L’America è finita? Il mondo che lasciamo e il compito che ci attende

Il testo pubblicato di seguito è la traduzione della conferenza tenuta da Noam Chomsky il 17 settembre 2012 al Politeama “Rossetti” a Trieste e del successivo dibattito.

Forse è un segno della mia età oppure forse è per qualche altro motivo, ma non posso fare a meno di pensare, sempre più spesso, a qual è il mondo che stiamo lasciando in eredità ai nostri figli e nipoti: e non è una bella prospettiva, certo non è qualcosa di cui andare fieri. Ci sono diverse ombre cupe che sovrastano minacciosamente ogni nostro pensiero riguardo all’eredità che lasceremo ma due, soprattutto, sono predominanti, perché minacciano letteralmente la sopravvivenza della nostra specie, perlomeno una forma dignitosa di sopravvivenza. Una di queste ombre è la guerra nucleare e l’altra la catastrofe ambientale.
Non solo non si sta facendo niente di serio per affrontare queste due grandi sfide ma, anzi, le decisioni che vengono prese attualmente le stanno aggravando: sui disastri ambientali e su come si sta affrontando l’attuale crisi non è necessario soffermarsi.
Quanto alla minaccia di una guerra nucleare, è sulle prime pagine ogni giorno: eppure viene presentata in un modo che apparirebbe stravagante a un osservatore indipendente che si trovasse ad assistere alle strane cose che si fanno sulla Terra.
In effetti questo osservatore indipendente potrebbe pensare che stiamo cercando di risolvere una polemica che ebbe luogo qualche decennio fa tra Carl Segan, un astrofisico, e Ernst Mayr, un biologo. Il punto su cui stavano discutendo era la probabilità che esista vita extraterrestre intelligente. Carl Sagan sosteneva che è molto verosimile che esista, dato che ci sono così tanti pianeti abbastanza simili alla Terra, ed è quindi possibile che si siano evolute specie intelligenti. Ernst Mayr, in quanto biologo, era di parere opposto e sosteneva che dovremmo osservare più attentamente il principale esempio che abbiamo sotto gli occhi: la Terra. Nella storia della vita sulla Terra, ricordava Mayr, sono esistiti diversi miliardi di specie: alcune hanno avuto successo altre no. Si può osservare che il successo di una specie, definito come numero di esemplari che sopravvivono, è in rapporto inverso alla sua intelligenza. Infatti le specie di maggior successo sono quelle che mutano molto rapidamente, come i batteri, oppure quelle che hanno una nicchia ecologica ben definita, come gli scarafaggi. Queste specie se la passano molto bene, dal punto di vista ecologico, a prescindere da quel che succede. Ma via via che procediamo lungo la scala di quello che chiamiamo intelligenza, la sopravvivenza diventa una faccenda molto più arrischiata. Di mammiferi ce n’è molto pochi. Sì, ci sono molte mucche, perché noi le alleviamo, e lo stesso si può dire per i polli, ma la loro sopravvivenza autonoma è un’altra cosa. Quando si arriva ai primati, ce n’è veramente pochi e quanto agli uomini, fino a un’epoca molto recente (diciamo molto recente in termini evoluzionistici) la loro presenza sulla Terra era molto, molto rarefatta.
Inoltre Mayr faceva notare che l’aspettativa di vita di una specie è di circa centomila anni. E appare piuttosto preoccupante, detto per inciso, il fatto che sia più o meno questo l’ordine di grandezza della durata della presenza sulla Terra della specie Homo sapiens. Sicché la conclusione di Mayr è fondamentalmente che l’intelligenza è una mutazione letale: via via che saliamo sulla scala dell’intelligenza c’è sempre più reciproca di- struzione. Così i nostri ipotetici osservatori extraterrestri giungerebbero alla conclusione che noi stiamo cercando di dimostrare che Mayer aveva ragione. E sicuramente si direbbe che le cose stiano così.
