Geografia del cibo nel West

 

L’etnocentrismo americano passa spesso attraverso il comportamento alimentare perché i pellerossa non conoscono l’uso della tavola, mangiano in piedi, a cavallo o seduti per terra con le gambe incrociate (per la verità anche i Greci e i Romani e per questo nessuno li ha mai rimproverati di scarsa civiltà) ma soprattutto è diverso il galateo.


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Così “La cucina italiana non esiste” (Mondadori, 2024), ultimo lavoro di demitizzazione di ogni tradizione reale o inventata che ha trasformato il professor Alberto Grandi in una specie di showman d’assalto per le sue efficaci provocazioni di natura aneddotica: “Il Parmigiano viene dal Wisconsin, la carbonara è un piatto americano, e anche la passata di pomodoro viene dall’America”, a rischio di emigrazione di ritorno direttamente da Ellis Island sono pure tortellini, spaghetti e tagliatelle… Già perché 6 milioni di italiani, in meno di un secolo, hanno varcato l’oceano sbarcando all’ombra della statua della libertà. Solo dalla provincia di Bologna-Balanzone in 130.000. Probabilmente quegli stessi emigranti difficilmente hanno imparato a cucinare dagli Apaches o da inglesi, irlandesi, francesi, tedeschi, cioè i primi coloni del West e nemmeno erano dei pistoleri.

Nel 1903 la frontiera americana era ormai ufficialmente chiusa e forse non fu una semplice coincidenza se l’industria cinematografica – allora nel suo primo decennio di vita – trovò nell’epopea del vecchio Ovest una miniera inesauribile di leggende da portare sullo schermo. In quell’anno, la Biograph girò le prime immagini di un uomo a cavallo, un cow boy. Qualche mese dopo, con L’assalto al treno (1903) di E. S. Porter, nacque il genere western e con lui l’alimentazione del cow boy fondata su cinque alimenti destinati a diventare fissi e quasi immutabili: il caffè, i fagioli, la carne, il pane abbrustolito o biscotto (sourdough) e il famoso stufato di vitello (detto anche son of a bitch stew). Ma il caffè – mille film ce l’hanno insegnato – è il solo che sia offerto con generosità, sempre bollente e a litri, come veicolo di una convivialità ancora acerba e fredda. La sua ricetta è comunque arcinota a tutti: una libbra di polvere in poca acqua fatta bollire per almeno mezz’ora. Il test: se ci si butta dentro un ferro di cavallo e questo non sta a galla, va aggiunto altro caffè. Niente di strano se qualcuno lo vuole “forte come una revolverata” o gli “sembra un ferro rovente” (Vento di terre lontane, 1956, D. Daves) poiché lo si assapora in un tempo abbastanza lungo (contrariamente al whisky che va gettato giù tutto d’un fiato), in uno spazio solitamente circolare dove i protagonisti sono disposti attorno al fuoco, quasi a delineare un improvvisato albore di società. L’eroe del west trae dal caffè conforto alla sua perenne solitudine: “C’è chi ha la febbre dell’oro e dell’argento, altri vogliono terra con greggi e armenti, altri hanno un debole per whisky e donne, però gratta gratta di che cosa ha bisogno un uomo? Di una fumata e di una tazza di caffè” (Johnny Guitar, 1954, N. Ray). Protagonista assoluto del riposo dell’eroe, trova la sua icona nell’accampamento durante il viaggio, quando, a partire dagli anni Venti con Pionieri (1923) di J. Cruze, Il cavallo d’acciaio (1924) di J. Ford o Il grande sentiero (1930) di R. Walsh, la struttura del western si delinea “a percorso” e la scena del bivacco è ormai parte di un rituale simbolico inscritto, a tutti gli effetti, nel genere. Un cowboy smonta da cavallo, si avvicina furtivo a un fuoco da campo e intima, con la pistola spianata, di alzare le mani a un minatore: “C’è del caffè bollente, ne vuoi un po’?” è la tranquilla risposta che riceve. Inizia così Lo sperone nudo (1953) di A. Mann, dove il lungo viaggio è costellato da interruzioni caratterizzate dal tema del bivacco: se ne contano ben sei, quattro dove il caffè bolle sul fuoco e almeno un paio dove piatti e stoviglie di metallo vengono lavati in riva a un fiume. Il caffè, più di ogni altra cosa, sembra capace di ritemprare assorbendo magicamente la fatica del cammino tra rocce e deserto, collina o foresta. Attorno al fuoco si svolge quel rito capace di introdurci dentro la profondità delle terre del west: il pericolo della notte incombente – forse un attacco indiano o il sopraggiungere degli inseguitori – rafforza le ragioni etiche della missione o dell’impresa, qui l’amicizia o il tradimento si annunciano come legami indissolubili e, se si scambiano anche solo poche parole con una donna, sono comunque feconde di promesse. Infatti, il genere più classico del cinema americano, si costituisce proprio attraverso le categorie del paesaggio: nella dimensione orizzontale tra terra e fiume o tra pianura e deserto, in quella verticale tra cielo stellato e bivacco, tra montagna e canyon.

