Musica e omologazione digitale: una breve riflessione

 

In questo senso la musica fonda la fenomenologia, non viceversa. La musica non ha ethos. L’ethos lo ha l’atto musicale, inteso come composizione-esecuzione-improvvisazione e ascolto da parte di un soggetto ben disposto. L’esperienza umana generalmente si nutre di rimandi e previsioni oppure ricorda, lo sguardo rivolto al passato, raramente vive nel presente. L’atto musicale vive nel presente, al di sopra del tempo, o meglio nel «tempo dello stare». Perlomeno l’atto musicale autentico, in cui l’opera musicale è in grado di trasformare la realtà creando la sua dimensione temporale e il pubblico è in grado di seguire lo sviluppo del discorso musicale nella sua complessità, mettendo in gioco empatia e intelligenza, nonché la percezione cosciente dell’ambiente acustico. In tale prospettiva, nell’esperienza estetica che risulta da ciò che abbiamo chiamato atto musicale autentico non ha molto senso distinguere il soggetto che afferra dall’oggetto afferrato: nel fare davvero musica, come nell’ascoltare davvero, soggetto e oggetto dell’azione si identificano.

In questo modo, dunque, l’esperienza musicale autentica, come la vera politica (quale azione per il bene comune nella polis), crea il mondo umano: espandendone, attraverso l’agire creativo, le dimensioni della multisensorialità corporea e della temporalità cosciente, che sono per l’appunto dimensioni non riducibili alla datificazione ed alla gestione algoritmica, e che pertanto, in questa particolare fase storica, sono quelle maggiormente a rischio di cancellazione.

Il testo che segue è l’ntervento al Convegno “C’è del nuovo…” presso il Conservatorio Rossini di Pesaro (15-16/10/24) liberamente tratto dal saggio S. Isola, Né il vero né il falso, semmai l’irreale: quali esperienze musicali nel mondo post-covid?”, Vita Pensata, n. 31, ottobre 2024.

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È idea ampiamente condivisa che la musica, pur essendo l’espressione forse più spontanea ed ineffabile dell’attività psichica umana, ha una poderosa capacità di dispiegare “argomenti” e muovere “affetti”. Tuttavia, a questo fine, sono necessarie opportune condizioni e un contesto adeguato. Il termine musica può infatti indicare innumerevoli cose, da una canzonetta che accompagna una pubblicità fino ad un contesto di esecuzione/ascolto consapevole e sublime. Per il linguaggio è diverso. Non si usa la stessa parola letteratura per indicare un racconto di Cechov o un trafiletto di giornale. Occorre quindi saper distinguere tra musica come “sfondo sonoro” – dimensione oggi ubiquitaria e pervasiva – e musica come esperienza, ascolto, argomentazione, sentito – dimensione oggi riservata a contesti sempre più marginali.

In particolare, l’esperienza musicale, come altri ambiti della vita, è oggi oggetto di pesanti forme di omologazione/selezione/cancellazione di significati e contesti linguistici ed espressivi. Solo qualche anno fa, il regime di distanziamento sociale piombato su molti paesi del mondo durante l’emergenza Covid ha colpito in modo pesantissimo la pratica della musica dal vivo, che si è interrotta d’un colpo, lasciando legioni di strumentisti, studenti di conservatorio, orchestrali, arrangiatori, accordatori, in un lungo purgatorio di inattività forzata. E come in molti altri settori, anche per l’attività musicale si è rapidamente interposto l’apparato della rete, dei servizi di live streaming, e i mille dispositivi e applicazioni utili a trasmettere e condividere materiali di vario tipo su piattaforme digitali. Insomma, l’esistenza stessa di un’infrastruttura digitale diffusa nella società ha permesso che alcune attività potessero essere perpetuate. Ma nello stesso tempo tale perpetuazione, nella musica come in altri ambiti, ha messo in atto una sorta di selezione tra le modalità con cui le varie esperienze possono continuare ad esistere, lasciando svanire come ombre al buio quelle meno adattabili agli “ambienti di scelta” della formattazione digitale.

