi il cuore sbarrato, o occupato da cose diverse da lui…

“Sai dov’è la sua tomba?” chiedo soltanto. “Allora mi ci condurrai domani… Ma è Eriknaz, sua sorella, che devo vedere stasera; dimmi dove abita, vuoi portarmi subito da lei?”

“Eriknaz?… Ma di chi sto dunque parlando? Sei mesi dopo suo fratello, anch’ella è finita nella bara. E sua figlia Alemshah si è sposata, ed è andata a vivere molto lontano di qua, sulla costa asiatica, vicino a Smirne…

E Anaktar-Chiraz fa un gesto con la mano, come per scacciare la polvere, come per indicare meglio che quel mondo non esiste più; tavola rasa, nulla ne resta.

Bene, s’è spezzato il filo nel quale avevo riposto le mie speranze; s’è spezzato ed è sepolto da tanti anni assieme a Eriknaz. E in quanto a questa donna che mi parla, è inutile chiederle di Aziyadé, non ne ha mai neppure conosciuto l’esistenza. “È una buona e santa donna,” diceva Achmet, “ma non c’è bisogno di confidarle i nostri segreti, non saprebbe custodirli.” Tutto il mio disegno s’infrange; il giorno finisce, e io non so più che fare…

Intanto Anaktar-Chiraz, molto raddolcita, ora mi tempesta di domande, perché ha capito che soffro. Perché sono scomparso per dieci anni, senza neanche rispondere alle lettere di Achmet morente? Cos’è che mi riporta qui adesso? Cosa voglio sapere da Eriknaz, e che mistero c’è sotto tutto questo?

Io non rispondo più, spossato e immerso nei miei pensieri… Ma d’un tratto mi ricordo di un’altra sorella di Achmet. Come mai me ne ero dimenticato? Certo, una specie d’invisibilità avvolgeva quella strana creatura. Non l’avevo vista che una volta sola, a malapena, nell’oscurità. Tutti e due, Eriknaz e Achmet, non la vedevano quasi mai, e abbassavano la voce quando parlavano di lei; era una sorella anziana, già vecchia, verso la quale provavano una sorta di venerazione frammista a timore; la chiamavano sottovoce “nostra madre”. Ma sapeva dell’esistenza di Aziyadé, e dove questa abitava, e conosceva bene anche Kadidja, la negra. In realtà, non riesco a capire come vi non abbia pensato prima…

E chiedo, tremante:

“Ti ricordi che c’era una vecchia sorella… che abitava da sola, laggiù, dalle parti delle Acque Dolci?(13)

Grazie a Dio se ne ricorda, e crede che questa vecchia sorella viva là tuttora, sempre nella stessa casa. Ma è una persona strana, che ha sofferto gravi disgrazie e vive ritirata. Da sette anni, dal funerale, non l’ha più riveduta.

“Oh! Ti prego,” le dico, “portami subito da lei.”

Risponde che è troppo tardi, che il sole s’abbassa; che la sua ammalata l’attende. Perché non andare domani? È tanto lontano! E poi, non sappiamo neanche se vorrà riceverci.

Glielo chiedo pregando, la scongiuro, perché, sebbene mi sembri povera, non oso offrirle del denaro. La supplico, e vedo a poco a poco i suoi occhi intenerirsi. E va bene, allora, andremo stasera. Il tempo di andare ad avvertire la sua ammalata e ritornerà, poi ci incammineremo assieme.

Congedo il greco, che ha assunto un’aria troppo attenta, troppo inquisitrice, e resto solo, seguendo con gli occhi l’abito nero della vecchia donna che s’allontana.

Qualche minuto di pace e silenzio, mentre attendo il suo ritorno. Sopra la mia testa, la vite sfogliata assume sempre più una tinta rosso dorata, e una sfumatura d’oro si spande pure sulla moschee di fronte, sui rami dei grandi cipressi, su ogni cosa; la sera, la calma della sera, cade su questo piccolo quartiere sperduto, dove ho avuto conferma della morte di Achmet. Più ci penso, più sono convinto che anche lei, Aziyadé, dorma come Achmet nella terra turca. Ma invece dello strazio indicibile che avrei sentito una volta, non provo che una dolce malinconia pensando a quelle creature scomparse; una dolce malinconia, quasi un senso di quiete di saperli là, e un desiderio di raggiungerli nella pace in cui si trovano.

All’immobilità dell’Islam, che percepisco attorno a me, s’aggiunge, per cullarmi, il fascino disteso di questo giorno che tramonta. In questo momento, la mia sofferenza è sopita dall’assoluta rassegnazione alla morte universale.

Oh! Eppure, se quei due poveri ragazzi, che tanto mi hanno amato e che ormai quasi confondo in un uguale sentimento di tenerezza che non ha più nulla di terreno, mi fossero resi per un istante, con quale gioia inesprimibile, con quale commozione profonda e senza nome li stringerei fra le mie braccia!

La vecchia donna ritorna, pronta a seguirmi dalla sorella di Achmet. C’incamminiamo nuovamente verso il mare, per ritrovare il mio caicco e il suo battelliere, che ci ricondurranno in fondo al Corno d’Oro, a Pri-Pacha, vicino alle Acque Dolci.

Per scendere dobbiamo attraversare gli stessi quartieri musulmani di poco fa, adesso illuminati dagli ultimi raggi di sole, e animati dalla vita delle sere d’Oriente, pieni di vestiti dai colori smaglianti.

Il battelliere ci attendeva allo scalo di Kassim-Pacha, tranquillo, sdraiato nel suo caicco. Al calar del sole ricominciamo quindi a scivolare sulle acque del Corno d’Oro, in senso inverso al nostro primo tragitto. Sulla riva meridionale, la luce va lentamente a morire dietro Stambul – ed è l’ultima grande fantasmagoria del giorno.

Il sole è tramontato quando scendiamo a terra, oltre Pri-Pacha, nell’ultimo sobborgo, che confina con gli immensi cimiteri. Ed eccoci, io e l’armena, che camminiamo svelti fianco a fianco, al crepuscolo, in un quartiere che non conosco, in una piccola e triste borgata armena dalle vie strette e tortuose, con case in legno, scure o dipinte di rosso, sbarrate come prigioni.

Anaktar-Chiraz si arresta di fronte a una di queste case dall’aspetto misterioso e bussa col battente di ferro. I colpi echeggiano sinistri in tutte le case di legno del vicinato deserto.

Poco dopo, la porta è socchiusa con diffidenza, e nell’ombra appare un viso spettrale, che mi suscita un brivido: un viso di cinquant’anni, mesto, appassito, smagrito, ma somigliante al povero Achmet in una maniera che colpisce sino a far spavento. Evidentemente è sua sorella, ma così simile a lui, con gli stessi lineamenti, la stessa espressione, gli stessi occhi, che è come se lo avessi rivisto, invecchiato di trent’anni, che mi guarda con rimprovero di là dal tempo e dalla morte.

È sorpresa, esitante, pronta a richiudere la porta appena aperta.

“Loti!” si affretta a dirle la vecchia Anaktar, pronunciando questo nome sottovoce, come si annuncerebbe un fantasma: “Guardalo, è Loti!… Loti che è ritornato!”

“Loti?… Loti?…” ripete l’altra con voce. “Ah! Loti!…” dice poi, dopo un attimo di silenzio, con un tono doloroso e amaro che mi trafigge il cuore peggio del più straziante dei rimproveri…

Parlano l’una all’altra in turco, a bassa voce e in fretta, dicendosi delle cose il cui senso mi sfugge. Poi mi pregano di entrare, e le seguo per una scaletta buia. Al primo piano, in una stanza ammobiliata all’orientale, ma triste e povera, mi fanno accomodare su un divano miserabile; poi, la sorella d’Achmet s’affretta a prepararmi il caffè – che qui è d’obbligo per l’ospitalità – e, intanto che si affaccenda intorno al suo piccolo fornello, asciugando per me le sue povere e rozze tazze, vedo delle lacrime silenziose, delle grosse lacrime che le scendono lungo le guance.

Oh mio Dio! Quanta tristezza, qui, alla sera, in questa stanza spoglia dove piange questa donna, e come mi si stringe il cuore, e come le frasi che vorrei pronunciare si frenano e si spengono…

Entrambe comprendono bene che sono venuto per dire o per domandare qualcosa di grave. Ma cosa! Io non parlo. Loro aspettano. E il silenzio si fa sempre più pesante, mentre scende la notte…

Tremando, mi decido a parlare:

“Ti ricordi bene di madame Aziyadé, la giovane signora turca che tuo fratello, anch’egli, amava molto? Te ne ricordi?”

Lei allora ripone le tazze e lo strofinaccio, come per sentirsi più libera, perché ha capito che il penoso interrogatorio comincia. E fa segno di sì con la testa, con un gesto delle mani che significa: “Oh! Se me ne ricordo! Come l’avrei potuta scordare?”

 

Di nuovo silenzio, mentre io sento dei piccoli colpi battermi regolarmente alle tempie – il rumore pressante delle arterie che pulsano. Alla fine, bruscamente, con voce quasi soffocata, le faccio la domanda suprema:

“È morta, non è vero?”

Mi guarda, senza dire nulla, e sui suoi occhi tristi, incavati, compare un’espressione di sorpresa quasi ingiuriosa… Allora, dopo qualche secondo d’attesa, a poco a poco comprendo che è

Ho già irrevocabilmente capito, quand’ella si decide a chiedermi aspramente: “Certo!… Non lo sai?” E io rispondo a bassa voce, mentendo: “Sì, lo so, lo so…” poi, con voce ancora più soffocata, come un bambino che balbetta: “Ma non era questo che volevo domandarti… Volevo… volevo pregarti di dirmi dove l’hanno sepolta…”

E ricade il silenzio, ancora più pesante di un momento prima. Ha mentito perché mi vergognavo, davanti a lei, di non sapere, di aver potuto vivere per anni così. Ma vedo bene che non mi ha creduto e che continua a fissarmi con una curiosità frammista a biasimo e disprezzo… Anche il mio atteggiamento la colpisce: il nostro contegno e la nostra impassibilità di fronte alla sofferenza sono incomprensibili per gli orientali, per loro, che si disperano urlando…

Il silenzio pare sempre più glaciale; si direbbe che fra di noi sia calato uno strato di ghiaccio. E nella casa sbarrata, nella stanza povera e strana, si fa sempre più buio; attraverso le spesse persiane di legno che nascondono la finestre, non entra più che un vago chiarore; la notte mi sembra scendere rapida, a sbalzi, come se qualcuno sopra di noi gettasse in fretta, una alla volta, delle fasce da lutto…

E così, è in questa casa triste e in quest’ora desolata che dovevo venire per ascoltare la sentenza finale…

Non so quanti secondi, o minuti, rimango là senza parlare, seduto fra quelle due donne, di cui una piange.