Se ora passiamo alla minaccia nucleare, quella attuale risiede (e non è la prima volta che ciò accade) in Medio Oriente: attualmente la nostra attenzione al proposito si concentra sull’Iran. L’opinione predominante in Occidente è chiara e inequivocabile: sarebbe troppo pericoloso consentire all’Iran di raggiungere quella che viene chiamata “capacità nucleare”, vale a dire la competenza tecnica e i mezzi necessari a costruire degli ordigni nucleari, qualora gli iraniani decidessero di farlo (del resto tale competenza è a disposizione di molti paesi in tutto il mondo). Se poi essi abbiano o meno deciso di costruirle, i servizi segreti Usa ammettono di non saperlo. La Iaea dice più o meno la stessa cosa: nel loro ultimo rapporto, che risale a qualche settimana fa, la Iaea conclude “che non si può dimostrare l’assenza di materiale nucleare non dichiarato e di attività nucleari in Iran”, cioè non può dimostrare che queste attività non stiano avvenendo. Questa è una condizione che non può essere soddisfatta, perlomeno non adeguatamente. Pertanto all’Iran dev’essere negato il diritto di arricchire l’uranio, che pure è garantito dal Trattato di non proliferazione nucleare, che in effetti l’Iran ha firmato, a differenza di altre tre potenze nucleari: India, Pakistan e Israele. Questa, ci tengo a sottolinearlo, è l’immagine generale che si ha in Occidente, non nel resto del mondo. Il movimento dei paesi non allineati, che rappresenta la stragrande maggioranza della popolazione e degli Stati del mondo ha assunto una posizione completamente diversa. Sono sicuro che sapete che si sono riuniti recentemente in Iran e hanno approvato una mozione a sostegno del diritto dell’Iran di arricchire l’uranio, così come è garantito dal Trattato di non proliferazione. Non è una posizione nuova, quella che hanno preso, ce l’hanno da molto tempo. È anche abbastanza interessante la posizione che si ha nel mondo arabo, ritornerò a parlarne fra poco.
La ragione fondamentale di questa preoccupazione è stata espressa recentemente da un generale americano, il generale Lee Butler, ex capo del Comando strategico, che si occupa di armi nucleari e delle linee di politica strategica, tra cui l’impiego di armi nucleari; Lee Butler afferma che è “estremamente pericoloso che, in quel calderone di animosità che chiamiamo Medio Oriente, una nazione si doti di ordigni nucleari, inducendo così altri paesi a fare lo stesso”. Dobbiamo rilevare che quando il generale Butler esprimeva questo punto di vista non si stava riferendo all’Iran, bensì a Israele: il paese che nei sondaggi dell’opinione pubblica europea viene considerato il più pericoloso del mondo, subito prima dell’Iran. Secondo l’opinione pubblica nei paesi arabi, invece, il secondo posto in ordine di pericolosità dopo Israele spetta agli Stati Uniti. L’Iran generalmente non gode di grande stima ma occupa una posizione molto più bassa nella classifica della minaccia potenziale.
Diverso è il punto di vista delle dittature: i media e i commentatori occidentali si attengono costantemente al punto di vista dei dittatori. Proprio per questo continua- no a ripeterci che gli arabi vogliono un intervento deciso da parte degli Stati Uniti contro l’Iran, ma questo è il punto di vista dei dittatori. Forse ricorderete che qualche tempo fa WikiLeaks ha reso pubblici dei documenti diplomatici secondo cui i dittatori arabi (l’Arabia Saudita, gli Emirati) invocavano un intervento forte degli Stati Uniti contro l’Iran. Il commento a questo punto di vista era interessante: “Non è meraviglioso? Gli arabi sostengono la politica statunitense contro l’Iran”, che è appunto vero quando parliamo dei dittatori arabi. Contemporaneamente sono venuti fuori alcuni sondaggi secondo cui anche se gli arabi non apprezzano l’Iran, questo paese non viene considerato una minaccia, mentre gli Stati Uniti sono ritenuti una minaccia. In effetti l’avversione per la politica statunitense è talmente forte che la maggioranza si sentirebbe più sicura se l’Iran avesse le armi nucleari: dato che gli Stati Uniti e Israele già ce le hanno, questo è appunto ciò che occorre.
Tutto questo non è mai stato detto e questa reazione illustra il disprezzo per la democrazia che è diffuso nell’opinione pubblica dominata dall’Occidente: non importa che cosa pensi la popolazione dei paesi arabi (questa opinione viene definita derisoriamente come “la piazza araba”), importa semmai quello che pensano i dittatori, giacché questo punto di vista è il nostro “commento sul mondo arabo”.