Ulteriori questioni, che meriterebbero ampia discussione, provengono dall’uso crescente della cosiddetta IA generativa nella realizzazione di contenuti “artistici”, dai romanzi alle sceneggiature, dalle immagini generate da Midjourney, fino ai brani assemblati da generatori musicali come Udio o Boomy. Vale osservare, a questo proposito, che gli algoritmi dell’IA non possono “creare” assolutamente nulla, possono solo attingere alla versione datificata di quanto è già stato fatto, e produrne innumerevoli ricombinazioni sulla base di informazioni statistiche sulle possibili correlazioni tra oggetti privi di significato. E infatti, nonostante le enormi potenzialità combinatorie offerte da tali dispositivi, l’arte finora non sembra averne tratto vantaggio, anzi. L’affidarsi sempre più diffuso ed inconsapevole ad algoritmi di generazione automatica di “contenuti culturali” privi di ogni semanticità propria, oltre al crescente perfezionamento di quegli stessi algoritmi, sembra indurre un inesorabile impoverimento dell’esperienza e un conseguente declino cognitivo e creativo.

In generale, di fronte a tali innovazioni e trasformazioni, sappiamo cosa si guadagna, ma assai raramente ci si chiede che cosa si perde, quali dimensioni dell’esperienza e della nostra stessa natura umana, alias della nostra cultura, ne risultano annichilite. Da vari punti di vista, infatti, la cosiddetta società digitale si configura come società dell’insignificanza, laddove ciò che conferisce significato all’esperienza umana è innanzitutto la sua dimensione relazionale e sociale.

La comunicazione digitale, la cui idealità era quella della realizzazione intersoggettiva e della felicità prodotta dall’immediatezza e dalla prossimità, nella sua concretezza sta invece per lo più aggravando l’isolamento degli individui e distruggendo molte dimensioni della cultura umana, sostituendole con surrogati che richiamano la musica sintetica e il cinema odoroso del Mondo Nuovo di Aldous Huxley, strumenti che, come scrive lo stesso Huxley, non danno al pubblico “né il vero né il falso, ma semmai l’irreale, ciò che, più o meno, non significa nulla”.

La denuncia di un tale stato di cose offre anche un’occasione per avviare una riflessione sulle dimensioni generatrici di significato dell’esperienza musicale, sulle sue relazioni con la politica, con la filosofia e con la psicologia, e sui suoi aspetti non artificialmente riproducibili.

Riproducibilità e artificializzazione

Da oltre un secolo viviamo nell’era della riproducibilità tecnica dell’arte e la musica registrata ha profondamente assuefatto l’orecchio della gran parte delle persone. Va detto che se, da un lato, ciò ha reso onnipervasiva l’industria dell’intrattenimento, da un altro lato ha stimolato anche molte ricerche di natura stilistica, percettiva ed estetica, segnatamente in ambito musicale: basti pensare alle ricerche sulla generazione e riproduzione artificiale di materiali sonori nel quadro delle avanguardie musicali del secolo scorso, o anche agli attuali sviluppi della moderna musica elettronica. Del resto, una seria e assai auspicabile riflessione su ciò che differenzia tali movimenti di sperimentazione artistica da ciò che oggi si presenta come una totalizzante gestione cibernetica del sonoro, sembra purtroppo totalmente assente.

Tornando alla questione della riproducibilità, in un articolo del 1937 dal titolo Musica meccanizzata, Bela Bartok, dopo aver affermato che le trasmissioni radiofoniche di musica classica consentono di «portare ai concerti anche quelle masse che finora non avevano sentito il bisogno di frequentarli», dice che «la musica radiofonica abitua per lo più all’ascolto superficiale del pezzo», visto che «è così facile girare i bottoni dell’apparecchio e, con un pulsante, accenderlo e spegnerlo. Senza dire che mentre si ascolta si possono fare mille altre cose». Continua poi dicendo che «ascoltando musica alla radio ci si abitua ai timbri deformati e si perde la sensibilità di quelli autentici». Su questo qualcuno potrebbe obiettare che la radio dei tempi di Bartok non aveva certo la fedeltà dei dispositivi odierni. Tuttavia anche oggi il principio mantiene intatta la sua validità: ogni registrazione, indipendentemente dalla qualità riproduttiva degli apparecchi usati, è diversa dall’esecuzione dal vivo. E ciò per una pluralità di ragioni.

In primo luogo il fatto che nel passaggio tra il suono reale e la sua riproduzione tecnica s’interpone un modello teorico il quale, a partire da una rappresentazione semplificata ed astratta del modo in cui il suono si produce, si propaga e si percepisce, opera una selezione di quali aspetti debbano essere (approssimativamente) riprodotti. In altre parole, quello che udiamo ascoltando la radio o un altro dispositivo di riproduzione acustica è in realtà l’implementazione tecnologica di un modello astratto del fenomeno sonoro che vogliamo riprodurre (ad esempio, uno schema basato sull’analisi spettrale di Fourier riprodurrà più fedelmente suoni relativamente stazionari nel tempo, molto meno fedelmente suoni di natura impulsiva).