La sorella di Achmet, per non mancare alle leggi dell’ospitalità, mi ha offerto una piccola tazza di caffè, che bevo lentamente, sempre con la stessa apparente tranquillità. Dentro di me, nelle regioni profonde del pensiero e del ricordo, mi sento turbato e in preda a visioni confuse, come in sogno. Ho l’impressione d’assistere a una frana che cade in un abisso: le cose prima in piedi precipitano l’una dopo l’altra, sprofondano, si annientano; uno schianto immaginario accompagna le cadute, poi si smorza, tace quando tutto è crollato; e quando non resta più niente torna il silenzio; lo stesso cupo silenzio, all’interno come all’esterno…

La sorella di Achmet non sa dove abbiano sepolto Aziyadé. Mi risponde così, freddamente, quando le rifaccio la domanda. Ma mi dice che Kadidja, la negra, che è ancora viva, ne è certo a conoscenza; se ci tengo, andrà a chiederglielo domani, e la pregherà anche di accompagnarmi.

“Domani! Oh, no! Stasera, subito!” Dopo il momento di calma funebre la vita torna in me, assieme all’inquietudine delle ore che passano.

All’inizio rifiuta: dalla negra, nella Stambul vecchia, di notte, con me!… No, dice. Non è possibile, non oserà.

Un attimo prima avevo supplicato l’altra, ora supplico questa. E la vedo a sua volta intenerirsi. Ebbene ci andrà; ma preferisce da sola; andrà da Kadidja, per avvertirla e stabilire l’ora dell’appuntamento; poi, domani mattina, tornerà a prenderla con un caicco e la condurrà dovunque vorrò…

Ecco che finalmente abbiamo fissato il programma per l’indomani; alle otto, ci ritroveremo tutti su questa sponda del Corno d’Oro, a Kassim-Pacha, nella piazzetta di Hadji-Ali; vi arriverò in carrozza, dove farò salire l’armena e la negra, e ciascuna mi condurrà a una tomba, mentre la sorella di Achmet, sempre di nascosto, tornerà nella sua casa solitaria. È deciso, promesso, giurato, e adesso scenderemo tutti e tre.

Mentre la sorella di Achmet si prepara per uscire, provo a interrogarla. Però lei non sa quasi niente. Vivendo sempre ritirata, non ha mai conosciuto i dettagli precisi della morte di Aziyadé: “Domani, Kadidja mi dirà tutto, domani!” Riguardo all’epoca, apre un vecchio quaderno dove sono annotate delle date in turco e si accosta all’inferriata di una finestra, da cui entra ancora un po’ di luce. “Vediamo, è stato alla fine della primavera che ha preceduto la morte di Achmet, nell’anno 1397(14) dell’egira. Quindi, devono essere sette anni e qualche mese.” Sa che l’hanno portata via di sera, quasi di nascosto; ma che il vecchio Abeddin, il suo padrone – che d’altronde è morto anch’egli un anno fa – ha comunque fatto preparare una tomba di marmo. Ed è tutto. “Domani, Kadidja mi dirà il resto, domani!”

Ora è pronta; ha messo sulle sue povere vesti un vecchio scialle nero, e scendiamo insieme, dopo che ha sbarrato con cura le porte una volta usciti.

Camminando per le viuzze, ancora più buie, ci dirigiamo verso il mare, dove ci separeremo.

La sorella di Achmet ha preso un caicco a nolo per recarsi a Stambul; la vecchia armena sale sul mio, che mi stava aspettando, e si siede di fianco a me; la porterò a Kassim-Pacha, poi tornerò a Pera, ormai che la mia lugubre giornata è finita. Riflettendoci, è meglio che il mio incontro con Kadidja sia stato rimandato all’indomani, così che possa prepararmici in anticipo, perché ho paura di affrontare quella vecchia, paura del suo rancore, paura del suo disprezzo… Chiamo anzi la sorella di Achmet, che già si allontanava sull’acqua grigia, e trattengo con una mano il suo leggero caicco, per farle mille raccomandazioni: “È vero che dirai a Kadidja che sono stati i miei viaggi di soldato che mi hanno impedito di ritornare, le spedizioni, le guerre lontane; non è colpa mia, su; se non l’avessi amata, madame Aziyadé, sarei qui stasera, sarei tornato da tanto lontano, dopo dieci anni, solo per lei? Glielo dirai, vero?…” Poi mi fermo, poiché sento che la mia voce sta cambiando e occorre che mi trattenga, perché sto per piangere. “Glielo dirò, Loti, glielo dirò,” risponde. E adesso mi pare di scorgere un’espressione molto dolce sul suo volto desolato; poi le nostre barche si separano, nell’oscurità sempre più fitta…

È finita la mia lugubre giornata! Finite l’agitazione, l’inquietudine, l’ansia, le preghiere. Finito il dramma il cui epilogo era rimasto sospeso per dieci anni…

Scivoliamo rapidamente sull’acqua; l’armena, silenziosa al mio fianco, rigida nel suo vestito nero. Comincio a sentire una pace di tomba; mi sembra adesso che questo paese, questa città per tanto tempo sognata, si siano di colpo spogliati del loro incanto indicibile, e pure del loro immenso mistero; che Stambul sia vuota, come anche il mio cuore, come anche la mia anima; mi sembra che tutto si dissolva, e che voglia al più presto lasciare questa Turchia, per non ritornarvi mai più.

Continuiamo a scendere a grandi colpi di remo, come persone che hanno fretta di giungere in qualche luogo. Perché questa fretta? Non lo so. Adesso, che tutto è finito, nulla più ci preme. E dove stiamo poi andando? Non so neanche questo. Ho paura che questa vecchia, seduta al mia fianco, parli, rompa questo silenzio di cui ho bisogno; ho paura che mi chieda d’Aziyadé, di tutte queste cose strane e inattese che ha saputo; volto la testa per non incrociare il suo sguardo, e fisso, senza vederlo, il meraviglioso scenario del crepuscolo: Stambul che si riflette a rovescio nelle acque tranquille, i mille caicchi che s’incrociano, trasportando in silenzio la magia sempre più sfumata dei costumi e dei colori. Tutto ciò, che avevo smarrito da anni, e che qui mi riappare come un sogno fatato, non mi dice più nulla; come l’aria deliziosa, l’aria ancora dolce, tiepida, tenera come d’estate…

Ci fermiamo allo scalo di Kassim-Pacha per far scendere la vecchia armena vestita di nero, la cui presenza, benché muta, era diventata una vera angoscia: “Addio,” dice Anaktar-Chiraz andandosene. “Che Dio t’accompagni, e domani mattina non mancare all’appuntamento per andare alle tombe.”

Riparto da solo, come sgravato da un peso funebre, ma con lo sguardo la seguo lo stesso, quasi rimpiangendola, perché era come un legame col mio amato passato.

Il battelliere, con l’aria dolce di un bambino stanco, mi mostra le braccia nude, che iniziano a dolergli: “Devo sempre andare così in fretta?”

“Oh, no! A che serve adesso?” M’ero scordato di dirglielo… Non ho più niente da fare, e non m’aspetta nessuno, in questa grande città dove mi conoscono solo i morti. Che importa dove andremo adesso. Non posso che vagare, libero e solo, in cerca qua e là di qualche traccia, dei ricordi d’un tempo. Quindi gli dico: “Va’ piano, invece; va’ dove vuoi; lascia che l’acqua culli il caicco, posa i remi e riposati; incrocia le braccia, e canta, se vuoi…”

Dopo un istante, eccoci quasi immobili, spinti soltanto da un’impercettibile deriva; il rematore ha incrociato le braccia e canta.

L’aria è incantevole, dolce, incredibilmente dolce; ascolto il suo canto, forte e lamentoso, e mi guardo attorno, più attento, più vivo di qualche istante fa. Dopo che la povera vecchia in abito nero che stava al mio fianco come un rimorso se ne è andata, provo davvero un indescrivibile sollievo, troppo improvviso però, che mi stupisce e mi sconcerta… Ora guardo con più attenzione, quasi con la mia solita avidità di osservare… Con la notte tutto ha cambiato aspetto; i fanali sono stati accesi a terra, sulle barche, sui caicchi silenziosi che scivolano da ogni parte; Stambul si è trasformata in un profilo scuro di cupole e minareti, stagliato in un cielo ancora chiaro. In mezzo al Corno d’Oro, seguiamo sempre la corrente, mentre, da entrambe le rive, ci giunge, un poco smorzato, il clamore orientale, l’insieme confuso dei rumori di Costantinopoli che riconoscerei fra tutti i suoni della terra. Come tutto è uguale ad allora, come nulla è cambiato; m’immagino, senza averli riveduti, tutti i quartieri delle due sponde, dove ho vagato notti e notti. So tutto ciò che vi succede, tutto ciò che si contratta, si cela, si canta! Tanto che mai ho provato, come in questo momento, l’illusione d’essere ricaduto in un passato ormai svanito – e niente di quello che potrei descrivere, in pagine o libri interi, potrebbe riprodurre la malinconia indescrivibile di quest’impressione…

E invece, come tutto è cambiato, in me e per me, da quando ero giovane!… Allora ero povero, ignorante; la mia vita turca, sbandata e rischiosa, era un continuo pericolo, non avrei saputo a cosa appigliarmi; una nota dell’ambasciata, l’ordine di un superiore, avrebbero potuto annientarmi in qualsiasi momento. Ero spesso in pena per poche monete d’argento quando dovevo comprare un abito turco, un’arma, o soltanto mandare Salomone, l’ebreo, in qualche piccolo bazar del quartiere a comprare il nostro pranzo. Allora dovevo fare i conti con queste persone, che stasera sento rumoreggiare sulle rive, con questa gente del popolo a cui m’avevano mischiato le mie fantasie; fra di loro avevo debitori, creditori, amici che mi erano utili, nemici di cui temevo le calunnie. E adesso li comprerei dieci volte, quei piccoli nemici, e il loro silenzio, solo con le monete d’oro della mia cintura. Adesso il mio orizzonte si è allargato, ampliato a dismisura, e sono quasi un sovrano a paragone del fanciullo sperduto di un tempo. Ebbene, tutto quello che qui dieci anni fa m’avrebbe incantato, assieme a lei, è invece arrivato troppo tardi, perché me ne curo appena; qualcosa in me si è spento, una parte di me è sepolta in terra turca con Aziyadé.

L’incredibile paesaggio continua a cambiare, le misteriose cupole si fanno indistinte e quasi diafane nella notte; i fuochi sono innumerevoli e, in alto, luccicano le stelle. L’aria, sempre più dolce, senza un soffio di brezza, è quella di una sera d’estate. Guardo, risvegliato del tutto dal mio torpore di morte, osservo avidamente, con gli occhi spalancati perché non mi sfugga nulla. E mi sento pieno di contraddizioni che mi sgomentano: in alcuni momenti, completamente perso nel suo caro ricordo, triste sino nel profondo dell’anima, e come per l’eternità, provo il sentimento (che già so fuggevole, ahimè, per tutte le volte che l’ho sperimentato) che tutto sfumi e conosca una fine su questo mondo; poi, dopo qualche istante, con una sorta di trionfo egoistico, mi risento ancora vivo, ancora giovane, ancora assetato d’amore; e mio malgrado, m’abbandono alla commozione di tutto questo paese orientale, al tepore di questa sera, al ricordo dell’ebbrezza d’un tempo, a tutte le cose a cui non avrei mai più dovuto nemmeno pensare…

Dieci anni, per le nostre anime umane così fuggevoli, sono veramente un periodo infinitamente lungo!… Dieci anni di separazione e di silenzio scavano abissi nella memoria, portano all’abdicazione, a istanti di confusi oblii, quasi a un crepuscolo, anche di coloro che più abbiamo amato… E constatarlo è, in sé, così amaramente delusorio.

