Cultura governativa ed elitarismo presunto

I recenti discorsi (non so che altro termine usare) del neoministro della cultura italiano sembrano ispirati da prominente elitarismo, ostentato e sbandierato come vessillo quasi d’orgoglio, e, a ben vedere credo, da debordante spirito antiaccademico. La fantasiosità decontestualizzata dei termini e dei plurimi e caotici riferimenti, unita alla ricercatezza estrema del linguaggio, tendente ad un amalgama improbabile ed assurdo, fa infatti a pugni con la cultura intesa come articolazione e concatenazione mirante a contenuti chiari di verità, suggerenti ed al contempo rispettosi di ognuno, quindi, in definitiva, onesti. Molto divertente, certo, ma poi si rimane lì e non ci si schioda. Eppure l’università rimane, anche se molti sembrano non volerlo, non solo lo strumento principale per acquisire una metodologia sistematica per l’apprendimento ma anche, in definitiva, una palestra di modestia e rispetto. Lo studente deve fronteggiare (diciamolo, dai!) insegnanti diversi, spesso presuntuosi e magari, chissà perché, prevenuti, e si trova quindi, per arrivare in fondo, a dover usare anche persistenza e tenacia, oltre ad impegno e intelligenza.

Non che i predetti atteggiamenti siano sorprendenti, vista la provenienza politica! Peraltro, viene da chiedersi, oziosamente a questo punto, come sia intesa la “cultura” da costoro. E mi riferisco per esempio, a Giordano Bruno Guerri, il Presidente del Vittoriale, simpatico certo, che sostiene la tesi per la quale gli “italiani non erano fascisti ma mussoliniani” (cotanto contenuto!) o come l’intellettuale Pietrangelo Buttafuoco che in una trasmissione televisiva s’illumina a sproposito per il mito di Dioniso, o ancora come l’accademico Luca Ricolfi, che nel suo ultimo libro, pubblicizzato in televisione, ci mancherebbe, si lamenta che i professori (universitari?) sarebbero di sinistra o si dichiarerebbero tali per la maggior parte, e che quindi, ciò rappresentando un’insopportabile distorsione, andrebbe ripensato il sistema di reclutamento/accreditamento. Ma vi rendete conto? E il merito dove va a finire? Deve esser sacrificato per capricciose “quote di appartenenza”? Commenti pleonastici, i miei! Rimane inquietante, secondo me, che la provenienza di questi, per così dire, contenuti sia per l’appunto accademica.

Insomma, sembra esserci bisogno, sempre più, di una vidimazione di destra, la stessa che ancora continua a battere su un presunto monopolio culturale di ben altra provenienza e si scatena, sull’onda vannacciana, contro un presunto pensiero unico o contro un “politicamente corretto” (il “mantra” per definizione, meno male che c’è a riempire i crateri di inconsistenza) per nascondere, secondo me, i suoi insaziabili appetiti manipolativi, miranti anche all’esclusione di intere categorie che si vogliono indesiderate. Poi diranno di essere stati fraintesi e si appelleranno ad un’inesistente malevolenza che deriva da presunzione e mancanza di obiettività. Il linguaggio usato in questo caso è inevitabilmente aggressivo, a ricordo dei bei tempi dell’orbace.

Perché, in definitiva, il ministero della cultura è ora diventato strumento di acquisizione e consolidamento del consenso attraverso un sempre più galoppante revisionismo storico fatto di omissioni e letture parziali interessate. Ne abbiamo molteplici esempi, tra i quali il “Giorno del ricordo” del 10 febbraio, con la parzialità nella rivisitazione storica della tragedia dell’Istria nella Seconda guerra mondiale e dopo dell’esodo istriano, occupa un posto di assoluto rilievo.

In generale, sembra si voglia provvedere una delimitazione di campi, di argomenti d’interesse, a discapito di una visione globale inclusiva, che non sarebbe capita e che in ogni caso non sarebbe profittevole da un punto di vista elettorale. Perché quello che conta sono i voti. Non è un caso che sempre più spesso si confonda nelle espressioni, volutamente credo, da parte di costoro, la “militanza” con la “milizia”. E allora cosa c’è di più profittevole dell’elitarismo, associato naturalmente ad incomprensione e nello stesso tempo ammirazione del (oops!) popolo?

Peccato, perché la cultura per la sinistra, soprattutto negli anni Settanta, doveva rappresentare anche uno strumento imprescindibile di presa di coscienza da parte dei “lavoratori”, che dovevano leggere per conoscere, a prescindere dal loro titolo di studio ed anche a prescindere da un ritorno utilitaristico. Da qui il fiorire di riviste, iniziative, e così via. Tutto dimenticato!


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