Se poi s’intende l’ascolto come un’azione attiva e consapevole, prodotto di un impegno anche fisico, oltre che di una sensibilità e di una concentrazione in grado di cogliere le relazioni tra le parti, le sfumature timbriche, le sottigliezze dinamiche del brano ascoltato, allora è chiaro che, se compiuta per tramite un mezzo di trasmissione di massa, può subire uno snaturamento considerevole, che la rende un’azione subita passivamente e più superficiale, qualche che sia il livello di perfezione tecnica dello strumento di trasmissione.

Ciò si connette a quanto il direttore d’orchestra Sergiu Celibidache ha sostenuto in varie interviste e conferenze, richiamando l’attenzione su alcuni aspetti fondamentali della fenomenologia musicale, tra cui il ruolo svolto dalla percezione cosciente dell’ambiente acustico: «l’acustica del luogo è un elemento generatore di forma», nel senso che le durate e le intensità con le quali si articola lo scorrere di un pezzo musicale dipendono non solo dalla partitura del brano, ma anche, e in modo essenziale, dall’acustica dell’ambiente nel quale viene eseguito ed ascoltato. Un ambiente con riverbero maggiore, dove il suono “dura” più a lungo, spinge a un’esecuzione più lenta, uno scarso ritorno sonoro imporrà un tempo musicale più veloce. Di converso, per Celibidache, l’ascolto del suono registrato genera una sorta di “sordità musicale”, risultante dalla mutilazione di alcune dimensioni generatrici di significato dell’esperienza musicale.

Sui possibili significati della musica nella vita umana

Riprendiamo quindi alcune questioni basilari, accennate all’inizio. Quali significati “emancipatori” possiamo sensatamente attribuire al termine “musica”? Dove risiede la sua capacità di agire sul nostro animo con una potenza talvolta ben superiore a quella della parola? Quale il nesso, se ve n’è alcuno, tra musica e natura, o tra musica ed etica, o tra musica e politica?

Per pensare qualcosa in questa direzione l’approccio “oggettivante” e “cartesiano” appare del tutto inadeguato. Serve una riflessione sulle dimensioni generatrici di significato dell’esperienza musicale e sui meccanismi che possono amplificarla (partecipazione consapevole, intelligenza, empatia, pluralità di dimensioni percettive, ecc.) o al contrario distruggerla (massificazione, consumo passivo, istupidimento, formattazione tecnologica, ecc.). Sarebbe interessante, in questo discorso, rifarsi alle origini greche della musica occidentale, laddove la cultura greca aveva chiaramente avvertito come la musica rappresentasse un nodo nel quale la dimensione etico-politica, quella estetica, e quella teoretico-scientifica, si confrontano e si intrecciano con modalità tanto feconde quanto problematiche. E a come la riflessione su tali dimensioni sia riemersa in varie fasi della storia della cultura, fino ai nostri giorni. Ma un percorso di tal genere comporterebbe un discorso lungo ed articolato.

Mi limiterò quindi ad alcune brevi osservazioni sulla dimensione fenomenologica, una dimensione nella quale l’esperienza musicale si costituisce come un’opera in sé, di cui nessuno in senso proprio è autore o produttore, e che stabilisce uno stretto rapporto tra il nostro stare nel mondo e la temporalità musicale, rapporto che si annuncia già nel linguaggio ordinario, in cui spesso troviamo espressioni musicali per designare stati d’animo: “essere giù di tono”, “avere una certa tonalità emotiva”, ecc. Cosa sono in definitiva le diverse tonalità emotive – ansia, noia, indifferenza, entusiasmo – se non modi della temporalità dell’esserci?

Dal punto di vista della fenomenologia, nell’esperienza musicale autentica soggetto e oggetto divengono una cosa sola. Il soggetto ben disposto, colui che si mette consapevolmente in ascolto, non è un passivo fruitore ma diviene parte dell’azione musicale. E allo stesso modo l’opera musicale non è mai “fatta”: per la sua sconfinatezza ed imprevedibilità non possiamo mai sapere davvero cosa stiamo facendo, e al tempo stesso non ci è data la possibilità di disfare ciò che stiamo facendo.