Scesa la notte approdiamo ai piedi del grande ponte di Stambul, e risalgo a Pera, al mio albergo.

Mangio qualcosa, nella sala degli ospiti, in compagnia dei turisti che ho conosciuto ieri, sull’Orient-Express o sul piroscafo di Varna. E per un po’ ridivento come tutti, chiacchiero, metto da parte i ricordi, quasi dimentico che domani, domani mattina, m’aspetta il temuto incontro con Kadidja e la visita alla tomba.

Però, appena terminata la cena, chiedo un cavallo per andare a Stambul (andare a Stambul di notte, e soprattutto da solo: un gesto che appare sempre assurdo ai clienti degli hotel per europei). Ci voglio andare per rivedere, sia pure nell’oscurità, la casa del vecchio Abeddin, quella casa dov’ella è morta e da dove, “una sera, quasi di nascosto, l’hanno portata via…”

Prima attraverso in fretta le strade di Galata, piene di luci, grida, musica, poi, all’imbocco del ponte che unisce le due città, nel punto dove affiorano le ombre e il silenzio solenne, mi fermo, secondo l’uso, per permettere a un corriere di accendere la lanterna con la quale m’illuminerà la strada sino all’altra riva e, immediatamente, superato il ponte, eccomi immerso nell’immensità di Stambul, oscura, inaccessibile, morta. Durante il giorno, trattenuto altrove, non l’avevo intravista che da lontano, e dopo dieci anni vi arrivo in piena notte, proprio come la sera in cui c’ero venuto per la prima volta nella mia vita, in una festa del Bayram.

È una notte oscura, con le stelle velate. Ma i miei occhi vi si abituano; comincio a vederci, e, senza sforzo, come se me ne fossi andato ieri, mi dirigo al trotto in questo dedalo, fra le alte mura senza finestre, riconoscendo al passaggio i vecchi palazzi con le inferriate, i padiglioni funebri dove ardono dei lumini, le cupole delle stinte moschee silenziose che si protendono verso il cielo. E la luce della lanterna, che corre e danza davanti a me, mi indica, a terra, lungo tutta la strada, delle forme scure; sono cani che dormono.

Vado in fretta, poiché è tardi, e la casa di Abeddin è lontana.

E dietro un angolo si svela finalmente dinnanzi a me la grande piazza deserta di Mehmed-Fatih, cinta da una serie di piccole cupole morte, candide come un sudario. Mi manca poco, sono quasi arrivato. Attraverso di sbieco la piazza, udendo così gli zoccoli del mio cavallo risuonare più forte sul selciato e risvegliare ovunque lugubri echi. Poi m’addentro di nuovo nell’oscurità di una viuzza angusta – ed è là, fra pochi istanti, che m’apparirà la casa, la vecchia casa di legno, alta e triste, d’un rosso cupo, con le grate sporgenti alle finestre, su cui erano dipinte farfalle gialle e tulipani blu. Mai nessuno che girovaghi in questo quartiere, mai una porta aperta, mai un suono di vita, mai una luce. Ha rallentato di molto l’andatura, e faccio illuminare dalla lucerna del corriere i muri antichi, la parte inferiore dei vecchi balconi dalle sbarre impenetrabili, per non confondermi quando arriveremo. Ma d’un tratto, davanti a me, nulla; un vuoto indistinto, seminato di una distesa di pietre, di travi annerite, mentre il mio cavallo incespica in queste rovine… Il fuoco ha compiuto la sua opera, uno di quei grandi incendi, che qui ardono quartieri in poche ore, ha distrutto ogni cosa. “È successo lo scorso inverno,” mi dice il corriere, muovendo da una parte e dall’altra la lanterna per indicarmi meglio quella desolazione; in uno spazio di tre o quattrocento metri non vi sono che macerie. Via di qui, tutto è finito, la casa dove Aziyadé ha chiuso gli occhi si è dissolta nelle fiamme… Bisogna abbandonare queste rovine.

Me ne vado, rimetto in marcia il cavallo, prendendo una strada a caso, nella notte nera.

Quest’ammasso di rovine… No, non l’avevo previsto; questa devastazione oltrepassa un po’ la misura di ciò che m’attendevo. Eppure non pensavo di essere così affezionato a questo triste quartiere; m’ero immaginato, senza dubbio perché era già vecchio di secoli, che sarebbe durato ancora, almeno tanto quanto me, ed ecco che adesso una tristezza più greve mi giunge a dire che mai, mai più, non potrò camminare per questa strada, ch’era la sua, sotto gli alti balconi con le inferriate della casa dove lei aveva trascorso metà della sua vita.

E mentre mi allontano, non mi volto neppure, e soffro, nel profondo dell’anima, di una specie di disperazione cupa e assoluta, senza conforto, senza grazia, semplicemente dolorosa. Il suo ricordo, il rimpianto di lei, e un pesante rimorso, m’opprimono come un mantello di piombo; in questo momento nulla me ne può liberare. E poi c’è sempre quella domanda desolante che mi si prospetta con chiarezza glaciale: a che serve quello che andrò a fare domani? Che illusione infantile è mai visitare la sua tomba? Forse una parte di lei saprà almeno che sono tornato, avvertirà quel bacio che consegnerò alla terra, sopra i resti di quello che fu il suo corpo? Oh! L’amaro e irrimediabile dolore di non poter mai più scambiare con lei un solo pensiero! Povera Aziyadé, quante cose non le ho mai detto, che ora mi tormentano, e che le direi laggiù, se potessero restituirmela anche solo per pochi istanti, per l’ultimo incontro: dirle che l’ho amata molto più teneramente di quanto lei non credeva, e neppure io; dirle che non vincerò mai lo strazio d’averla perduta; chiederle scusa di essere vivo, e giovane, e di amare ancora; dirle tutte queste cose, e poi lasciarla riaddormentare, dopo un addio pieno d’amore! E invece no, quest’incomprensione terribilmente crudele dovrà durare per l’eternità; presto verrà anche la mia ora, rendendo ancora più irreparabile questo equivoco, e ancora più definitivo il silenzio tra noi, perché tutte le cose che non hanno potuto essere dette, ma che vivevano nel profondo della mia anima, si dissolveranno con me. E il tempo continuerà a fuggire, e i nostri nomi saranno dimenticati – separatamente…

Proseguendo, sempre a caso, nel dedalo di strade, nel profondo della notte, ricapito proprio nel centro di questa città immutabile, nel sacro quartiere vicino alla moschea del sultano Selim(15): tombe, cipressi, padiglioni funebri dove vegliano piccoli lumi che rischiarano i catafalchi. Ed ecco una strada, unica, particolare, diritta e tuttavia in stile arabo, bianca di calce e fiancheggiata regolarmente da una serie di androni ogivali; le sue case centenarie non sono che pianterreni molto bassi, che lasciano intravedere, a destra e a sinistra, distese di cielo. Questa è l’altura centrale di Stambul, che domina tutt’attorno. Separate, le cupole sovrapposte della vicina moschea salgono nell’oscurità bluastra del cielo, pallide come neve, indistinte, come i cerchi che si formano intorno alla luna. La strada, una lunga fila d’arcate tristi, si va a perdere in ombre confuse; ma in fondo, un po’ più lontano, una porta ancora aperta lascia cadere una luce sul selciato bianco… È proprio il vecchio piccolo caffè dove avevo l’abitudine di fermarmi con Achmet, la sera tardi, quando attraversavamo a piedi la grande Stambul. Com’è possibile che sia ancora aperto a quest’ora? Si direbbe che lo sia per me, che mi stia aspettando e mi chiami. Scendo un momento da cavallo, per andarmi a sedere fuori, sotto i portici, nella fresca aria della notte.

Qui tutto è rimasto intatto; riconosco i vecchi dipinti, le vecchie immagini della Mecca appese ai muri. Di fronte, in mezzo alla strada, c’è sempre l’antica fontana di marmo, coperta in cima da qualcosa che assomiglia a una chioma nera, che è invece un ciuffo di felci. E senza dubbio, su questo sgabello che mi sta portando il caffettiere, mi ci sono seduto più di una volta.

Una volta, me ne ricordo bene, quando eravamo seduti qui, si vedeva di tanto in tanto passare qualche pio derviscio che si recava alla moschea. E stasera, proprio nel momento in cui vi ci sto pensando, appare un gruppo di questi dervisci. Camminano lentamente, e si voltano per osservare questo personaggio, attardato a un’ora insolita davanti all’unico caffè aperto lungo quella via deserta che si perde lontanamente nel buio.

Mi ricordo pure che una volta c’era un suonatore, un vecchio, che per tutta la sera, in fondo a una strana saletta, suonava col violino tristi arie orientali, che straziavano l’anima. E stasera, all’improvviso, dietro di me, comincia a gemere la stessa musica. Oh! Stavolta il ricordo è così forte che sento, più profondamente che mai, percorrermi gli abissi dell’anima un fremito di risveglio e d’angoscia… E così sono proprio io, di nuovo qui, tranquillamente seduto in questo luogo familiare: intorno a me, nel cuore di Stambul, le cose sono rimaste le stesse, e il nostro piccolo e adorato rifugio di Eyub non esiste più, e la sua casa è diventata cenere, e Achmet è morto, e dopo sette anni lei è adagiata nella terra, tutto è stato falciato, spazzato via, finito per sempre… La frase della sorella di Achmet, d’un tratto, mi torna in mente ancora più terribile, come se me la cantasse questo violino dietro di me, sulle note sconosciute di una tristezza inconcepibile: “Era la fine di primavera… L’hanno portata via di sera…”

L’hanno portata via di sera… Vedo adesso quel tramonto di maggio o giugno, calmo, limpido, come per un’incurante ironia, illuminare di rosa la casa scura, e poi la porta aprirsi in silenzio per far passare i portatori carichi di un oggetto pesante… Oh! Quel corpo che se ne andava così, quel corpo era il suo!… No! Finora non avevo mai provato per lei nulla di paragonabile a questo strazio.

Del resto, mi sembra che, dopo l’inizio del mio pellegrinaggio a Costantinopoli, malgrado gli ostacoli seminati come di proposito sul mio cammino, malgrado i cambiamenti, le distruzioni, le morti – e malgrado questi intermittenti momenti d’oblio che mi confondono -, mi sembra di avvicinarmi sempre di più al caro piccolo fantasma che inseguo, e che le nostre anime siano vicine a ricongiungersi…

Mi giro verso la strada e il buio, perché i miei occhi all’improvviso si velano, e non distinguo più nulla. E due lacrime tremendamente amare, lacrime d’abbandonato, come saranno state le sue, mi scendono sulle guance.