Geograficamente il Nord rappresenta la caccia e la solitudine del primo cacciatore, il trapper che vende pellicce e mangia quello che caccia o pesca (anche se integrato dal lardo e dai fagioli), l’Est è la tappa delle carovane del pioniere contadino che presto mangerà cereali, frutta e pollame e dovrà vedersela con gli allevatori di bestiame (bovini e cavalli) per il possesso dei pascoli e dell’acqua; la sua dieta si arricchirà, alla fine del viaggio, di bistecche, stufati e torte di mele. A Ovest, nel luogo selvaggio della ricerca dell’oro, esiste un regime alimentare più povero, fatto di caffè, carne secca e whisky. Essere uomini del west significa essere impassibili, silenziosi, impenetrabili come una roccia e inesplicabili come il deserto perché l’anima e il cuore (impersonati di volta in volta da Wayne, Fonda, Cooper, Stewart) sono alla ricerca di un fragile equilibrio tra natura e individuo. Si tratta di embrioni di vita organizzata e di socialità in un mondo senza leggi, in uno spazio immenso segnato dal destino ma dove può ancora trovare posto una canzone dedicata al whisky (Il grande cielo, 1952, H. Hawks). L’odio o una profonda rivalità possono però desacralizzare questo luogo, come accade quando Kirk Douglas e Rock Hudson si prendono a pugni rotolando tra le fiamme del fuoco come in L’occhio caldo del cielo (1961) di R. Aldrich; la provocazione era stata suggerita da una metafora alimentare: “Tua sorella era come una di quelle bibite offerte dalla ditta… nessuno è mai tornato a casa assetato”. Spesso, proprio durante il bivacco, la conversazione include riferimenti diretti al cibo e a chi lo ha preparato: “Solo una donna sa badare ai tegami” (Lo sperone nudo, 1953, di A. Mann) ma anche “Glielo dico sempre, Caterina non lo sposa mica perché lo ama, ma perché sa cucinare bene” (Sfida infernale, 1946, di J. Ford).