Come diceva ancora Sergiu Celibidache, la musica non è niente, nel senso che non è in sé stessa un ente, qualcosa suscettibile di oggettivazione. Non possiamo davvero entrare in rapporto con la musica nel momento in cui la si adotta come oggetto.

In questo senso la musica fonda la fenomenologia, non viceversa. La musica non ha ethos. L’ethos lo ha l’atto musicale, inteso come composizione-esecuzione-improvvisazione e ascolto da parte di un soggetto ben disposto. L’esperienza umana generalmente si nutre di rimandi e previsioni oppure ricorda, lo sguardo rivolto al passato, raramente vive nel presente. L’atto musicale vive nel presente, al di sopra del tempo, o meglio nel «tempo dello stare». Perlomeno l’atto musicale autentico, in cui l’opera musicale è in grado di trasformare la realtà creando la sua dimensione temporale e il pubblico è in grado di seguire lo sviluppo del discorso musicale nella sua complessità, mettendo in gioco empatia e intelligenza, nonché la percezione cosciente dell’ambiente acustico. In tale prospettiva, nell’esperienza estetica che risulta da ciò che abbiamo chiamato atto musicale autentico non ha molto senso distinguere il soggetto che afferra dall’oggetto afferrato: nel fare davvero musica, come nell’ascoltare davvero, soggetto e oggetto dell’azione si identificano.

Ulteriori spunti di riflessione in questa direzione, alla luce del quadro delineato all’inizio, provengono dall’opera Vita Activa di Hannah Arendt, dove l’autrice riflette sulla possibilità di agire, cioè riconquistare il senso di vivere in una comunità politica, in un mondo dominato dalla tecnocrazia.  Tre sono le tipologie di attività che caratterizzano la vita activa dell’uomo (in quanto distinta dalla vita contemplativa): la mera attività lavorativa per il proprio mantenimento (il lavoro dell’animal laborans), l’operare (il lavoro con cui l’homo faber costruisce il mondo artificiale che lo circonda), e infine l’agire (l’attività con cui l’uomo, in quanto animale politico, entra in rapporto con altri uomini).

Come si espresse la Arendt: «agendo e parlando gli uomini mostrano chi sono, rivelano attivamente l’unicità della loro identità personale, e fanno così la loro apparizione nel mondo umano». Il fatto che l’uomo sia capace  di azione – concetto assai diverso da quello di comportamento, su cui si basano le tecniche di condizionamento e manipolazione oggi imperanti – significa che da lui può scaturire l’inatteso, il radicalmente nuovo.

Assunte per analogia in ambito musicale, le tre tipologie diventano: innanzitutto il mero esecutore, il livello più elementare del fare musicale, al cui fondo sta il fatto che la capacità di suonare è una condizione di sopravvivenza. In secondo luogo il compositore, il creatore di opere, prodotti culturali legati all’idea di permanenza nel tempo. Infine troviamo colui che mette la musica creativamente in atto, laddove in tale atto musicale entra in gioco la poetica sonora dell’interprete, e ancor di più quella dell’improvvisatore. Si tratta di un agire concreto nel mondo, non metafisico o contemplativo, che può attualizzare l’inatteso in un contesto collettivo. In questo particolare senso, fare musica, nella sua dimensione più elevata, è agire. In tale dimensione, l’oggetto del musico mentre suona si identifica con la sua azione. E ovviamente tale azione comprende le due attività precedenti, nella misura in cui presuppone il dominio delle due capacità autonome di esecuzione e composizione, ove quest’ultima può essere intesa anche in senso “istantaneo”, come nella libera improvvisazione (secondo la definizione che ne dava il pianista e improvvisatore olandese Misha Mengelberg).

In questo modo, dunque, l’esperienza musicale autentica, come la vera politica (quale azione per il bene comune nella polis), crea il mondo umano: espandendone, attraverso l’agire creativo, le dimensioni della multisensorialità corporea e della temporalità cosciente, che sono per l’appunto dimensioni non riducibili alla datificazione ed alla gestione algoritmica, e che pertanto, in questa particolare fase storica, sono quelle maggiormente a rischio di cancellazione.

Autore: Stefano Isola vive a Firenze, dov’è nato nel 1959. È professore ordinario di Fisica Matematica presso l’Università di Camerino, ed è autore di numerose pubblicazioni scientifiche su temi di sistemi dinamici, probabilità, teoria ergodica, epistemologia, storia della scienza e teoria musicale, nonché di alcuni libri e saggi divulgativi di storia e critica sociale. Ha svolto anche attività di editore, agricoltore, musicista e compositore.


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