Il ragazzino che mi porta il caffè e il narghilè s’accorge che sto piangendo, mi guarda stupito, poi forse pensa che gli affari di questo straniero non lo riguardano, e se ne va senza dire niente. Il vecchio cantore di morte è solo, quasi nel buio, suonando come in sogno. Io resto, prolungando il più possibile questo momento di dolore, perché mai, da dieci anni, non mi sono sentito così vicino a lei come qui, nella solitudine di questa strada piena d’ombre, mentre dietro di me gemono, nel mezzo del silenzio e della notte circostanti, le note stridule del violino…

Un’ora più tardi ritorno sull’altra riva, risalgo a Pera, congedo alla porta dell’albergo il corriere e il cavallo. Ma cambiata idea, invece di entrare, m’incammino da solo a piedi, per vagare senza meta, forse anche sino al mattino: non voglio perdere dormendo il tempo troppo breve che mi rimane da passare qui.

In principio provo una specie d’ebbrezza inattesa, troppo carica, a trovarmi solo, libero, senza meta, per le strade buie. La notte continua a essere dolce come una notte di giugno, e l’aria è piena di tutti gli odori di Costantinopoli, in mezzo ai quali, in questo quartiere, domina il profumo balsamico dei cipressi.

Prima di trasferirmi a Hadjikeuï ed Eyub, per tre mesi di un’estate avevo abitato qui, in cima a Pera, contemplando dalla mia finestra il lontano e meraviglioso panorama di Stambul: era il tempo in cui attendevo l’arrivo di Aziyadé, senza credere affatto che sarebbe venuta, e, aspettandola, mi stordivo con altre. Era pure l’epoca transitoria della mia vita, quando, non avendo a un tratto più né fede o speranza, mi gettavo perdutamente nell’amore. E l’incanto, per me nuovo, di quell’Oriente, lo splendore dell’estate, il richiamo di tanti occhi scuri, tutto ciò aveva fatto di quei mesi d’attesa qualcosa di stranamente voluttuoso, con uno sfondo di tristezza infinita. Oh! Le notti di quel tempo, passate a vagare per le strade, come faccio stasera, ma sempre alla ricerca di qualche nuova avventura, quelle notti, come ne ritrovo a ogni passo i ricordi, in ogni cosa che riconosco nell’oscurità! E anche i profumi, che non sono cambiati! E tutti questi rumori che così in fretta mi ridiventano familiari: l’abbaiare lontano di cani randagi, i segnali delle guardie notturne che battono sul selciato con la punta dei loro bastoni ferrati, e un clamore confuso che proviene dal basso, dagli angoli dissoluti di Galata.

Adesso scendo per gli scalini di una via affiancata da case solo da un lato, e che dall’altro domina una profonda voragine: il Campo dei Morti; oltre, una linea pallida, il mare, e un profilo incantato, Stambul.

Mi sembra di riconoscere in maniera singolare questi lastricati, questi scalini!

E in realtà, come non m’ero accorto prima che questa via è proprio quella dove abitavo, e che questa è la mia casa di Pera, e quelle lassù le finestre della mia camera? Quante volte sono rientrato in quella stanza a ore sconvenienti, quando già il fresco chiarore del mattino cominciava a mostrarsi dalla parte delle rive d’Asia! A poco a poco, ricordi più nitidi della ebbrezze passate mi tornano in mente, mio malgrado, e mi turbano sempre di più…

Poi arrivo al Piccolo Campo dei Morti, circondato da mura: un bosco di cipressi profumato e dove dormono sepolcri musulmani talmente antichi che non ispirano più terrore. Una volta mi capitava spesso d’entrarci, nel mezzo della notte, e di sedermi sul muschio secco cosparso di piccole bacche profumate cadute dagli alberi: era un rifugio sicuro, dove gli incontri non avevano testimoni. L’entrata era laggiù, per quel cancello in ferro battuto che comincio a intravedere. Era sempre chiuso, quel cancello; ma quando si era pratici del luogo, come me allora, mettendo la mano in un determinato punto dove la pietra del muro era sbrecciata, si trovava il chiavistello e si riusciva a entrare… E la mia mano, d’istinto, la mia mano, s’infila in quel foro del muro, trova il chiavistello e lo spinge: ecco che il cancello si apre di nuovo, cigolando un poco sui cardini arrugginiti, con un rumore familiare che mi lascia completamente frastornato…

Mio Dio, dunque non so più cosa sono venuto a fare a Costantinopoli? L’ho forse dimenticato? Poche ore prima di visitare la sua tomba sono sprofondato in un tale attimo di confusione e di inquietante indifferenza! Oh! La frase funebre: “L’hanno portata via di sera…”, come ho potuto rimuoverla, anche solo per un momento? Come posso essere così in balia delle mie sensazioni per pensare ad altro?… Rientrando, abbasso la testa; mi sembra di avere insultato il mio caro ricordo durante ogni istante di questa strana passeggiata notturna, di avere allontanato da me l’amato fantasma che a poco a poco si avvicinava.

E quando finalmente mi ritrovo da solo, nel buio della mia camera d’albergo, non è il sonno a venire, ma le lacrime, le lacrime che lavano e che benedico.

 

IV

 

Venerdì, 7 ottobre 188…

 

 

Mi sveglio, dopo sogni confusi; mi vesto, agitato, per andare al cimitero.

Nei miei bauli ho portato con me uno di quegli abiti turchi tanto ricamati che gli uomini del popolo indossano nei giorni di festa, povera reliquia un poco sciupata dei nostri giorni di Eyub; lo portavo la sera, nel nostro appartamento, e nel quartiere. Aziyadé mi aveva fatto pure giurare che sarei ritornato con quel vestito, che lo avrebbe rivisto, e dopo anni, mi ero detto che l’avrei rimesso, anche se solo per andare a visitare la sua tomba.

Poi, quando mi vedo vestito in quel modo, m’assale un dubbio. Questa veste orientale, un tempo familiare, m’appare oggi un travestimento, una triste mascherata. Però vorrei tenerla: come fare? Prima la nascondo sotto un normale cappotto grigio, che cambio subito con un mantello da viaggio ancora più lungo, che mi copre interamente fino alle ghette dorate… Quanto sono infantili questi dettagli stravaganti su come vestirsi, quando si tratta di un pellegrinaggio funebre il cui pensiero turba sin nel profondo dell’anima!

In strada m’attende un grande landò che ho chiesto ieri, in modo che le vecchie donne possano prendervi posto accanto a me; quindi partiamo, sotto un bel sole limpido, che ha un’aria gioiosa.

Dobbiamo fare un lungo giro, passando per pericolose strade in discesa, per arrivare in carrozza alla piazza di Hadji-Ali dove mi hanno dato appuntamento, poiché Kassim-Pacha è un quartiere che si trova più in basso rispetto a Pera, da cui lo separano i pantani dei “Campi dei Morti”.

Comunque ci arriviamo. Ecco infatti la piccola antica moschea bianca, con i suoi cipressi neri.

Sulla piazza di Hadji-Ali scorgo due donne che m’aspettano, solo due, Anaktar-Chiraz e la sorella di Achmet. La terza, Kadidja, la più desiderata e la più importante, come mai non è qui?

Le altre due, vedendomi apparire, fanno un gesto di sconforto. Cosa ancora è successo? Non vuole vedermi? Oppure è morta? In tal caso sarebbe la fine; fallirei ormai vicino alla meta, e mai più nessuno al mondo potrebbe condurmici… Riesco a riflettere su tutto questo in pochi secondi d’angoscia affannosa, mentre salto a terra e corro verso di loro per interrogarle.

No, rispondono, la cosa non è tanto grave. Ma la povera vecchia è malata, dall’inverno passato, inchiodata al suo letto, incapace di fare un passo. E nessuna carrozza potrebbe arrivare fino al quartiere dove vive, tanto ripide e strette sono le strade.

D’altro canto, a che sarebbe servito che venisse da questa parte del Corno d’Oro, quando, com’ella dice, la tomba è sull’altra riva; dal lato di Stambul, ma molto lontano, fuori dalle mura, nelle campagne…

Fuori dalle mura, l’hanno messa là!… Oh! Sentirlo mi spezza ancora di più il cuore!

E all’improvviso m’appare quella terra desolata, di lande e di boschi di cipresso, che si stende ai piedi delle vecchie immense mura, dal Fanar sino alle Sette Torri(16); tutto quel deserto funebre, lungo una decina di chilometri, dove si seppelliscono a caso i morti senza nome. L’hanno messa laggiù! Ne avevo avuto talvolta il timore, senza volere neppure soffermarmi al pensiero; no, piuttosto cercavo di immaginarmela addormentata in uno di quei graziosi cimiteri di Scutari, o delle rive del Bosforo. E come trovare là in mezzo la sua adorata tomba, se Kadidja – l’unica che la conosce e che senza dubbio non vivrà ancora per molto – non può venire oggi stesso, non importa a che prezzo, a indicarmela?

Una volta di più provo l’angoscia di vedere il mio filo conduttore sfuggirmi di mano; l’angoscia di escogitare un espediente qualunque, sempre in preda all’identica urgenza febbrile, e di non trovarne alcuno…

Alla fine mi viene un’idea, e chiamo il cocchiere greco che mi ha condotto fin qui. Questo conciliabolo in mezzo alla piazza, questo straniero, questa carrozza, sono cose assai inconsuete per la gente di questo quartiere assopito, e da dietro le inferriate delle finestre cominciano ad apparire alcuni sguardi. Mi sono ricordato che a Pera, dieci anni fa, si usavano ancora le portantine: avevo visto allora, nelle sere di pioggia, attrici o cantanti farsi riportare così ai loro alberghi. Il cocchiere, che ha l’aria sveglia, forse riuscirà a procurarmene una, immediatamente, e anche a farmela condurre qui, con una muta di portatori.

Gli allungo in anticipo una moneta d’oro; e gliene prometto un’altra per il servizio, se riuscirà a procurarmi tutto entro mezz’ora. E parte, sicuro del fatto suo, frustando i cavalli.

Di nuovo un’attesa incerta, come quelle che tante volte mi hanno interrotto ieri. Mi siedo su una pietra, in mezzo alla piazza, tra le due donne. Mi tolgo il mantello grigio, che in questo borgo appare più strano della mia veste orientale; in quel momento i ricami dell’abito, scelti un giorno da lei, dopo tanti anni, riacquistano la loro luce d’un tempo, di fronte al sudario di calce degli stessi vecchi muri, e lì, in quella viuzza bianca, battuta dal sole, solitaria, provo la gioia, anche se velata da un po’ di malinconia, d’aver ripreso per un attimo l’aspetto di uno di questo popolo…

Passano trenta o quaranta minuti d’attesa silenziosa; le due donne, vestite di nero, stanno sedute, la testa fra le mani, l’una alla mia destra, l’altra alla mia sinistra, come immagini di morte che abbiano assunto forma umana.