La lunga marcia verso Ovest, a partire dalle originarie tredici colonie, comportò, dalla fine del ‘700, complice anche la Guerra di Indipendenza, la pressoché totale sostituzione del the inglese col caffè. Come è noto, il cibo dei pionieri era quasi esclusivamente secco: la carne essiccata, il lardo e il manzo si diffusero grazie agli indiani, che insegnarono ai visi pallidi le tecniche per affumicare la carne a partire da quella del bisonte (come viene mostrato in L’ultima caccia, 1956, di R. Brooks). Benché il farne uso per un lungo periodo comportasse delle controindicazioni sanitarie: “Hai crampi? Dissenteria? Ti verrà, con la carne salata che ti danno…” (dialogo tra prigionieri sudisti in Rio Lobo (1970) di H. Hawks). Lo stesso per i fagioli che giunsero da sud-ovest (forse addirittura dai temibili Apaches) cioè dalla frontiera messicana. “Hai mai viaggiato all’aria aperta? Carne secca e fagioli. Una padella e una caffettiera: tutte le comodità di casa”, così John Wayne ne I comancheros (1961) di M. Curtiz. L’arrivo delle carovane dei pionieri, che durante il viaggio si erano cibati quasi esclusivamente di biscotto (una vera e propria ossessione per James Stewart, il capo della carovana che li cita sette volte in un minuto in Là dove scende il fiume (1952) di A. Mann), nelle terre che li farà agricoltori, darà inizio a un nuovo regime alimentare (cereali, ortaggi e frutta). Anche se di fronte avranno indiani minacciosi a difesa delle valli in cui pascolano i bisonti. Una specie di lotta di classe alimentare tra agricoltori e cacciatori che esemplarmente, durante l’Ottocento, ripropone quel cronotopo all’origine della storia, di natura e civiltà. Infatti, nella saga del west è presente quel conflitto, ben noto in Europa almeno fino al ‘500, tra la cucina delle terre coltivate opposta a quella della carne e del latte. La prima didascalia de I pionieri (1923) di J. Cruze recita: “Il sangue dell’America è il sangue dei pionieri: sangue di uomini e di donne dal cuore di leone che hanno costruito una magnifica civiltà in zone selvagge e sconosciute”, ma sarà John Ford a vedere più lontano di altri e a mostrarci come sia stata la ferrovia (dall’Atlantico al Pacifico) a eliminare definitivamente l’alimentazione dei cacciatori e dei raccoglitori e nello stesso tempo a mettere pace – integrandoli – tra agricoltori e allevatori. La rapida colonizzazione del west ebbe inizio anni prima che la ferrovia transcontinentale fosse costruita, le migrazioni avvenivano dal Missouri lungo due vie: la pista dell’Oregon che portò a cercare l’oro sulle Montagne Rocciose, e la pista di Santa Fe (aperta fin dal 1821) lungo la quale viaggiavano i commercianti di pellicce, quelli che lavoravano alla ferrovia lungo il south west. Così queste due vie segnarono anche due stili di cucina perché dalla pista dell’Oregon abbiamo ereditato il gusto dei fagioli cotti a fuoco lento, le salse cotte in casseruola, gli stufati dal gusto deciso, le gallette e i pani cotti sul fuoco, mentre dalla pista di Santa Fe giungono le tortillas di mais messicane, la carne essiccata, i chili. Dall’Oregon i pionieri potevano disporre di pane biscottato o gallette, maiale al sale, selvaggina, pesce di fiume. La cottura di ogni alimento avveniva nel forno olandese (Dutch-Oven) cioè in un recipiente di ferro con tre piedi dentati e un pesante coperchio flangiato. Si posizionavano le braci sotto e ai lati del recipiente creando un ambiente egualmente adatto alla cottura a secco e a quella in umido: si faceva il pane, bollire l’acqua, stufare e arrostire la carne, ribollire i fagioli. La prima carovana del West – testimoniano gli storici – lasciò Independence, Missouri, nel 1841 ma nei vent’anni che seguirono partirono oltre 300.000 pionieri. I Mormoni seguirono la pista dell’Oregon fino allo Utah, mentre i cercatori d’oro tra il 1849 e il 1850 si gettarono verso la California. I pionieri caricavano nei propri carri maiale sotto sale, farina, salerato (una specie di lievito per cuocere il pane sul fuoco), fagioli secchi, zucchero e caffè. Il piatto più popolare durante il viaggio era la galletta (o biscotto) con contorno di pancetta fritta. La verdura e la frutta erano selvatiche, ad esempio i piselli e le insalate che si trovavano nella prateria. Oltre che del forno olandese, i cow boy che trasferivano per settimane e mesi capi di bestiame da uno stato all’altro, potevano disporre del carro delle provviste: il chuckwagon, parola che nello slang indicava la parte più bassa della carcassa di manzo (chuck per l’appunto). Il termine diffusosi nei primi ranch, diventò poi sinonimo di cibo, cioè di qualsiasi cosa da mangiare. Il carro era stato ideato da Charles Goodnight, un allevatore di bestiame texano, che trasformò il veicolo militare per il trasporto delle vettovaglie in una vera e propria cucina con una serie di scomparti sistemati verticalmente nel retro, contenenti le provviste e gli attrezzi come fosse una credenza. Il cuoco era noto come Coosie o Cookie e fungeva anche da dottore, barbiere e becchino. Alcuni pensano che coosie derivi dallo spagnolo cosinero, altri dalla striscia di cuoio grezzo tesa sotto il carro delle provviste per il trasporto delle scorte che veniva variamente chiamata possum belly, caboose o coosie.