A differenza dell’Iran, Israele si rifiuta di autorizzare le ispezioni e di sottoscrivere accordi contro la proliferazione delle armi nucleari, dato che dispone di centinaia di ordigni nucleari e di sistemi balistici avanzati. Ha anche una lunga lista di precedenti in fatto di violenze e repressioni; ha annesso vari territori conquistati illegalmente, contravvenendo alle disposizioni del Consiglio di sicurezza dell’Onu; ha commesso molte altre violazioni; ha invaso il Libano cinque volte, senza alcun pretesto credibile, e molto altro ancora. Nel frattempo le minacce di aggressione che provengono dagli Stati Uniti e in particolare da Israele continuano a essere preoccupanti: quasi ogni giorno si registrano minacce di aggressione. Fra l’altro, il segretario alla Difesa statunitense, Leon Panetta ha reagito alla minaccia di Israele dichiarando: “Non vogliamo che attacchino l’Iran, tuttavia Israele è un paese sovrano e può fare quello che gli pare” mentre se l’Iran esprimesse minacce analoghe riguardo a Israele, cosa che non sta facendo, la reazione sarebbe molto diversa.
Se qualcuno di voi ha interesse per i documenti antichi rammenterà che esiste un documento chiamato Statuto delle Nazioni Unite: un dispositivo chiave di questo statuto chiede agli Stati membri di astenersi, nelle loro relazioni internazionali, dalla minaccia o dall’uso della forza; eppure ci sono due “Stati canaglia”, gli Stati Uniti e Israele, che non prestano attenzione a tutto ciò: lanciano continuamente gravi minacce e l’Unione europea li lascia fare educatamente. Non sono solo minacce verbali: c’è una guerra in corso, o perlomeno quello che noi considereremmo una guerra in corso se fosse rivolta contro di noi. Avvengono regolarmente assassini di scienziati, atti terroristici, c’è una gravissima guerra economica. Le minacce statunitensi, che sono unilaterali, hanno estromesso l’Iran dal sistema finanziario internazionale. Gli Stati europei non disobbediscono agli Stati Uniti e si sono allineati.
Cinque comandanti di alto livello della Nato hanno recentemente reso nota quella che chiamano “una nuova strategia di ampio respiro” con cui identificavano una serie di atti di guerra che legittimano una reazione violenta. Tra questi atti di guerra vi sono le armi della finanza: il loro uso è un atto di guerra che giustifica un’azione violenta quando quelle armi sono dirette contro di noi; certo, tagliare fuori l’Iran dai mercati finanziari è tutta un’altra faccenda. Gli Stati Uniti sono molto fieri di annunciare che stanno intraprendendo una guerra informatica contro l’Iran: d’altra parte il Pentagono ha identificato la guerra informatica come un grave attacco militare che giustifica la nostra reazione militare. Ma questa è la differenza tra ciò che noi facciamo a loro e ciò che loro fanno a noi.
Israele dispone di un enorme arsenale bellico convenzionale, non solo nucleare. Recentemente, qualche mese fa, Israele ha ricevuto dei sottomarini, forniti dalla Germania, che possono portare i missili muniti di testate nucleari di Israele e si presume che verranno schierati nel Golfo Persico o nei paraggi (potrebbero essere già lì). Certamente se Israele procede con l’idea di bombardare l’Iran e li Stati Uniti naturalmente dispongono di un vasto arsenale di armi nucleari nella regione circostante, dall’Oceano Indiano fino all’Occidente: nel solo Golfo Persico gli Stati Uniti dispongono di sufficienti armamenti per distruggere il mondo molte volte.
Un’altra vicenda che è tornata alla ribalta dei giornali recentemente è il bombardamento da parte di Israele del reattore nucleare iracheno di Osirak nel 1981. Quest’azione è stata presentata come un modello per il bombardamento israeliano dell’Iran. È stato raramente rilevato che quel bombardamento non ha messo fine al programma nucleare iracheno, bensì lo ha fatto ini- ziare. Questo lo sappiamo perfino dai servizi segreti statunitensi: Saddam Hussein non aveva ancora un programma di armamenti nucleari ma, dopo quel bombardamento, fece in modo di svilupparne uno. Questo fu l’effetto del bombardamento del 1981. Se domani l’Iran verrà bombardato, è quasi sicuro che procederà proprio come ha fatto l’Iraq. Non è una prospettiva simpatica.