E finalmente lassù, in cima a un’altura che domina il quartiere di Hadji-Ali, appare, stagliata nel cielo, la carrozza che ritorna al passo, seguita dalla portantina e dai portatori!

Svelti, svelti! La carrozza m’attenda qui, con Anaktar-Chiraz, un’ora, due, tutto il tempo necessario, e la sorella di Achmet, i portatori, la portantina, scendano con me sino al Corno d’Oro, dove prenderemo a nolo un grande caicco che ci porterà a Stambul.

A Stambul sbarchiamo nel grigio Fanar, allo scalo più vicino al quartiere di Kadidja; poi ci arrampichiamo per varie scalinate, in mezzo a mura sgretolate e pericolanti, osservati con stupore dai rari passanti, che distolgono lo sguardo con aria inquieta e ostile.

Dentro una catapecchia senza nome, in un sottoscala buio, Kadidja è distesa sopra orribili cenci, gemendo debolmente come una povera bestia malata. Ma è proprio lei, e credo che nessun viso, nessuna cosa rivista a Costantinopoli, mi abbiano impressionato come quel vecchio volto scuro, dove s’intravedono l’ostilità di un animale agonizzante e una supplice tenerezza: non saprei quale miscuglio di animalità in decomposizione e di un’anima fedele che se ne va…

Avvicinandomi, avevo timore dei suoi rimproveri e del suo astio. Ma questi si erano già scatenati il giorno prima, quando la sorella di Achmet aveva pronunciato il mio nome; ma dopo m’aveva perdonato, perché ero ritornato. Non devo più sentire il terribile: “Eulû! Eulû”, né la maledizione di cui avevo avuto quel presentimento crudele, dieci anni prima, quando avevo scritto l’ultimo capitolo di Aziyadé. Al contrario, tende verso di me le sue povere mani nere, rugose, deformate, spaventevoli; a dispetto di ogni separazione, i nostri occhi si guardano intensamente e si comprendono; lei piange e, guardandola, sento che anch’io sono sul punto di farlo. È l’ultima fra le ultime, schiava negra dalla nascita, ora relitto appena umano che si consuma di miseria in una stamberga, e mi chino su di lei con tenera pietà, e sono sicuro che, senza grande sforzo, le darei un bacio di devozione.

Certo, mi dice, che si alzerà, malgrado stia male; si lascerà condurre, portare; farà tutto ciò che vorrò, a costo di morire stasera, felice, ben più di quanto avrebbe mai osato chiedere al suo dio, felice per quanto lei sia ora importante per me e la sua padrona, felice di quest’ultima visita insperata alla sua tomba. E scendono le lacrime, scendono sulle sue guance nere; lacrime di gioia, che la trasfigurano…

Ma ecco una difficoltà inaspettata: i portatori, adesso, provano ribrezzo, e non ne vogliono sapere! Prenderla in braccio, farla sedere nella loro portantina foderata di velluto nuovo, mai! Sono portatori eleganti, in abiti ricamati, che non s’attendevano affatto di essere scomodati per un affare del genere. E si rifiutano.

D’altra parte, credo che questa povera vecchia, quasi nuda, se tolta dai cenci immondi ammucchiati sul suo corpo, morirebbe di freddo… Però mi viene in mente d’aver visto nel quartiere, di sfuggita, delle belle coperte di lana arancione, nella vetrina di un piccolo negozio di ebrei, e prego la sorella di Achmet di correre ad acquistarne una… Ce ne occuperemo assieme; avvolgeremo Kadidja noi due, e così i portatori potranno sollevarla senza timori.

Un altro quarto d’ora perduto, per questa vestizione che sembra una sepoltura. Alla fine la vecchia, avvolta e infagottata nella lana spessa e nuova, è seduta nella portantina di velluto, sorridente, nonostante i dolori e la povertà, di tutto questo lusso a lei finora sconosciuto. Così c’incamminiamo, congedandosi dalla sorella di Achmet con strette di mano e gratitudine.

Prima di andare, Kadidja, ripresasi completamente, ha dato con voce ferma le sue istruzioni, indicando attraverso quale porta di Stambul si dovrà uscire. Il mattino avanza; strada facendo, noleggio un cavallo e ordino ai portatori di correre. Alcuni bambini, che vedono passare a gran velocità la portantina, accompagnata da un cavaliere dorato come un cavas(17) di un pascià, guardano attraverso i finestrini di vetro per vedere la bella che viene condotta lì dentro così di fretta, e si spaventano di fronte a quel grottesco viso scuro.

Tutta questa confusione, tutta questa foga, mi hanno fatto dimenticare lo scopo della corsa. E poi, il piacere fisico di cavalcare questo giovane cavallo, procuratomi dal caso, il piacere di fendere l’aria viva e pura, in un bel mattino di sole… E, una volta di più, sopravviene l’oblio; cavalco, col cuore quasi leggero, osservando tutt’attorno cose strane e straordinariamente tristi.

Camminiamo a lungo in mezzo a quartieri pressoché disabitati, quasi in rovina, chiamati la “Vecchia Stambul”. Infine, ci appaiono le gigantesche mura merlate che la cingono; usciamo per antiche porte ogivali, che si susseguono in volte oscure, e eccoci nelle campagne, nel deserto di tombe.

Dietro di noi, i bastioni che abbiamo attraversato sembrano la cinta di qualche colossale città abbandonata; incredibilmente alti, irti di denti aguzzi, affiancati da enormi torri, si allungano a destra e a sinistra, indistintamente simili, perdendosi in terre desolate.

Di fronte, c’è l’interminabile distesa delle sepolture: lande di un grigio scarlatto, cosparse qua e là di boschetti di cipressi neri che s’elevano come guglie di chiese. Una moltitudine di tombe ricopre queste terre; pietre diritte, d’ogni età, d’ogni tempo della storia. Questa terra arida rigurgita ossa di morti.

Un tempo, quando abitavo a Eyub, mi recavo raramente da queste parti. Una volta, però, vi avevamo fatto una passeggiata in pieno giorno, io e lei, un pomeriggio di dicembre, scegliendo questo posto perché era più deserto. Qui vicino, me ne ricordo, un uccellino, sbagliando indubbiamente stagione, aveva cantato, solo per noi, un’aria primaverile, sul ramo di un cipresso. Poi, a poca distanza, là in fondo, avevamo visto seppellire davanti a noi una bellissima ragazza, che oggi non dev’essere che polvere… Oh! Quella passeggiata sull’erba rasa e le margherite d’inverno, l’unica che abbiamo mai osato fare assieme alla luce del sole, come all’improvviso il suo ricordo mi ritorna in maniera straziante…

E adesso riprendo coscienza di quanto c’è di infinitamente triste in questa nostra corsa. Il pensiero che mi sto avvicinando a lei, ai resti di quello che fu il suo corpo, mi fa profondamente rabbrividire, e sento ritornare quell’impressione fisica particolare delle ore di lutto, quell’impressione che le tempie, il petto, si serrino a poco a poco, sempre più forte, in una morsa di ferro.

Osservo le tombe attorno a me, le più vicine, ma anche le più lontane, cercando e interrogando con gli occhi le meno vecchie, quelle rimaste ancora un po’ bianche e dove luccica un po’ d’oro, quelle che non hanno ancora assunto il colore uniforme grigio rossastro di tutto quest’immenso ossario… Già da tanti anni avevo previsto, divinato, questa passeggiata funebre, tutto ciò che oggi è realtà; ma non avevo mai immaginato che si sarebbe svolta in questa terra di totale abbandono dove ci troviamo; no, non credevo che sarei dovuto venire a cercarla tra questa confusa schiera di morti; soffrirei meno di saperla altrove, perduta in mezzo a tanti altri, a tanti altri che non hanno più nemmeno un nome, più nemmeno una pietra…

Kadidja ha indicato ai portatori di piegare a sinistra; ora costeggiamo l’opprimente e interminabile muraglia merlata, in direzione delle Sette Torri, camminando su una terra spoglia, dall’aria maledetta.

Dobbiamo essere vicini, perché ha bussato, con la sua vecchia mano nera, contro il vetro della portantina, per far segno di rallentare, e la vedo guardare, con gli occhi spalancati, mentre si guarda intorno. Ora sembra esitare – e tremo. Ah! Deve averla vista, perché fa arrestare i bravi portatori con un gesto di comando. Di qua, a destra, su una specie di rialzo, dove si trova una decina di pietre diritte: è là! In mezzo alle altre, ci sono tre o quattro tombe di donna, che distinguo immediatamente: cippi dipinti di verde o di blu, con iscrizioni e un coronamento di fiori particolari, una tempo dorati… Ma quale?

La povera vecchia si fa aiutare a scendere, traballante, con gli occhi ardenti; sollevata da due portatori, che la tengono avvolta nella sua coperta arancione – non per riguardo, ma per disgusto del suo corpo – quasi cammina, nelle sue condizioni; ha estratto dalle pieghe della lana due orribili braccia da mummia, percorse da vene gonfie, e procede, per forza di volontà, tra gli uomini che la sostengono, con sobbalzi che la fanno soffrire. E io la seguo, con pietà infinita…

Quale di queste tombe? Ah! Questa, senza dubbio, verso cui sembra dirigersi, questa, di un azzurro stinto, con un’iscrizione dorata ancora luccicante…

Si, è proprio questa!… Vi si getta sopra, vi si aggrappa con le due mani raggrinzite, povera vecchia grottesca che duole a vedersi e incute spavento; dopo si gira, per gridarmi, con voce trasformata, selvaggia, acuta, singolare in quel silenzio. “Bourda!… Bourda! Aziyadé!” (Qui! Qui! Aziyadé!) E vi è sottinteso, ma che capisco bene, e che mi trafigge come una lama: “E sei tu che ce l’hai portata!” Poi, subito, mi prende le mani, e, con una voce da fanciullo, dolce, dolce come per chiedermi perdono, ripete: “Qui!.. Qui, Aziyadé! Vedi, ora è qui…” E intanto una smorfia che schianta l’anima contrae il suo viso scuro, e un fiotto di lacrime improvvise le sgorga dagli occhi…

Io abbasso la testa; ma non mi viene una lacrima. Con un gesto istintivo, per scoprirmi la testa come si fa sulle tombe cristiane, mi porto la mano alla fronte, poi la lascio ricadere… Avevo scordato il vestito che mi ero messo per venire qui: non ci si toglie mai il fez turco, neanche per pregare Dio. E mi chino sul marmo, per cercare, fra le iscrizioni ricurve che non so decifrare, il suo nome, quello vero e amato, quello inciso sul grande anello d’oro che mi ha regalato, quello scritto anche sul mio petto, in piccoli indelebili caratteri azzurri. Com’è possibile che all’improvviso mi sia dunque così calmato, quasi distratto? Mi pare di non capire più molto, di non essere più ben presente. Cosa m’ha serrato il cuore in maniera così inaspettata? La presenza di questi uomini, senza dubbio, coi loro occhi curiosi, il loro stupore pressoché ironico; tutta questa gente, tutto questa scena quasi teatrale. Oh! Se avessi potuto venire da solo. Loro, non dovrebbero trovarsi qui, i loro sguardi, per la semplice vicinanza, sono un insulto per l’adorata tomba – e se capissero il tutto, forse in futuro sarebbe anche pericoloso per la pace di questo luogo, quando me ne sarò andato.