Appena entrato nel saloon Henry Fonda domanda: “Che diavolo si fa in questo paese?”, è la risposta del barman, a darci immediatamente l’idea di città, “non vi restano che cinque cose, giocare, bere, dormire, mangiare e litigare” in Alba fatale (1943) di W. A. Wellman. Infatti, la nascita e la scomparsa delle boomtowns dei pionieri segnarono il ritmo del formarsi della nazione americana in poco più di mezzo secolo; un tempo scandito da accelerazioni improvvise: la città-petrolio nasceva sulle ceneri della città-bestiame o della città-miniera, le stazioni della diligenza morivano con il crescere delle ferrovie, i fortini militari rimpiazzavano le fortificazioni abbandonate dai trafficanti di pellicce, gli accampamenti dei boscaioli scomparivano insieme alle foreste, le strade polverose e i sentieri naturali si aprivano alle future strade d’asfalto. Di conseguenza la città deserta, o la città morta, è un luogo tragico che porta in sé il segno di una maledizione, un luogo dove la natura si è ripresa ogni volto d’umanità ed è popolata solo da fantasmi, il contrappunto alla sconfitta dei valori del pioniere ben rappresentata dal pozzo perennemente asciutto, cioè dalla mancanza di acqua e di ogni genere di alimenti. Uno dei banditi di Cielo giallo (1948) di W. Wellman, fotografa la situazione con una sola battuta: “Non avrei mai creduto di fare anche questo: scambiare del buon whisky con dell’acqua”. Ma il tema è ripreso, ad esempio, in Vera Cruz (1953) di R. Aldrich, Sfida nella città morta (1958) di J. Sturges, Dove la terra scotta (1958) di A. Mann. La città è comunque la meta verso cui si sono sempre diretti tutti gli eroi del west: dal padre di famiglia all’uomo onesto, dal loser che intende rifarsi una vita al pistolero in cerca di avventura. È lì che nell’ordine si consumano i piaceri desiderati ed evocati lungo il viaggio: una bottiglia di whisky, un bagno, mangiare seduti a tavola, la compagnia delle donne. La diligenza arriva sempre davanti al saloon portando nuovi personaggi: donne in cerca di marito, giocatori d’azzardo, ballerine, uomini d’affari cioè trafficanti d’armi e di liquori. Se esiste già la stazione è il punto di incontro tra due mondi lontani che sono costretti a convivere: quello borghese delle regole e delle pianificazioni e quello antico e selvaggio dell’avventura, ben visibili in Mezzogiorno di fuoco (1952) di F. Zinnemann, in Quel treno per Yuma (1957) di D. Daves o in L’uomo che uccise Liberty Valance (1962) di J. Ford. In un locale attiguo al saloon, o in uno spazio posto al suo interno, ecco spuntare il ristorante. C’è un film di John Ford, (Sfida infernale, 1946) dove la città di Tombstone è vista come un fazzoletto di terra: la sedia a dondolo dello sceriffo Wyatt Earp (Henry Fonda) posta davanti al saloon, l’albergo ristorante Mansion Hotel dove Doc Holliday, Clementine Carter e Chihuahua vivono la loro esistenza filmica prima dello scontro finale all’O. K. Corral. Qui più che mai il cibo inganna l’attesa del duello finale permettendo ai personaggi di esistere e di raccontarsi. Al saloon si beve whisky e champagne, ma anche un bicchiere di menta, al ristorante c’è chi ordina “un piatto di focacce con moltissima marmellata, una bistecca al sangue, due grosse fette di lardo, una tazzona di caffè”, chi fa colazione con “due dozzine di uova al lardo” e in un’inquadratura