Fra poche settimane celebreremo l’anniversario della “crisi più pericolosa nella storia dell’umanità”. Non sono ovviamente parole mie: sto citando Arthur Schlesinger, consigliere del presidente John F. Kennedy, a proposito della crisi dei missili di Cuba dell’Ottobre del 1962. Dubito che la commemorazione presenterà con accuratezza quello che è avvenuto ma dovreste tenerlo presente: Kennedy dichiarò l’allerta nucleare al secondo livello di pericolosità, cioè quello immediatamente precedente al lancio dei missili. Diede l’autorizzazione all’aviazione Nato, con piloti turchi, di decollare, volare verso Mosca e prepararsi a scaricare delle bombe che avrebbero scatenato una guerra ato- mica. Nel momento culminante della crisi, lo stesso Kennedy stimò che le probabilità di una guerra atomica erano arrivate al 50%. Il presidente Eisenhower aveva avvertito che una guerra del genere avrebbe devastato l’emisfero settentrionale. Pur trovandosi di fronte a quella prospettiva, il presidente si rifiutò di accettare pubblicamente un’offerta del primo ministro russo Chruščëv: quella cioè di mettere fine alla crisi con il simultaneo ritiro dei missili russi da Cuba e di quelli statunitensi dalla Turchia. Erano missili obsoleti, l’ordine di ritiro era già stato emanato in precedenza perché li stavano rimpiazzando con gli invulnerabili sottomarini Polaris. Cionondimeno Kennedy si rifiutò di accettare quella proposta. Si riteneva che fosse opportuno ribadire il principio che la Russia non avrebbe dovuto disporre di armi nucleari in alcun luogo oltre i confini dell’Unione Sovietica, mentre gli Stati Uniti devono mantenere il diritto di tenerli ovunque essi vogliano schierarli, in tutto il mondo, rivolti contro la Russia o magari anche contro la Cina. In effetti proprio in quel periodo, nel 1962, gli Stati Uniti avevano segretamente schierato dei missili a Okinawa, che in teoria era un’isola giapponese, anche se di fatto gli Usa se ne erano appropriati dopo la Seconda guerra mondiale per installarvi una base militare, nonostante la forte e ostinata protesta della popolazione di Okinawa. Quei missili erano puntati contro la Cina, durante una fase di gravi tensioni a livello regionale. È una cosa che siamo venuti a sapere solo di recente.
Per fortuna, Chruščëv accettò di lasciar perdere. Ma il mondo non può fare affidamento su una serenità mentale del genere. Quello che preoccupa di più è constatare che gli intellettuali e gli studiosi considerano la scelta di Kennedy come il momento più splendido della sua presidenza.
Credo che tutto questo richieda una seria riflessione sull’incapacità di fare i conti con la verità su noi stessi. Questa è una caratteristica fin troppo comune della cultura degli intellettuali e ha delle implicazioni piuttosto preoccupanti. Tutto ciò è accaduto nel 1962. Dieci anni dopo, durante la guerra arabo-israeliana del 1973, Henry Kissinger lanciò un’allerta nucleare di alto livello: lo scopo era quello di avvertire i russi di tenere le mani a posto mentre lui stava segretamente informando Israele che poteva tranquillamente violare il cessate il fuoco impostogli dagli Usa e dall’Urss. È quello che si è scoperto sulla base di documenti resi pubblici solo di recente. Naturalmente si trattava di una faccenda piuttosto seria.
Quando Ronald Reagan entrò in carica, qualche anno dopo, gli Stati Uniti lanciarono delle operazioni per sondare le difese russe, simulando attacchi aerei e navali, schierando in Germania dei missili Pershing che potevano raggiungere obiettivi russi nel giro di 5 minuti e offrivano quella che la Cia chiamava la “capacità superimprovvisa di sferrare il primo colpo” (super-sudden first strike capability): naturalmente i russi erano molto preoccupati da tutto questo. Non sapevano se tutte quelle manovre (che comprendevano penetrazioni nello spazio aereo sovietico per simulare attacchi aerei e navali) fossero o meno attacchi veri e propri. Erano preoccupati e questo portò a un grave allarme bellico generale nel 1983.
Vi sono stati centinaia di episodi in cui solo l’intervento umano ha consentito di sventare un primo attacco nucleare appena qualche minuto prima del lancio. Questo accadeva quando i sistemi automatizzati scatenavano falsi allarmi, come fanno regolarmente. E di questo siamo informati solo per il versante statunitense. Non sappiamo quasi nulla riguardo ai russi, ma non c’è alcun dubbio che i loro sistemi fossero di gran lunga più esposti ad avarie di quanto non si possa dire di qualsiasi altra potenza nucleare. In effetti è quasi un miracolo che la guerra nucleare sia stata finora evitata di stretta misura, mentre noi ne stiamo acuendo sempre di più la minaccia.