Ci ritornerò da solo, domani mattina; ne avrò ancora il tempo, perché il mio piroscafo non parte che alle tre del pomeriggio. E quella sarà la mia vera visita. Per oggi andiamocene; con queste persone che calpestano il suolo e che parlottano, stiamo profanando tutto…

A lei, che dorme sotto questa pietra, dico dentro di me: “Tornerò da solo a trovarti, povera piccola, domani mattina la trascorrerò con te, nel tuo deserto: sai già bene che ti amo, perché per ritrovarti ho fatto tutto questo lungo viaggio…” Eppure, mio malgrado, furtivamente, punto gli occhi sulla terra, sulla terra ai piedi di questo cippo di marmo… Ma no, oggi non voglio più pensare a quello che si trova qua sotto; giro la testa, e, sforzandomi d’irrigidirmi, mi sento tornato del tutto impassibile, l’espressione indurita.

Osservo soltanto i dintorni con estrema attenzione, per non perdermi quando verrò da solo. Per prima cosa, lungo quest’immensa muraglia che incombe, che sembra rinchiudere il mondo intero dietro di noi, conto quanti bastioni quadrati vi sono dalla porta per la quale siamo usciti per arrivare fin qui; poi, traccio in fretta in un taccuino l’allineamento e i profili dei cipressi, per avere dei punti di riferimento sicuri; scolpisco per sempre questo spazio funebre nella mia memoria, per non dimenticare più la strada, anche fosse fra dieci anni, fra venti anni, che mi sarà concesso di ritornarvi. Cerco anche quali pianticelle potrei raccogliere domani e portare con me: quasi nessuna, ahimè, tant’è arida questa terra; appena due o tre minuscole foglie spinose e un esile lichene grigio; non credo che neppure a primavera qualche piccolo fiore selvatico fiorisca su questa tomba…

Adesso andiamo, in fretta. I portatori rimettono la vecchia spossata sul suo sedile, io rimonto a cavallo, e riattraversiamo rapidamente questa desolazione, come c’eravamo arrivati.

Quanto è strana, in verità, e diversa da come me l’aspettavo, questa visita, così breve, così distaccata. Me ne vado, con una tristezza più amara, deluso, frustrato. E se qualcosa m’impedisse di ritornare domani, se nel frattempo qualcosa mi trattenesse?… Finché non siamo rientrati sotto le volte opprimenti delle enormi mura, esito, mi volgo indietro, tentato di ritornare sui miei passi, col cavallo al galoppo…

Quando Kadjdja è ricoricata sui suoi cenci, nel sottoscala buio, congedo i portatori, la cui presenza mi era diventata insopportabile. Stendo meglio che posso sul corpo della povera vecchia la sua coperta nuova, che le fa molto piacere, e che accarezza con le mani, come fanno i bambini con un giocattolo nuovo.

E adesso vorrei interrogarla, lei, che è la sola persona al mondo a cui possa parlare fra coloro che hanno visto, che hanno saputo, che hanno conservato il ricordo di tutto ciò che tremo al pensiero di conoscere.

“Sì, sì,” risponde, “ti racconterò come sono andate le cose, come sono andate… Uno di questi giorni potrai venire a parlare con la tua Kadjdja, quando si sarà riposata per tornare in sé…”

Uno di questi giorni!… Ma io non ho che oggi!…

“Ah! Loti,” riprende sollevandosi con uno sforzo, “tu non sai: mi avevano cacciata… Ma la sua Kadjdja non era andata lontano, sai, e per due notti, quando capii che stava per morire, sono rimasta in strada, appoggiata alla porta, ad ascoltare…”

L’avevano cacciata… Ma allora che potrà dirmi di tale? Che storie strane e confuse potrò tirar fuori da questa vecchia testa, che, del resto, mi sembra già smarrita.

“E Fenzilé-hanum(17),” dico, “sai che ne è stato di lei?”

“Ah! Fenzilé, sì… Lei sì che ne sa di cose. E forse, forse potrebbe venire qui, a raccontartele!”

Fenzilé era una delle tre altre donne del vecchio Abeddin; l’avevo intravista una volta sola, velata, naturalmente. Ma sapevo che voleva bene ad Aziyadé più delle altre, quasi gentile e affettuosa. E sembra che dell’harem disperso sia la sola a essere rimasta a Costantinopoli, dove si è risposata. Oh! Se riuscissi a parlarle! Ma non credo davvero che ciò sia possibile… “Come fare, mia buona Kadjdja, per convincerla a venire da te?”

Dopo un attimo, seguendo le indicazioni della negra, vado in una catapecchia là vicino e torno portando con me una donna molto vecchia, con un sinistro viso da mezzana, che nella sua vita si sarà immischiata in ben più di qualche affare losco. È su di lei che Kadjdja conta per combinare l’incontro; ora, in maniera molto agitata, le dà in proposito delle istruzioni che sembrano assai precise, mentre da parte mia le prometto una forte ricompensa. L’appuntamento sarà qui, questo pomeriggio, beninteso, verso le sette turche. Ma non ci spero molto…

Vorrei chiedere ancora qualcosa a Kadjdja; ma è sempre più spossata, e ne ho pietà. Anch’io sono terribilmente stanco di questa mattinata. E poi immagino bene cosa mi dirà chiaramente se insisto: che Aziyadé è morta perché l’ho abbandonata. Poiché è vero, il mio dovere è quello di sentirmelo dire, e ci tengo, ma sarà abbastanza una volta, quando la rivedrò stasera… Allora mi ricordo che mi aspettano sull’altra sponda, e, quasi vilmente, me ne vado.

Adesso bisogna quindi ridiscendere verso il Corno d’Oro, prendere un caicco, passare sull’altra riva, ritornare alla piazza di Hadji-Ali, dove m’attendono Anaktar-Chiraz e la carrozza, per andare a visitare un’altra tomba.

Seduta accanto a me, Anaktar-Chiraz dice al cocchiere: “Va’ al cimitero armeno-cattolico di Chichli(18).”

È molto lontano, sembra, e frusta i suoi cavalli, che partono veloci al trotto. Voltando le spalle a Stambul, torniamo di nuovo a Pera; l’attraversiamo di corsa; la passiamo; passiamo anche il sobborgo di Taxim, ed eccoci in un altro sobborgo, ben diverso da quello in cui dorme Aziyadé… Quanto lontani li hanno messi, i miei due poveri compagni di Eyub.

In un cimitero cattolico?… Ora ricordo, in effetti: mi aveva raccontato che era nato armeno-cattolico e che più tardi, intorno ai quindici anni, s’era fatto musulmano sotto il nome di Achmet. Nell’ultima ora, avrà ripensato al Cristo.

Che orrendo quartiere è questo, in contrasto con Stambul, e la sua tristezza grande e superba… Qui è la zona dove tutte le persone d’ogni razza di Pera vengono a divertirsi nei giorni di festa; in una campagna senza alberi, priva di verde, completamente spoglia, fanno prima sfoggio di sé orribili localetti armeni, greci, ebrei, che ricordano lo sgradevole circondario di Parigi; poi cominciano i campi coltivati, dove s’addentra la nostra carrozza: una regione grigia, del colore della terra, senza un filo d’erba; infine, su un’altura solitaria, compare una cinta di mura, anch’essa grigia, sopra la quale non cresce né un cipresso né un albero qualunque: è il cimitero di Chichli.

Entriamo. Si direbbe un cimitero di povera gente, un cimitero di suppliziati. Non un fiore, una pianta. Qualche rara piccola croce di legno o di pietra, qualche lapide di marmo molto umile; quasi dovunque, semplici rialzi di terra indicano le dimore dei morti.

La vecchia armena cerca di orientarsi, sceglie un sentiero, si mette a contare i monticelli sinistri – uno, due, tre, quattro – e si ferma in un punto che sembra esser stato scavato di recente: “Eccolo lì, il nostro Achmet!” E i suoi buoni occhi di vecchia madre un poco si velano, al ricordo del bambino che aveva allevato come un figlio.

Oh! Povero ragazzo! Quanta pena vedere il luogo dove è sepolto!…

Non avrò il tempo di tornargli accanto una seconda volta, così vado a dargli il mio ultimo addio: “Dov’è rivolta la testa?” “Qui!” risponde la donna, abbassandosi per toccare col dito la zolla di terra. E, dov’ella mi indica, raccolgo, per portare con me, un piccolo ed esile trifoglio che è spuntato solitario.

Ho detto al cocchiere di riportarci di corsa all’albergo.

Anaktar-Chiraz è seduta accanto a me nel landò, e, strada facendo, la prego di far preparare, quando sarò partito, una lapide di marmo che voglio sia messa al cimitero per Achmet. Perché una delle sue più grandi paure, mi ricordo, era pensare che se fosse morto povero, forse non avrebbe avuto neppure una tomba.

Non è neanche mezzogiorno quando arriviamo all’albergo, perché tutte le mie lunghe peregrinazioni del mattino non sono durate che quattro ore.

Faccio salire l’armena in camera mia; i camerieri, poco abituati a vedere turisti in simili compagnie, la guardano, ma senza sfrontatezza, talmente onesta e dignitosa è la sua figura nel vestito da lutto.

Dopo aver tirato fuori dalla tasca dei grossi occhiali, si siede a una scrivania, per prendere nota di tutte le istruzioni che le lascerò per la tomba…

Veniamo però interrotti dall’ebreo Salomone, introdotto da un cameriere. Viene a dirmi che ha fatto tutto il possibile per ritrovare Achmet, ma che nessuno se ne ricorda più.

Oh! Non ho dubbi che Achmet sia introvabile!… E da ieri, dall’ora in cui avevo mandato Salomone in cerca di notizie, quanta strada ho già percorso, nelle regioni delle tristi certezze, della quiete funerea. In quel momento, tutto era ancora incerto; ora, è come se una spessa pioggia di cenere sia caduta su tutte le cose che mi angosciavano solo il giorno innanzi…

In caratteri armeni, Anaktar-Chiraz ha finito di prendere nota delle mie disposizioni per la tomba.

E ora, che abbiamo terminato i nostri impegni assieme, non ci resta che dirci addio.

Si alza per andarsene, e mi guarda, con gli stessi buoni occhi di madre che le ho appena visto a Chichli. Mentre mi ringrazia per quello che ho fatto per il povero ragazzo morto, delle grosse lacrime cominciano a scenderle sul viso, e per poco non cedo anch’io.

Poi, mi domanda il permesso di baciarmi, prima che se ne vada. Oh! Certo… E con tutto il cuore, per Achmet, le restituisco il bacio sulla sua guancia raggrinzita di povera vecchia.

Alle otto turche (all’incirca le tre del pomeriggio), mi reco all’appuntamento con Kadjdja.