spunta fuori un cuoco con tanto di cappello bianco in testa. Lo scandire del tempo sembra rappresentato da J. Ford con l’alternarsi delle bistecche masticate da Wyatt Earp, tanto che poco prima della sparatoria lo sceriffo è atteso a una prova ancor più difficile come tagliare un arrosto: “Vediamo un po’ sceriffo, se quando trincia la carne se la cava come quando balla…”. In precedenza, John Ford aveva descritto il percorso della diligenza di Ombre rosse (1939) dal paese di Tonto alla città di Lordsburg, come un passaggio da saloon a saloon: nel primo, la moglie incinta dell’ufficiale chiede una tazza di te, nell’ultimo si beve whisky prima dello scontro tra Ringo e i fratelli Plummer. Il corpo del racconto sta ovviamente nel viaggio intervallato da due soste, atte entrambe ad aumentare la tensione, nella prima, dopo un pranzo con fagioli e stufato (John Wayne ci intinge il pane), avremo il parto e la nascita della bambina; nella seconda si scatenerà l’attacco indiano solo in seguito al gesto quotidiano della preparazione del brodo (!!!) per la neonata. Nelle stazioni di posta chi sta in cucina è quasi sempre una donna, preferibilmente meticcia o un burlone in vena di scherzi che offre a tutti una torta di cui non ricorda la ricetta, e semmai la riempie di sale per il soldato nordista (L’oro della California (1958) di B. Boetticher). Il ristorante di città è un’organizzazione complessa che coinvolge più persone e si avvale di camerieri – come James Stewart in L’uomo che uccise Liberty Valance (1962) di J. Ford – anche quando il menù è quasi sempre lo stesso: bistecca e torta di mele e, non di rado, il cliente lamenta, – come fa James Stewart in Cavalcarono insieme (1961) di J. Ford -, “dì al cuoco che mi faccia una bistecca, ma ben fatta, non mezza cruda come quella di ieri sera”. Certo, esistono anche ristoranti distrutti dai quaranta pistoleri al servizio di Jessica Drummond alias Barbara Stanwyck (Quaranta pistole, 1957, S. Fuller) o particolari, con sala da gioco e saloon, dove si mangia solo in cucina, (Johnny Guitar ,1954, N. Ray) insolitamente tra i fornelli compaiono cuochi francesi, come Labadieù, definito “il miglior cuoco del mondo” ne Il grande cielo (1952) di H. Hawks, o cuochi cinesi (storicamente e filologicamente corretti, vista la massiccia emigrazione avvenuta a metà ‘800) nel ristorante di Là dove scende il fiume (1952) di A. Mann. Al posto di stufati e bistecche qualche volta c’è il tacchino arrosto (L’amante indiana, 1950, D. Daves, Tamburi lontani, 1951, R. Walsh) ma altre volte troviamo il coniglio. Tra un morso e un bacio Clark Gable chiede a Jane Russell: “Come hai fatto a dare il gusto di miele a questo coniglio?” “Questo – replica lei – non è né miele né zucchero: è donna”, in Gli Implacabili (1955) di R. Walsh. I dolci, prerogativa quasi esclusivamente femminile, vanno dalla torta di mele a quella di more o lamponi, anche se in Alba di gloria (1939) di J. Ford, il giovane Lincoln (Henry Fonda) non sa scegliere tra una torta di mele e una di pesche. Lo stereotipo dell’alimentazione scenica di focacce e muffin è costituito da una tovaglia a quadretti bianchi e rossi, la stessa che furoreggia in dozzine di film: Jess il bandito (1939) di H. King, Sentieri selvaggi (1956) di J. Ford, Vento di terre lontane (1956) di D. Daves, L’oro della California (1958) di B. Boetticher.