Nel frattempo l’India e il Pakistan si sono avvicinati alla guerra nucleare varie volte e la crisi permane, soprattutto riguardo al Kashmir. Ambedue i paesi si sono rifiutati di firmare un trattato di non proliferazione al pari di Israele e, proprio come Israele, hanno ricevuto il supporto tecnico degli Stati Uniti per lo sviluppo del loro programma nucleare. Questo continua ad avvenire ancora adesso, negli ultimi due anni a favore dell’India, da quando è diventata un alleato degli Stati Uniti.
Negli ultimi anni la minaccia bellica nel Medio Oriente sta esasperando questi pericoli. C’è qualche modo per affrontarli? Sì c’è un modo molto diretto per mitigare la minaccia che si ritiene l’Iran stia rappresentando. Questo modo per mitigare la minaccia consisterebbe nell’istituire una zona esente da armi nucleari in Medio Oriente. Questa proposta gode di un enorme sostegno a livello internazionale. È stata invocata ripetutamente dal Consiglio di sicurezza dell’Onu. Ci sono attualmente due paesi che si impegnano in particolar modo a raggiungere questo obiettivo: e sono gli Stati Uniti e la Gran Bretagna. Il motivo di questo è che quando gli Stati Uniti e la Gran Bretagna invasero l’Iraq, dieci anni fa, cercarono di fornire un’esile giustificazione legale della loro invasione. Come rammenterete, essi affermarono che l’Iraq aveva programmi per costruire armamenti nucleari e fecero riferimento a una risoluzione del Consiglio di sicurezza dell’Onu, la risoluzione 687 del 1991, che obbligava l’Iraq a cessare i suoi programmi nucleari militari. Questo fu il pretesto della guerra. Sappiamo che cosa ne è stato di tale pretesto. Molto meno dibattuto (anzi in effetti non è stato affatto dibattuto) è il fatto che la stessa risoluzione 687 chiedeva a tutti gli Stati di istituire nel Medio Oriente una zona esente da armamenti nucleari. Per questo gli Usa e la Gran Bretagna hanno uno specifico dovere in questo senso. E l’ultima più importante risoluzione dell’Onu sul programma nucleare iraniano delinea con forza questo obiettivo. C’è una fortissima pressione internazionale che coinvolge perfino la maggioranza della popolazione in Israele ma, fino a questo momento, tutto ciò è stato bloccato dagli Stati Uniti che insistono che Israele deve essere escluso da questo obiettivo. C’è un’opportunità che si presenterà il prossimo dicembre [2012] quando si terrà una conferenza internazionale, patrocinata dall’Onu, sulla prospettiva di andare verso una zona esente da armamenti nucleari: tuttavia, a meno che non vi sia una fortissima pressione dell’opinione pubblica, è alquanto improbabile che essa venga realizzata. Eppure pochissime persone sono consapevoli di questo. La stampa non ne parla e gli Stati Uniti non ne discutono mai. Non posso essere altrettanto sicuro riguardo all’Europa ma non ho mai visto niente, e neanche, in generale, in Occidente. L’unica eccezione sono le riviste specializzate, perché queste riportano qualcosa sul controllo degli armamenti, ma sono troppo poche le persone che le leggono.

Ora mettiamo da parte queste cupe prospettive e guardiamo come si è sviluppato il sistema mondo dopo la Seconda guerra mondiale, come è cambiato nel corso degli anni e a che punto sono le cose oggi.
C’è un’idea molto diffusa, e sto citando dall’Accademia statunitense di scienze politiche, secondo cui appena qualche anno fa si pensava che l’America “si sarebbe imposta nel mondo come un colosso dotato di una potenza senza precedenti e una forza d’attrazione senza uguali, ma ora è in declino e sta preoccupantemente fronteggiando la prospettiva della sua definitiva scomparsa”. «Current Affairs», la principale rivista della classe dirigente statunitense ha pubblicato qualche mese fa un numero speciale la cui copertina esibiva un titolo a caratteri cubitali: Is America Over? L’America è finita?
Queste idee godono di molto credito e, secondo me, ci sono parecchi argomenti a loro favore. Tale declino è reale ma le sue origini non sono recenti. In effetti il declino continua dalla fine della Seconda guerra mondiale: la potenza statunitense ha raggiunto allora l’apice della sua forza ed è allora che è iniziato il suo declino. Ma c’è un corollario che viene formulato attualmente e cioè che il potere passerà alla Cina e all’India: questo è sommamente dubbio, credo, perché si tratta di paesi poveri, con problemi interni molto gravi; non ho il tempo di approfondire, ma posso farlo se lo desiderate. Tuttavia, nono- stante il perdurante declino statunitense, nel futuro che possiamo prevedere non c’è alcun candidato all’egemonia del potere globale. Questo rimane vero anche se ci limitiamo a una sola dimensione, cioè quella militare. Se pensiamo alla spesa per il settore militare, la spesa statunitense è quasi pari a quelle di tutto il resto del mondo messe insieme. Inoltre gli Usa sono tecnologicamente molto più avanzati, e per giunta sono i soli ad avere basi militari, circa un migliaio, sparse in tutto il mondo. Recentemente sono state fornite le cifre sulla vendita globale di armi: le vendite globali di armi statunitensi costituiscono il 75% del mercato mondiale e sono di dieci volte superiori a quelle del secondo paese, cioè la Russia. E la dimensione militare è solo una fra le tante possibili. Sicché il declino è reale, ma il potere rimane sovrastante.