Accanto al giaciglio con la coperta arancione, dove si agitano le sue povere orribili mani nere, la donna dall’aspetto losco che ho incontrato stamattina sta in piedi, da sola. Fenzilé-hanum non c’è. Me l’aspettavo. “È via,” dice la mezzana, “non si sa dove sia andata, né per quanto tempo…” Capisco subito, dalle sue risposte ostinatamente evasive, dalla sua espressione ferma e glaciale, che è inutile insistere; Fenzilé, che non vuole incontrarmi, l’avrà spaventata chissà con quali minacce, o l’avrà pagata affinché non parli…

Quando se ne va, dopo aver preteso il compenso per i suoi servizi, mi siedo su uno sgabello, al capezzale di Kadidja.

Inizia quindi per me l’ora più crudele di tutto il mio pellegrinaggio quaggiù, quella del castigo e dell’espiazione…

In un colloquio, interrotto da grida e silenzi, tento di scoprire qualcosa, e a malapena vi riesco. Strappare da quel cervello oscurato, che se ne va, che a volte si perde, a volte cade in un confuso delirio, strappare da incoerenti frasi spezzettate cose che mi gelano e mi struggono. Venire continuamente frenato dalla pietà di vederla così affaticata, dal rimorso di averla forse condannata, obbligandola alla lunga corsa di questa mattina. Vedere aumentare tra lei e me ancora di più quel velo oscuro dalle difficoltà di una lingua che entrambi non possediamo al meglio. E dirmi, eppure, che devo approfittare a ogni costo di questo momento unico, perché domani devo partire e perché presto lei morirà; lei, che è l’unico legame ancora quasi vivente tra me e la mia piccola amata; quando l’avranno seppellita, ogni filo sarà tagliato per sempre; e ciò che oggi non riuscirò a estrarre da questa memoria, ormai per metà svanita, sarà per sempre perduto…

Riguardo alla data, Kadjdja è d’accordo con la sorella di Achmet: è andata proprio così, Aziyadé è morta sette anni fa, in primavera… Quanto alle cause della morte… restano come sottintese fra noi due; con un delicatezza che non m’aspettavo, esita a dirmele; e m’interrompe, con uno sguardo di meraviglia e rimprovero, quando sembro insistere un po’ di più per domandargliele. Malgrado l’alternanza ad attimi di puerilità senili, ha conservato alcuni aspetti di sorprendente intelligenza, e il suo cuore di povera vecchia schiava non ha smarrito la sua profonda bontà. Suscita in me un rispetto crescente – e soprattutto di pietà, la pietà per quella fatica mortale che le procuro…

“E così, buona Kadjdja, mi dici che ha sperato per più di un anno?” Che avrà sperato, la povera piccola? Un illusorio ritorno, forse un rapimento; una di quelle avventure pericolose, che potrei in realtà tentare oggi grazie al denaro e all’indipendenza, ma che allora mi erano praticamente impossibili!

Solo alla fine di quel periodo iniziò a sfiorire inesorabilmente, e a perdere i colori della sana giovinezza, e a curvare la testa, credendosi dimenticata, abbandonata per sempre.

“Ma le mie lettere allora, le mie lettere non le arrivavano più?…”

“Oh! Le tue lettere,” risponde Kadjdja, “gliele ho date… aspetta… gliele ho date fino alla sesta…”

“E perché non più le altre?”

“Le altre,” dice… “nel fuoco! Le ho buttate nel fuoco! Perché mi avevano cacciata e, capirai bene, che non potevo più portargliele, e avevo paura di conservarle…”

Dal modo in cui ha pronunciato “nel fuoco!” capisco bene che, in fin dei conti, considerava quelle lettere come misere malefiche menzogne, cagione indiretta di dolore.

Quanto alle lettere di Aziyadé, Kadidja è certa di avermene spedite quattro, ma non una di più. Ed è proprio come credevo: le prime quattro, quelle che le assomigliavano, quelle in cui ritrovavo i suoi cari pensieri, adorabili, col loro strano stile da fanciulla selvaggia. Le successive, allora, quelle lettere comuni, banali o improbabili come le ultime di Achmet, da chi mi arrivavano? Quale mano inquietante me le aveva scritte, e a che scopo? Questo resterà per sempre un mistero, e del resto che importa, visto che ora tutto è finito…

Sono state proprio le nostre imprudenze degli ultimi giorni ad aver all’improvviso aperto gli occhi al vecchio Abeddin sul nostro lungo intrigo nascosto – e poi sono arrivate le spiate delle altre donne dell’harem, interrogate e fatte parlare con promesse o minacce.

Eppure Aziyadé non venne affatto cacciata di casa dal suo padrone, né maltrattata; fu solo isolata, come un oggetto impuro, relegata e murata nel silenzio del suo appartamento, dove non entravano più che serve ostili. Entro un anno, anche Kadjdja si vide sbarrata la porta di quella stanza buia, perché sospettata di essere in contatto con lo scrivano pubblico e la posta francese di Pera. Solo allora, con la fine di ogni speranza, cominciò veramente la sua lenta agonia.

Io non credo che una creatura così giovane, e dal sangue così puro, che nulla aveva contaminato, possa morire soltanto di disperazione, se la si lascia al sole, all’aria, alla libertà… Ma là, rinchiusa e abbandonata!…

“Sai,” dice Kadjdja, “la sua camera si affacciava dalla parte della Stella del Nord, ed era molto fredda.”

Sì, ricordo quelle finestre dalle grosse inferriate, situate in un’ala della casa dove non batteva mai il sole; le guardavo furtivamente, passando in quella via carica di mistero, dove solo i raggi rossi e freddi del tramonto arrivavano, e molto tardi. E mi figuro esattamente in cosa doveva essersi trasformato quell’appartamento, ora annientato dal fuoco, dove la morte, a piccoli passi, venne a cercarla…

Kadidja continua: “L’inverno, sempre rinchiusa là dentro, si era ammalata, per il freddo di quella stanza… Allora, le altre donne le diedero delle cure… Oh! Vedi, Loti, è soprattutto questo che volevo dirti: le davano dei rimedi… di cui proprio non mi fidavo!…”

Mio Dio, dov’ero, mentre accadeva tutto ciò in quell’harem oscuro?… Si sarebbe salvata così facilmente, con un po’ di gioia e di sole, strappandola di là!… In quale angolo del mondo stavo correndo, non potendo nulla, non sapendo niente, mentre l’anima della mia piccola amata cadeva nello sconforto e il suo corpo adorato lentamente moriva… fino a quella sera di maggio, quando, “quasi di nascosto, l’hanno portata via…”

Chiedo ancora qualche dettaglio, che mi viene fornito con grande pena, con gemiti da bambino o grida – perché lei è sempre più vaneggiante, sempre più spossata. E sono spossato anch’io, per le cose terribilmente dolorose che sento, e per la fatica che mi occorre per estrarle, a una a una, dalla mente di quella povera vecchia deformata, quasi morta ormai.

Esito tra la paura di interrogarla ancora e il desiderio di sapere qualcosa d’altro; sono sempre sul punto di interrompermi – ma poi rimango, mi sovviene che questo è l’ultimo incontro; l’ultima volta che parlerò di lei con un essere ancora un poco vivente…

Via! D’altronde credo che questa tortura sia durata abbastanza – e pure la mia; del resto, so praticamente tutto ciò che volevo sapere. me ne vado…

“Adesso è tardi, tornerai a Pera, non è vero?” mi chiede, con voce dolce e suadente, ridiventata d’un tratto la negra dalle astuzie infantili, e impaziente che tutto finisca, che io la lasci in pace.

Le do alcuni luigi d’oro, che l’abbagliano, e le assicurano un poco di tranquillità per la fine dei suoi giorni contati. Poi l’ultimo saluto, andandomene con il suo perdono e una tenera benedizione.

Presto morirà, è certo; i suoi occhi, i soli che dopo i miei, avevano guardato Aziyadé con tenerezza, si spegneranno e si decomporranno; l’immagine di Aziyadé, che rimaneva ancora nella sua testa moribonda, presto non esisterà più…

Quando moriamo, non è che il principio di una serie di altri annientamenti parziali, che ci sprofondano sempre di più in un’assoluta notte nera. Muoiono così quelli che ci amavano; tutte le menti umane, nelle quali la nostra immagine s’era in parte conservata, si disgregano e tornano alla polvere; tutto ciò che ci era appartenuto si disperde e si sbriciola; i nostri volti, che nessuno più conosce, sbiadiscono; – e il nostro nome si perde; – e la nostra generazione finisce di passare…

Me ne vado lentamente, per la viuzza cadente e deserta.

Fatto qualche passo, riprendo il mio cavallo, che un bambino faceva passeggiare in cerchio in una piazza solitaria.

È troppo tardi per tornare a visitare la sua tomba; vi passerò la mattinata di domani…

E comincio, una volta di più, a vagare senza meta, fino alla notte…

D’un tratto, al tramonto, mi ritrovo sulla grande piazza di Mehmed-Fatih, giuntovi a caso.

In quel momento mi torna in mente una frase del mio diario di una volta, che si è impressa così singolarmente nella mia memoria e dentro di me si è a poco a poco legata a questo quartiere santo, come se ne fosse l’immagine stessa:

“La moschea del sultano Mehmed-Fatih ci vede spesso seduti, io e Achmet, davanti ai suoi grandi portici di pietra grigia, stesi entrambi al sole, senza pensiero per la vita, inseguendo qualche sogno intraducibile in alcuna lingua umana(19)…”

Nulla è cambiato in questa piazza; è rimasta uno dei luoghi più turchi e più malinconici di Stambul. La moschea vi si innalza, indefinitamente uguale attraverso i secoli, con le sue alte porte grigie, adorne di disegni misteriosi. Attorno, sotto i pergolati ingialliti dei piccoli caffè, stanno seduti gli stessi vecchi caffettani di cachemire, gli stessi vecchi turbanti bianchi, nel chiarore morente di questa sera d’autunno, fumando i narghilè mentre discorrono di cose sante.

Allora mi fermo in mezzo a loro, nello stesso punto in cui, dieci anni prima, una sera, avevo visto apparire sui gradini della moschea un illuminato che levava gli occhi e le braccia al cielo, gridando: “Vedo Dio, vedo l’Eterno!” Achmet aveva scosso la testa, incredulo, dicendo: “Qual è l’uomo, Loti, che potrà mai vedere Allah!…”

In realtà non so perché questa sosta, su questa piazza, mi sia rimasta impressa così profondamente; né perché senta il bisogno di fissarla qui, per impedirle d’andarsene troppo in fretta, nella fuga di tutte le cose – come si tratterrebbe nelle mani, per un istante, un fragile oggetto fluttuante, trasportato dalla corrente…

 

V

 

Sabato, 8 ottobre 188…

 

È il mattino dell’ultimo giorno. Una spessa bruma grigia è scesa su Costantinopoli, che richiama gli autunni del Nord.

