Durante le rivoluzioni liberali del 1848, quando si affaccia la prima grande crisi economica di sovraproduzione della società industriale, mai immaginata dal pensiero liberale, in Germania viene pubblicato il programma della Lega dei comunisti, un breve testo destinato a diventare famoso: “Il manifesto del partito comunista”, scritto da Karl Marx e Friedrich Engels. Si apre con queste parole: “Uno spettro si aggira per l’Europa: lo spettro del comunismo. Tutte le potenze della vecchia Europa si sono coalizzate in una sacra caccia alle streghe contro questo spettro: il papa e lo zar, Metternich e Guizot, radicali francesi e poliziotti tedeschi. […] È ormai tempo che i comunisti espongano apertamente in faccia a tutto il mondo il loro modo di vedere, i loro fini, le loro tendenze, e che contrappongano alla favola dello spettro del comunismo un manifesto del partito stesso”.
Gli strumenti di analisi, dalle società antiche al sistema capitalistico, sono sostanzialmente due: la storia e la teoria economica. Secondo Marx, la storia della società è la storia di lotte di classe tra le classi lavoratrici e la classe borghese o capitalista. Il conflitto è dunque il motore principale non solo della storia, ma anche del cambiamento economico-sociale. Il capitalismo creava inevitabilmente disuguaglianze economiche e sociali tra i lavoratori (che producono ricchezza) e i capitalisti che possiedono i mezzi di produzione. Un conflitto e inevitabile: i lavoratori cercano di migliorare le proprie condizioni di vita mentre i capitalisti cercano di massimizzare i profitti.
A guidare la rivoluzione sociale sono chiamati i proletari, cioè la classe operaia che in Europa c’è soltanto in poche realtà disposte a macchie di leopardo, salvo l’Inghilterra che ha iniziato dal secolo precedente la prima rivoluzione industriale della lana, del carbone e dei trasporti (nelle filande di Manchester negli anni Quaranta dell’800, la vita media di un lavoratore era di 35-37 anni). Occorrerà attendere quella del ferro, dell’acciaio, solo dopo un’altra grande crisi economica: la depressione del 1873. Nel frattempo, Marx scrive: “Con le rivoluzioni borghesi, invece, nelle società evolute si è affermato il modo di produzione capitalistico, in cui gli uomini sono tutti uguali davanti alla legge. Pur tuttavia i proletari sono costretti a lavorare per i proprietari dei mezzi di produzione a causa di una dipendenza che è tutta economica. Infatti, la concentrazione della proprietà dei mezzi di produzione e dei mezzi di sussistenza dei lavoratori nelle mani di alcuni, costringe chi non ha niente a dover vendere le sue prestazioni lavorative per poter sopravvivere e mantenere la famiglia”. Esce “Il Capitale. Critica dell’economia politica”, pubblicato in parti dal 1867 al 1894, dove espone la teoria del valore-lavoro.
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“Il plusvalore che il capitale anticipato C ha generato nel processo di produzione, ossia la valorizzazione del valore del capitale anticipato C, appare dapprima quale eccedenza del valore del prodotto sulla somma dei valori degli elementi della sua produzione”. Il periodo iniziale del Paragrafo primo (intitolato Il grado di sfruttamento della forza lavorativa) del Capitolo settimo del Libro primo del Capitale di Karl Marx pone le basi dell’analisi quantitativa e qualitativa innovativa dello sfruttamento dell’operaio, o meglio dello sfruttamento della “forza-lavoro”. Il valore aggiunto dell’analisi marxista consiste essenzialmente in un’analisi di tipo collettivo e quantitativo, che prescinde da individualismi e mira ad una “redistribuzione” equitativa, ben fondata da un punto di vista del “bene comune”, in accordo con un approccio di tipo, per così dire, “asettico”. La mistificazione liberaleggiante, che nega lo sfruttamento del soggetto che eroga la forza-lavoro da parte del capitalista, aderisce ad una consolante, per così dire, convenzionalità ascientifica. La “lotta di classe” mira (mirerebbe, visto che è di fatto tramontata) a porre fine allo sfruttamento, o