Se ritorniamo all’inizio dell’epoca contemporanea, durante la Seconda guerra mondiale i pianificatori statunitensi del presidente Roosevelt si erano resi conto che gli Usa sarebbero usciti dalla guerra in una posizione di schiacciante superiorità. In effetti risulta molto chiaramente dalle evidenze documentali che il presidente Roosevelt puntava all’egemonia statunitense nel mondo del dopoguerra. Se facciamo riferimento alle dichiarazioni dello storico e diplomatico britannico Geoffrey Warner, uno dei più stimati specialisti su questo periodo e sulle evidenze documentali, vediamo che quello che egli afferma riguardo a questo periodo è solidamente basato sui documenti: durante la Seconda guerra mondiale si stavano tracciando dei piani per realizzare la cosiddetta Grand Area, che avrebbe dovuto includere come minimo l’intero emisfero occidentale, ovviamente, l’Estremo Oriente e l’ex Impero britannico che gli Usa avrebbero dovuto rilevare, in particolare i cruciali giacimenti di petrolio del Medio Oriente e anche la maggior parte dell’Eurasia che fosse possibile. Quantomeno il suo nucleo industriale nell’Europa occidentale e negli Stati europei meridionali, Italia e Grecia: questi ultimi due paesi, in base alle pianificazioni di allora, venivano ritenuti essenziali per assicurarsi le risorse di petrolio del Medio Oriente che sarebbero dovute passare attraverso il Mediterraneo. All’interno di questi domini allargati, dicevano i documenti del tempo, gli Stati Uniti avrebbero dovuto mantenere un potere indiscusso e una completa supremazia militare ed economica, assicurando la limitazione di qualsiasi sovranità da parte di altri Stati che avrebbero potuto interferire con questi progetti globali. Questi piani sono ancora in vigore sebbene la capacità di attuarli sia in forte declino. In effetti sappiamo molto riguardo alla pianificazione interna degli Stati Uniti: la ragione di ciò è che gli Stati Uniti sono una società insolitamente libera, probabilmente più libera di qualsiasi altra, in cui per esempio si può usufruire di una straordinaria possibilità di accedere agli archivi interni. Un ulteriore commento che va fatto su tutto questo è che la maggior parte della popolazione viene tenuta al riparo da tutto ciò perché i media – e anche gli studi accademici in certo qual modo – fanno finta che tutto ciò non esista, a eccezione degli studi estremamente specializzati. Questi programmi non erano affatto irrealistici: per molto tempo gli Stati Uniti sono rimasti il paese di gran lunga più ricco del mondo e per alcuni aspetti lo sono ancora oggi.
L’enorme stimolo fornito dal governo statunitense all’economia americana durante la Seconda guerra mondi- ale ha messo fine alla Depressione e in effetti la capacità industriale statunitense è quasi quadruplicata durante la Seconda guerra mondiale, mentre nel frattempo le potenze industriali rivali venivano decimate. Alla fine della guerra gli Stati Uniti disponevano letteralmente di metà della ricchezza mondiale e di una sicurezza senza uguali, che non è mai più stata in simili condizioni di dominio globale. È seguita la Guerra fredda e, se consideriamo gli eventi di quella Guerra, essi consistevano in gran parte negli sforzi da parte delle due superpotenze volti a imporre l’ordine nei propri domini, che per l’Unione Sovietica erano costituiti dall’Europa Orientale, il tradizionale corridoio d’invasione nella Russia e per gli Stati Uniti erano il resto del mondo. Questo accadeva nel 1945 e molto rapidamente quella Grande area cominciò a venire erosa: il primo episodio critico, molto grave, si verificò nel 1949, quando avvenne quella che, per descriverla con l’espressione tradizionale, fu “la perdita della Cina”, cioè l’indipendenza della Cina. Questo ebbe gravi ripercussioni interne negli Stati Uniti e fu uno dei fattori che portò a quello che oggi viene chiamato il Maccartismo.