Come ieri, ho indossato di nuovo la mia veste turca, per somigliare di più a ciò che ero una volta, per distinguermi meglio, in quella terra di morti dove mi reco, per non so quali incerti richiami delle anime che devono guardare da sotto le tombe. E da solo, stavolta, cavalco lungo le enormi mura di Stambul, infinitamente solo sotto questo cielo basso e cupo, solo, per quanto possa scorgere in mezzo a queste lande e questi boschi funebri.

Le mura si prolungano man mano che avanzo, si svolgono, sempre uguali sin in fondo alle campagne abbandonate. Hanno l’aria di sostenere, con le loro migliaia di merlature, le basse nubi, pronte a strisciare sulla terra. Sono d’un grigio colore sinistro, in questa mattina privata del sole. Colossali reliquie del passato, ci riducono e ci schiacciano, noi e le nostre transitorie esistenze, i nostri dolori fugaci, e tutto il nulla vacillante che siamo.

Guardo di sfuggita le profonde porte ogivali per le quali nessuno entra o esce; poi, conto con attenzione le enormi torri quadrate, finché non m’appare quella sorta di tumulo che mi è stato indicato ieri, e sul quale, in mezzo alle altre tombe, c’è il piccolo cippo turchese dalle iscrizioni dorate.

E quando sono certo d’averla riconosciuta, la piccola lapide di Aziyadé, lego il mio cavallo ai rami di un cipresso, per avvicinarmi da solo e inchinarmi sulla terra – sulla terra rossiccia leggermente intrisa di pioggia, dove spuntano rade ed esili pianticelle. Dall’orientazione della lapide riconosco la posizione dell’adorato corpo che giace là sotto, e, dopo essermi ben accertato che nessuno nei dintorni possa vedermi, mi stendo dolcemente a baciare quella terra, nel punto dove deve essere il suo viso defunto.

Era da anni che ne avevo avuto il presentimento, per così dire la visione in anticipo di tutto ciò che faccio in questo mattino: sotto un cielo basso e cupo, proprio come questo, m’ero visto, tornato, in quest’abito d’un tempo, stendermi sulla sua tomba e baciare quella terra… Ed è oggi, è adesso, quest’ultimo bacio – ed ecco che non mi sembra più reale; anche qui mi lascio distrarre da non so che cosa, forse dall’immensità del paesaggio funebre, da tutta la suggestione di questa desolazione che, ai miei occhi irresponsabili, circonda e accresce lo scenario della mia visita a questa tomba.

Comunque, via via che passano i minuti, paurosamente silenziosi, e mentre le pesanti nuvole continuano a trascinarsi sopra le grandi mura turche, riprendo a poco a poco il controllo delle cose; soffro più semplicemente, comprendo in maniera più umana, e più dolorosa, torno a rabbrividire, a rabbrividire d’infinita tristezza…

Passa ancora qualche momento; s’alza un vento leggero, seminando su questa contrada di morti gocce di pioggia battente.

Il nostro lungo incontro attraversa momenti distinti, che sembrano sempre più riavvicinarci. Ora ho proprio l’impressione che i nostri corpi siano di nuovo quasi riuniti – dopo esser stati tanto separati, dagli anni, dalla distanza, dalle corse per il mondo e dall’indecifrabile mistero che avvolgeva per me il suo destino; sento che siamo qui, a due passi l’uno dall’altra, separati soltanto da quel poco di terra in cui l’hanno sepolta senza una bara. E amo teneramente queste reliquie, che in questo momento mi appaiono il tutto; vorrei vederle, toccarle, portarle via con me: per me, nulla di ciò che è stato Aziyadé potrebbe essere fonte di paura o di orrore…

Le nubi grigie trascinano sempre le loro frange, più cupe, che passando, lasciano cadere gocce di pioggia sulla campagna incolore e sulle mura immense…

L’immagine d’Aziyadé è ora quasi viva dinnanzi a me, richiamata senza dubbio dalla vicinanza dei suoi resti, al di sopra dei quali dev’essere rimasta, aleggiante, una sorta della sua essenza… Oh! Ma viva, all’improvviso, così viva come mai l’avevo sentita dopo la sera della separazione. Rivedo, come non mai, il suo sorriso, il suo sguardo profondo fisso nel mio, il suo sguardo degli ultimi giorni; sento la sua voce, le sue piccole intonazioni familiari, inconfessate e spontanee; ritrovo tutta le sue intimità e le piccole cose inesprimibili che avevo amato con tenerezza infinita. E allora non esiste più nient’altro, né lo sfondo grandioso, né lo strano paesaggio; non esiste più nient’altro che lei, e tutte le mie mutevoli impressioni s’attenuano, si fondono in un qualcosa d’infinita dolcezza – e piango a dirotto, proprio come avevo voluto piangere…

Da quel momento, ho la dolce illusione che lei sappia che sono tornato, e che abbia capito… Provo la sensazione intima, inesplicabile, ma reale, di un’anima inalterata e presente. L’amarezza e i rimorsi che si fondevano col suo ricordo sono senz’altro svaniti per sempre.

Mi rialzo pacificato, con una tristezza differente. D’un tratto, anche il suo destino mi appare meno tragico; lei se ne è andata, nel pieno della giovinezza, dopo non aver avuto che un solo sogno d’amore – e il bacio che sono venuto a darle sulla tomba, certamente mai nessuno verrà a darlo alla mia.

Ai piedi del cippo di marmo, tra alcune pianticelle, scelgo una delle più fresche, che porto via con me; poi, ancora una volta, bacio il suo nome, inciso in rilievo sul marmo e dipinto in oro. E rimonto a cavallo, voltandomi da lontano, per rivederla, in mezzo alla sua solitudine, dove fuggono a perdita d’occhio le alte mura di Stambul…

VI

 

La sera, appoggiato alla poppa del piroscafo, guardo, come dieci anni fa, Costantinopoli che s’allontana. Poi scende il crepuscolo, come un grande velo gettato sopra ogni cosa, e, all’uscita dal Bosforo, nel Mar Nero, la notte ci avvolge completamente.

E tutto si quieta in me, si quieta sempre di più; tutto s’allontana, sprofonda in un passato più confuso…

 

VII

 

Gennaio 1892

 

 

Nella mia infanzia, ricordo d’aver letto la storia di un fantasma che veniva timidamente la sera a chiamare con la mano i vivi. Ritornò a farlo per anni, finché, quando finalmente qualcuno osò seguirlo, si capì cosa domandava e lo si accontentò.

Ebbene! Quel sogno angosciante che per tanti anni mi aveva perseguitato, quel sogno di un ritorno a Costantinopoli sempre impedito e mai realizzato, quel sogno non è più ricomparso da quando ho compiuto questo pellegrinaggio. Quanto all’Oriente, di lui tutto si è quietato, persino nei miei ricordi, con gli anni che hanno continuato a scorrere…

Quel sogno era senza dubbio il richiamo del mio piccolo adorato fantasma di laggiù, al quale ho risposto e che non si rinnoverà più.

FINE

Note

 

  1. La data va collocata intorno al 20 settembre 1887, circa due settimane prima del pellegrinaggio che Loti compì a Istanbul alla ricerca delle tracce di Aziyadé, perdute otto anni prima.
  2. La Costantinopoli ottocentesca, come l’attuale Istanbul, dal punto di vista urbanistico era un agglomerato di tre grandi centri: Stambul (la città interna alle antiche mura bizantine erette dall’imperatore Teodosio ii a partire dal 413), Pera (l’antica colonia genovese di Galata, sulla sponda settentrionale del Corno d’Oro), Scutari d’Asia (oggi Üsküdar), sulla riva asiatica del Bosforo.
  3. Il vero nome di Aziyadé era Hatidjè (Hatice, in turco moderno). Un nome comune nel mondo islamico, giacché era anche il nome della prima moglie di Maometto.
  4. L’attuale Eyüp (Eyoub nel testo originale, Eyub nella grafia italiana coeva). Per quanto riguarda tutti gli altri nomi turchi e arabi, sia di luoghi sia di personaggi, si è mantenuta la grafia dell’autore (con l’eccezione, oltre alla citata Eyoup, di Stambul, nell’originale francese “Stamboul”).
  5. Nella Bibbia Azrail o Azazel (Levitico, xvi, 8, 10: “Il capro su cui è caduta la sorte ‘per Azazel’ lo porrà vivo alla presenza del Signore, per fare su di esso il rito espiatorio”, 26); in arabo ‘Azāzīl, uno dei quattro arcangeli dell’Islam, ovvero l’Angelo della Morte (non nominato nel Corano), in origine un djinn, cioè un demone abitante il deserto. Da non confondere con Israfil (in arabo Isrāfīl), l’arcangelo che secondo il Corano annuncerà con la sua tromba la fine del mondo e la resurrezione degli uomini per il giudizio universale.
  6. Prima di recarsi a Costantinopoli, Loti soggiornò realmente per una settimana nella residenza estiva della regina Elisabetta di Romania (1843-1916), nei pressi di Sinaia.
  7. Tradizionale copricapo egiziano di colore rosso, con un fiocco al centro della calotta, molto simile al fez ottomano.
  8. Corta sciabola turca, con lama a un solo taglio ricurva verso la punta (yatağan in turco moderno).
  9. Loti si riferisce a sua madre, Nadine Viaud, e a sua zia, Clarisse Texier, che avevano all’epoca 77 e 74 anni.
  10. Lapsus di Loti per martedì 4 ottobre 1887. Le date successive sono invece esatte.
  11. L’odierna Hasköy, sulla sponda settentrionale del Corno d’Oro.
  12. In Turchia Loti aveva assunto i nomi di Ali Nyssim (come scrive nel suo diario) e di Arif Ussam (in Aziyadé). Hassan è un probabile riferimento al protagonista di una poesia di Alfred de Musset (Namouna, strofa xi del primo canto), risalente al 1832, che descrive il “bel Hassan”, francese travestito da turco perennemente diviso tra l’aspirazione all’amore assoluto e i facili piaceri.
  13. Le Acque Dolci d’Europa: così sono chiamati i due piccoli fiumi, il Kağithane Suyu e l’Ali Bey Suyu, che sfociano all’estremità occidentale del Corno d’Oro.
  14. Errore di Loti: era in realtà il 1297, anno dell’egira che cominciò il 15 dicembre 1879.
  15. Voluta da Solimano in onore del padre Selim, fu terminata nel 1522. Si affaccia sul Corno d’Oro, nei pressi del quartiere del Fanar (oggi Fener).
  16. Il castello delle Sette Torri (Yedikule) si trova all’estremità meridionale di Stambul. Ha avuto origine dalla Porta Dorata della cinta delle mura teodosiane, e in epoca ottomana fu adibito ad arsenale e poi prigione. Esiste tuttora, trasformato in museo.
  17. Letteralmente “cavaliere”, più spesso guardia del corpo di un nobile o al servizio presso ambasciate e consolati.
  18. Hanum, in turco “signora”, “sposa”.
  19. Il quartiere di Şişli si trova molto a nord di Istanbul, oltre l’attuale Taksim.
  20. Loti si riferisce al suo precedente romanzo, Aziyadé (inizio del capitolo xix della terza parte, “Eyoub à deux”).