Nella trilogia che John Ford ha dedicato alla cavalleria americana occupa lo spazio simbolico dell’opposizione paradigmatica tra deserto e giardino, tra cactus e rosa, cioè quando la dimensione itinerante del selvaggio west si confronta con la civiltà e con chi la difende. In fondo, si tratta della ben nota antitesi tra Natura e Civiltà, dispiegata e fatta propria dall’istituzione con la bandiera a stelle e strisce (l’esercito, la cavalleria, il forte) posta al comando della società della frontiera. Si cena parecchio ne Il massacro di Fort Apache (1947) di J. Ford, c’è chi pensa di cucinare arrosti, chi bevendo vino a pasto come nella miglior dieta mediterranea, riceve una serenata; chi al ballo dei sottufficiali rimprovera il sergente: “Guardati bene dal prosciugarti tutto il ponce come lo scorso anno” o chi afferma che “l’alcol è una medicina con questo clima insalubre”, e deve essere vero se a sostenerlo è il medico della situazione, ”La sala è stupenda, il ponce ottimo”, sono gli argomenti pregnanti della sua conversazione. Altro forte, analoga festa con danze e ponce ne I cavalieri del Nord Ovest (1949) di J. Ford, e in Cavalcarono insieme (1961) sempre dello stesso regista; infatti, la cena, il successivo caffè e l’immancabile serenata (la variante è il ballo) adottano il climax del romanzo famigliare ed è la cavalleria degli Stati Uniti a rappresentare, più di ogni altra cosa, l’epica della famiglia-nazione americana dove tutti – ognuno al proprio posto – mostrano coraggio, saggezza e lealtà (emblematica la famiglia Yorke di Rio Bravo (1950) di J. Ford.