Quell’espressione, “la perdita della Cina” è interessante, perché uno può perdere solo quello che possiede, e quindi implicava che gli Stati Uniti possedessero la maggior parte del mondo, sicché quando una parte di esso andava “perduta” bisognava cercare chi era il “colpevole” di questa perdita. Poco dopo anche l’Asia sud-orientale cominciò a sfuggire al controllo, portando ad altre “perdite”, negli anni cinquanta. Gli Stati Uniti avevano lanciato, sostenendo la Francia, quella che sarebbe diventata l’orrenda Guerra d’Indocina di Washington. In seguito un altro caso fu costituito dagli spaventosi massacri in Indonesia quando, nel 1965, venne ripristinato il dominio statunitense. Molti altri casi (sovversione, violenze di massa) continuavano altrove per ripristinare la stabilità, ovvero la conformità alle richieste statunitensi. L’Italia non fu esente da tutto questo: sono sicuro che saprete che nel 1948 gli Stati Uniti intervennero in maniera massiccia in Italia per assicurarsi il pieno controllo del potere politico. Negli anni seguenti l’Italia, più di qualsiasi altro paese, fu teatro di attività clandestine della Cia, quantomeno fino agli anni settanta, poi i documenti accessibili su questa attività cominciano a farsi più scarsi.
Comunque il declino era inevitabile. Il mondo industriale fu ricostituito e ricostruito, la decolonizzazione proseguì la sua tormentosa traiettoria. E negli anni settanta la quota della ricchezza mondiale in mano agli Usa era scesa al 25%. È una quota colossale ed è pari a quella che è oggi ma è pur sempre meno del 50%. A quel punto il mondo industrializzato era già diventato “tripolare”, perché aveva tre principali centri: gli Usa, l’Europa e l’Asia che, con il Giappone, stava già diventando la regione industriale più dinamica del mondo. Vent’anni dopo l’Unione Sovietica sarebbe crollata.
Per coloro che comprendono la realtà della Guerra fredda, è estremamente interessante osservare quello che accadde quando essa finì. Era l’epoca della prima presidenza Bush, del Bush “presentabile”. L’amministrazione dichiarò fin dal principio che la linea politica statunitense sarebbe rimasta immutata, sia pur con diversi pretesti. Sicché l’enorme apparato militare sarebbe stato mantenuto in funzione, ma non più contro i russi, bensì per fare fronte a quella che chiamarono “la raffinatezza tecnologica delle potenze del Terzo mondo”. Gli intellettuali educati a questo punto non ridono. Analogamente si affermò che sarebbe stata mantenuta in funzione la produzione industriale bellica, che è un eufemismo per dire l’industria avanzata, che dipende fortemente dai sussidi governativi e dalle iniziative istituzionali, il che peraltro è del tutto contrario ai deliri liberisti.
Che dire dei reparti di pronto intervento? Dovevano sempre essere pronti a intervenire in Medio Oriente, dove i problemi più gravi non potevano più essere “attribuiti alle responsabilità del Cremlino”. Si noti che con questa dicitura ufficiale si riconoscevano cinquant’anni di mistificazioni, durante i quali si era sempre affermato che tutto era colpa dei russi. Sicché bisognava a questo punto riconoscere che il problema era sempre stato il nazionalismo radicale, che consiste nel tentativo delle nazioni di perseguire la propria linea indipendente in aperta violazione di principi esteriori. E del resto ormai i russi, pur esercitando un dominio molto più ristretto, potevano ancora intervenire in Ungheria, Cecoslovacchia e Polonia, mentre gli Stati Uniti avevano a disposizione tutto il mondo. Comunque i principi vennero mantenuti, non vennero modificati. In effetti l’amministrazione Clinton dichiarò che “gli Stati Uniti hanno il diritto di usare la forza unilateralmente, per assicurare l’accesso incontrastato ai mercati chiave, alle risorse energetiche e strategiche e devono mantenere dei contingenti militari schierati in posizione avanzata in Europa e in Asia, per dare forma all’opinione della gente su di noi, anziché promuoverla mediante una gentile persuasione, e per plasmare gli eventi che influiranno sulle nostre risorse vitali e sulla no- stra sicurezza”. Questa citazione è tratta da documenti ufficiali che risalgono all’epoca della presidenza Clinton e si spinge molto più in là di quanto avrebbe fatto George W. Bush. I proclami di Bush suscitarono un’enorme rabbia e preoccupazione, mentre quelli, ben più estremi, di Clinton vennero ignorati perché erano stati presentati in maniera molto più pacata e gentile e non arrogante, ma il tenore dei documenti stessi era in effetti molto più risoluto.
