Porrei il problema storiografico in questo modo: era simile, l’attivismo nazista, a quello fascista?
Intanto quello di “nazifascismo”, almeno nel caso italiano, è stato un concetto che deve la sua diffusione e popolarità alla Resistenza; si è trattato, quindi, di un concetto fortemente marcato in termini etico-politici; per intenderci: è stata una categoria originatasi nella lotta politica, per poi trasferirsi successivamente, dopo il 1945, nell’immaginario pubblico. Lo schieramento politico-militare aveva prevalso sulle specificità ideologiche, col risultato di diluire il fascismo nel nazismo, in forza della memoria della Shoah e del ruolo subalterno del fascismo al nazismo determinatosi nel corso della guerra. Come aveva già osservato De Felice,
la categoria del nazifascismo fu inventata dalla propaganda politica per battere il comune nemico. Fu un’invenzione degli alleati negli anni della guerra, adottata fra le parole d’ordine della Resistenza, da lì passata nel linguaggio comune e giunta fino a noi. Come categoria politica il nazifascismo ha parzialmente senso solo se riferita alla Repubblica sociale. Come categoria storica, invece, non esiste.(1)
Del resto, a lungo, sia prima dello scoppio della guerra che nel corso di questa, soprattutto da parte sovietica i nazisti erano presentati come «fascisti tedeschi».
Ai fini del nostro discorso, mi limito a una distinzione fra nazismo e fascismo, tralasciando la discussione sul fatto che se il fascismo aveva privilegiato il concetto di nazione, l’universo ideologico nazista era tutto incentrato sul concetto di razza.
Dobbiamo a Mosse la distinzione fra il fascismo, le cui radici affondavano in certa cultura di sinistra, e il nazismo, le cui origini risultavano debitrici della cultura di destra, essenzialmente quella völkisch.(2) La distinzione è condivisibile, ma andrebbe approfondita, almeno nei limiti di quanto si viene qui discutendo in materia di attivismo e di visione della storia.
Ora, mentre il fascismo era un’ideologia “aperta”, non prevedendo alcun approdo definitivo del processo storico, si potrebbe osservare che il nazismo rispecchiava il carattere più importante delle ideologie tradizionali, quello di presentarsi come una teoria politica chiusa. Conviene insistere sul tema.
In precedenza mi sono riferito sia al fatto che col fascismo si verifica una normalizzazione dell’eccezione, sia l’individuazione del totalitarismo come situazione in progress. Si può aggiungere che quello totalitario è un ambiente politico molto mosso, nonché attraversato da scossoni istituzionali e, in qualche frangente, anche ideologici, nel senso che risultano messi in discussione aspetti dell’ideologia ufficiale che sembravano indiscutibili.
Mentre nei sistemi politici pluralisti il reciproco riconoscimento della legittimità degli attori politici contribuisce ad attenuare le eventuali proposte antisistemiche, residuandole sullo sfondo dello schieramento politico ed escludendole dalle decisioni, in ambiente politico totalitario il monopolio della decisione politica e l’assenza di attori oppositivi favoriscono il ricorso alle svolte improvvise. E mentre nel caso nazista e comunista le svolte erano determinate dal carattere “chiuso” delle ideologie ufficiali, nel caso fascista era l’attivismo di un’ideologia “aperta” a orientare le svolte.
In politica, le pratiche attivistiche presentano motivi d’origine diversi. Direi che quello fascista costituiva un attivismo come metodo privo di un effettivo e ben definito respiro teleologico, mentre quello nazista era un attivismo a forte vocazione teleologica, interiormente attraversato da una sottile quanto persistente vena di disperazione, che induceva i nazisti ad accelerare il ritmo della loro strategia politica antisemita, perché il tempo era il migliore alleato del progetto ebraico di dominio del mondo.
Il carattere “chiuso” dell’universo ideologico nazista era definito dall’obiettivo di dare vita a un mondo in cui sarebbero finalmente stati eliminati gli ebrei e qualsiasi vestigia più o meno direttamente riconducibile all’ebraismo (a cominciare dal cristianesimo). Senza alcuna forzatura ermeneutica, direi che il nazismo tradiva una ben più stretta appartenenza del fascismo alla famiglia politica dei modelli delle rivoluzioni tradizionali, le quali, a partire dal 1789 e dalla comparsa sulla scena del giacobinismo, rivelavano una forte vocazione teleologica ed escatologica. Avanzerei l’ipotesi che quello nazista abbia costituito l’ultimo esempio di rivoluzione il cui modello di riferimento era quello tradizionale – appunto a chiara vocazione teleologica. Ed è tutt’altro da escludere che alla sua carica di violenza, oltre che per il motivo, che affronteremo tra poco, attinente la visione cupa della storia, avesse contribuito in maniera altrettanto decisiva proprio l’esasperazione della vocazione teleologica. In quanto ideologia rivoluzionaria “chiusa”, cioè a chiara vocazione escatologica, il nazismo lo si può intendere quale conclusione tragica del modello rivoluzionario inauguratosi nel 1789.