Durante la costruzione della civiltà americana, tra gli stati dell’Unione, la Union Pacific e l’onion , cipolla, non c’è stata molta differenza: lacrime e odore acre. I soldati americani avevano tra le loro provviste la cold flour, una farina di granoturco mescolato a zucchero o cannella che veniva presa aggiungendo semplicemente acqua, così trasformata in una nutriente farinata.

Indiano o pellerossa? Pellerossa non è affatto un sinonimo, ma rivela da subito una preclusione razziale che lo identifica come selvaggio e come nemico della società dei bianchi, da estirpare in nome della civilizzazione: col permesso di Dio e sotto l’egida della legge. Anthony Mann, John Ford e Delmer Daves saranno tra i primi (verso la fine degli anni Quaranta, a conflitto mondiale concluso) ad attribuire agli indiani d’America una propria civiltà anche se – come dice un capo indiano a Robert Taylor – “Il nostro popolo è condannato… non abbandonare mai questa terra… la terra è la nostra carne viva, la madre di tutti noi. Se dobbiamo perderla, è preferibile morire” ne Il passo del diavolo (1949) di A. Mann. Quella degli indiani è insomma una civiltà perduta, contrapposta alla conquista del west da parte dei coloni. La sua cucina, rappresentata in molti film, ci dà proprio l’idea di un mondo distante e straniato: erbe misteriose, bacche colorate, carne essiccata o semi masticata, serpenti o altri animali per noi difficilmente commestibili. Le bevande, strani elisir o distillati alcolici, o le erbe fumate dentro pipe decorate denotano l’abisso culturale che intercorre con i “damerini” del west nell’iconologia di molti film. Seguendo la pista dell’Oregon commercianti e trappers potevano mangiare l’energetico cibo indiano chiamato pemmican, cioè carne di bisonte tagliata a strisce, essiccata al sole e poi macinata e ridotta in polvere e talvolta anche mescolata al succo di ciliegia. “Per loro il bisonte significa tanto: carne, vestiti per l’inverno, pelli conciate per farne capanne, barche e scudi per la guerra, con la pelle dei posteriori ci fanno mocassini, non sprecano niente”, si dice in L’Ultima caccia (1956) di R. Brooks. Il film ci mostra come l’eliminazione dei bisonti venga praticata strategicamente per affamare e rinchiudere nelle riserve gli indiani, rendendoli cioè dipendenti dalle derrate alimentari dei bianchi (“Nella guerra indiana ogni bisonte morto era un indiano affamato”). A qualsiasi tribù appartengano, i pellerossa del cinema, pur facendo parte del ciclo integrato del bisonte (alimentazione, vestiario, oggettistica, religione) non lo mangiano quasi mai, anzi di solito sono intenti a cucinare serpenti, o addirittura un pony in L’amante indiana (1950) di D. Daves, e ne I sette assassini (1956) di Boetticher. Davvero messi male, senza le proprie riserve di caccia mangiano carne di cavallo: è “orribile”, una sfida aperta ai tabù della cultura dei cowboys. Ne Il grande sentiero (1964) di John Ford, si attende l’arrivo di una commissione governativa: i Cheyenne aspettano stremati e impassibili sotto il sole, di fronte a loro, gli ufficiali attendono dentro una tenda da campo in cui è stato allestito un rinfresco il cui protagonista è un gigantesco arrosto. Sono di fronte la società della fame e la società dell’eccesso che spinge gli indiani, dal deserto della riserva in cui sono confinati, a una marcia di 2.000 chilometri facendoli diventare paradossalmente “pionieri”, per la stessa condizione che li spinge a trovare altrove di che vivere. Jimmy Stewart in Cavalcarono insieme (1961) di J. Ford. “Tre giorni sono circa quarantacinque ore di lavoro per una donna comanche, i Comanches mica sanno quando viene la domenica, e cucinare lo considerano una specie di riposo per le donne che nei ritagli di tempo masticano la pelle di bufalo per farne dei morbidi mocassini per i loro generosissimi uomini. La donna, infatti, è il terminale dell’alimentazione: lei è raccoglitrice ma nello stesso tempo gestisce i prodotti della caccia, solo in L’ultimo apache (1954) di R. Aldrich, si racconta la conversione di un indiano ribelle alla coltura del mais, come dire… a un passo dalla civiltà.

James Stewart a cena con Cocis si sente consigliare: “Dovresti pulirti le mani sulle braccia dopo aver mangiato, l’unto le rinforza” e quando lui risponde “Noi bianchi ce le puliamo lavandoci”, la replica è perentoria: “Che spreco!” in L’amante indiana (1950) di D. Daves.

Verso il Sud con “la pista di Santa Fe”, aperta nel 1821 quando le carovane partivano dal Missouri portando avventurieri di ogni specie che non vedevano l’ora di fare affari con i messicani e gli indiani Pueblo. Il fiume Arkansas stabiliva il confine tra Stati Uniti e Messico diventando il punto di incontro e di scambio tra i prodotti provenienti dal Canada francese (come lo champagne), dalle Indie (lo zenzero cinese) o dal Mediterraneo (le olive) con la terra del peperoncino e del mais. Nel 1835 la località che accoglieva la confluenza delle merci era Bent’s Fort, un’enorme cittadella di mattoni dove si mangiavano carne secca di bisonte e torte di mais innaffiate con dell’ottimo Bordeaux rosso, uno dei pochi posti in cui a tavola si usavano forchetta e coltello. Ma il cinema, procedendo per stereotipi, ci mostra che verso sud, in territorio messicano, la grande fame si nasconde sempre sotto il poncho o il cappello a larghe falde. Il razziatore o il desperado si abbuffano di chili, fagioli o di tortillas e poi si ubriacano di tequila. Ecco perché i gringo hanno sempre la meglio: la fame “non tradisce” il cowboy, padrone del proprio ascetismo alimentare, al massimo si deve guardare solo dal whisky.


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