almeno a mitigarlo. Ma che dire dello sfruttamento e soprattutto della sua quantificazione? Il riferimento di Marx allo sfruttamento avviene in maniera mirata, visto che si parla di sfruttamento nel momento in cui il tempo lavorativo di un individuo si “materializza”, direttamente o indirettamente, in beni che lui non può consumare. Insomma, il lavoratore è pagato a livello di sussistenza (oggi diremmo: viene pagato “il meno possibile”, constatazione difficilmente controvertibile) e, per contro, è costretto ad impiegare una consistente porzione del suo tempo per lavorare “a gratis”. Marx, peraltro, fornisce un’espressione quantitativa dello sfruttamento, ed introduce il concetto di “grado di sfruttamento”, inteso come il “tasso dell’eccedenza di lavoro”, nel senso di cui sopra, rappresentato quindi dal rapporto “(surplus di lavoro) / (lavoro necessario)”, espresso equivalentemente dal rapporto “s/v”, dove s rappresenta il “valore di surplus” e v il “capitale variabile”. E Marx lo afferma esplicitamente: “Il tasso del valore di surplus è perciò l’espressione esatta del grado di sfruttamento della forza-lavoro operato dal capitale, o del capitalista ai danni del lavoratore.” La teoria del valore e del plusvalore è il fondamento dell’intera teoria marxiana, in tutti i suoi risvolti. Dopo la Grande guerra, negli anni dove stanno nascendo in Europa Fascismo e Nazismo, il marxismo rimane nelle mani dell’Unione Sovietica dopo la Rivoluzione russa, guidato da un partito-stato burocratizzato e da una falsa coscienza di liberazione dello sfruttamento. Soltanto nel Secondo Dopoguerra, in un mondo completamente cambiato, nel decennio 60-70 dopo un Boom economico ottenuto con bassi salari e l’abbandono dell’economia rurale, si riaffaccia la lotta di classe. Ma già dai primi decenni degli anni Settanta si assiste, da parte dei partiti di sinistra, alla rimozione ideologica della contrapposizione “capitale-lavoro”, che rappresenta la motivazione autentica della lotta di classe, per far posto alla “pace sociale”, pilotata, in generale, dalla politica in nome dell’interesse superiore rappresentato da un non meglio determinato “interesse nazionale” o da una necessaria “pace sociale”. Senonché detto interesse superiore è, ovviamente, sempre quello del capitale. A questo punto verrebbero in mente svariate considerazioni, riferibili, essenzialmente ed innanzitutto, al fraintendimento sostanziale del “Socialismo” operato dal cosiddetto “Partito Socialista” di craxiana memoria (vedi “privatizzazioni”, quale esempio, oppure l’abolizione della Scala Mobile a tutela dell’inflazione sui salari). Alla fine, però, pensando ai nostri giorni, alla “dolorosa” contemporaneità, viene da chiedersi cosa abbia nuociuto e nuoccia di più alla “tutela dei diritti dei lavoratori” (perché “lotta di classe” significa solamente “tutela operosa dei diritti”, nonostante i connotati negativi che maliziosamente vengono attribuiti a tale locuzione). Sgombriamo, prima di tutto, il campo da fraintendimenti: i lavoratori esistono, e se non vogliono essere chiamati in questo modo, la realtà delle cose (vale a dire dei “rapporti economici”) non cambia. La “realtà”, infatti, è quella dei rapporti economici e solo quella, in quanto soltanto tali rapporti possono essere (o potrebbero essere) regolati. Questo ci insegna Karl Marx, è questo il suo contributo essenziale. La risposta dolente a questo quesito esiziale emerge fatale: “La tutela dei diritti individuali” (era il cuore del pensiero liberale classico). Infatti, la tutela dei diritti individuali, quindi trasversali, non riferibili alle classi sociali più deboli, rappresenta il terreno fertile più indicato per il capitalismo. Pensiamo, in maniera emblematica, alle battaglie radicali, quelli stessi radicali che sono stati (strano eh!) i primi ad attaccare il famoso articolo 18 dello statuto dei lavoratori conquistato nel 1972, l’ultima stagione della lotta di classe, l’ultima volta che è stata pronunciato il termine plus-valore.
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