L’anelito per un mondo rinnovato, se non ricreato, era un atteggiamento pressoché inesistente nell’universo ideologico fascista. Quest’assenza di una vocazione escatologica può reperire il suo motivo fondamentale nella prevalenza, all’interno dell’universo ideologico fascista, di culture modernizzatrici che avevano assimilato l’atteggiamento di Entzauberug, tipico della modernità.
La presenza di un’evidente vocazione attivistica nel na-zismo concerneva l’obiettivo di anticipare le mosse future dell’ebraismo. Si trattava, cioè, di fare in modo che non si realizzasse il piano ebraico di conquista del mondo, così come era stato delineato nei Protocolli dei Savi di Sion, testo fondamentale per i nazisti subito dopo il Mein Kampf hitleriano. Sia che il futuro fosse quello delineato nei Protocolli, sia che si uscisse vincenti dalla definitiva prova di forza contro l’ebraismo, il nazismo si presentava comunque come un’ideologia “chiusa”.
Mentre il fascista, intenzionato a combattere contro l’ostilità del mondo, esprimeva un ottimismo che lo induceva alla convinzione di poter dominare il tempo, quello nazista era un attivismo in lotta disperata contro un tempo che scandiva l’approssimarsi del momento in cui il trionfo della cospirazione avrebbe permesso all’ebraismo di dominare il mondo. Il trascorrere inesorabile del tempo era visto dai nazisti come un pericolo che bisognava assolutamente sconfiggere. Uno dei più brillanti e originali storici del regime nazista ha di recente osservato che «i nazisti […] ripetevano sempre che la Germania e la razza germanica avevano perso troppo tempo, che erano impegnate in una corsa contro la storia, contro la decadenza e la degenerazione, che bisognava agire alla svelta e fare il più possibile».(3)
La lotta nazista contro il tempo si fondava su una visione cupa e disperata della storia quale dispiegarsi del potere ebraico sull’umanità tutta, come previsto dai Protocolli. In altri termini, l’attivismo nazista trovava le sue radici più profonde nell’atteggiamento disperato davanti alla storia: si trattava di mobilitare tutte le risorse possibili per cercare almeno di frenare un ineluttabile corso della storia che sarebbe giunto a conclusione con l’instaurazione della tirannide mondiale ebraica. Il problema allora riguarda l’identità, richiamata da Eco, fra fascismo e cospirazionismo.
Il cospirazionismo, che sia antisemita, come nel caso nazista, o meno, per definizione è pessimista, perché convinto che, malgrado tutti gli sforzi degli uomini per contrastarla, alla fine la cospirazione è destinata a prevalere. Il cospirazionismo è la visione più disperata che si possa dare della storia, perché muove dal presupposto che questa, piuttosto che una libera scelta della volontà umana, sia determinata da forze oscure e nascoste.
Ho osservato che col nazismo sembrava giunto a conclusione il ciclo storico delle ideologie “chiuse” inaugurato nel 1789. Si potrebbe aggiungere che la visione cupa della storia tipica dei nazisti, confermata dal sospetto che l’ebraismo, per quanto combattuto e ostacolato, avrebbe comunque prevalso nel futuro, tradiva anche una crisi delle Grandi Narrazioni ideologiche: ciò che fino ad allora si era presentato come un futuro di libertà o di uguaglianza, nel caso nazista era declinato come oppressione e tirannide.
Ben poco, se non nulla di questo è dato di ritrovare nell’universo ideologico fascista, e ciò per più motivi. Intanto, come ho già osservato, nell’universo ideologico fascista risultavano dominanti quelle culture politiche moderniste, a cominciare dai futuristi; osserverei, anzi, che il fascismo aveva ereditato proprio quelle culture che, già in età giolittiana, si erano battute per una modernizzazione della nazione(4), sia pure ricorrendo a formule politiche, a cominciare dal nazionalismo per finire ad alcune posizioni futuriste, che insistevano nella critica del liberalismo.
Agli occhi del fascista la storia non presentava teleologie di sorta e perciò non poteva essere il risultato di trame cospirative. Conviene ribadire che per il fascista, attraverso il confronto col mondo, l’uomo si realizzava nella storia, fermo restando che questo processo di realizzazione non reperiva mai un approdo definitivo. Questo permetteva al fascista di possedere un’immagine del tempo differente da quella ossessiva, tipica del nazismo. Realizzandosi nella storia, attraverso un processo continuo ed ininterrotto, la questione del tempo era collocata in una posizione secondaria: il tempo diveniva null’altro che la cornice in cui si svolgeva la competizione infinita fra l’uomo e il mondo. E se era questa situazione di competizione il motivo determinante della storia umana, allora non c’era spazio per ipotizzare trame cospirative.
1 R. De Felice, Rosso e Nero, cit., p. 158.
2 Cfr. G. L. Mosse, Intervista sul nazismo, a c. di M. A. Ledeen, Laterza, Roma-Bari 1977, ad es., pp. 89-90, 119-120.
3 J. Chapoutot, Nazismo e management, cit., p. 16.
4 Cfr. E. Gentile, Il mito dello Stato nuovo. Dal radicalismo nazionale al fascismo, Laterza, Roma-Bari, I ed. 1982, n. ed. 1999.
https://www.asterios.it/catalogo/totalitarismo-movimento