Un esempio molto istruttivo è la Nato. Secondo la dottrina standard, la Nato venne istituita per difendere l’Europa dalle orde russe. Ma dopo il 1989 non c’erano più orde russe, perciò pochi credevano più alla dottrina ufficiale e le truppe Nato avrebbero dovuto essere ridotte o eliminate. Viceversa, la Nato venne immediatamente allargata a est, in violazione degli impegni verbali presi con Mikhail Gorbacëv, quando aveva acconsentito a che una Germania unificata entrasse a far parte della Nato, la quale fu una concessione sbalorditiva da parte sua, alla luce della storia. Ma c’era stato un qui pro quo: Gorbacëv aveva ricevuto una garanzia dal presidente Bush e dal segretario di Stato James Baker che la Nato non si sarebbe spostata di un centimetro più a est, vale a dire al massimo alla Germania Est e sicuramente non oltre. Tuttavia questa promessa fu immediatamente infranta e Gorbacëv ne fu naturalmente irritato, ma quando si lamentò il governo statunitense lo informò che “si era trattato soltanto di un accordo verbale”, non c’era niente di scritto e se lui era tanto ingenuo da accettare le promesse di un’amministrazione americana, quello era un problema suo.
Al giorno d’oggi la Nato è diventata una forza d’intervento globale sotto il comando Usa. Ha un compito ufficiale, vale a dire di controllare il sistema energetico internazionale, cioè le vie marittime e gli oleodotti e tutto quello che la potenza egemonica stabilisce.
C’è stato un periodo di euforia dopo il crollo della superpotenza nemica: c’era chi scodinzolava per la fine della storia, per la possibilità di realizzare finalmente degli interventi umanitari, l’idealistico mondo nuovo impaziente di vedere come l’umanità finalmente si sarebbe lasciata guidare dall’altruismo, dai principi e dai valori… questo è solo un esempio della retorica che promanava dagli intellettuali ispirati statunitensi ed europei negli anni novanta. Non tutti però erano rapiti dallo stesso entusiasmo. Le vittime tradizionali, il Sud globale, condannarono amaramente quello che essi definirono “il cosiddetto rito dell’intervento umanitario” in cui essi riconoscevano il vecchio rito della dominazione imperia- lista. Ma, come al solito, vennero ignorati.
Dopo che Bush 2 assunse il potere, l’opinione pubblica mondiale – sempre più ostile – non poteva più essere ignorata, in particolare nel mondo arabo, dove l’indice di gradimento di Bush era precipitato. Una delle im- prese più impressionanti del presidente Obama è di essere riuscito a diventare addirittura più impopolare di Bush. La sua popolarità è del 5% in Egitto e non è molto più alta nel resto della regione. Se consideriamo la reazione che fu tributata a Bush, questa è un’impresa non da poco.
Nel frattempo il declino proseguiva. Nell’ultimo decennio anche il Sud America è stato “perduto”. Questo è già abbastanza grave. Ma ancora più grave sarebbe un moto verso l’indipendenza nel Medio Oriente: i pianificatori degli anni quaranta avevano stimato che il controllo delle incomparabili riserve di fonti energetiche del Medio Oriente avrebbe assicurato il sostanziale controllo del mondo. Questa era l’opinione dell’influente consigliere di Roosevelt, [Adolf A.] Berle, e di molti altri: era il punto di vista prevalente.
Secondo questo principio, una perdita di controllo metterebbe a repentaglio il programma di dominio globale che era stato chiaramente articolato durante la Seconda guerra mondiale ed è stato supportato da allora in poi, nonostante i grandi cambiamenti verificatisi nell’ordine mondiale.
C’è un ulteriore pericolo in Medio Oriente e altrove: può darsi che siano iniziate significative trasformazioni verso la democrazia e questo rappresenta una minaccia. Basta dare un’occhiata alle ricerche occidentali sull’opi- nione pubblica nel mondo arabo, ce ne sono molte e sono piuttosto coerenti fra loro e chiariscono molto bene per quale motivo la democrazia rappresenti una grave minaccia che deve essere prevenuta il più possibile. Gli Stati Uniti e i loro alleati occidentali non vogliono che le loro scelte politiche vengano messe in discussione dall’opi- nione pubblica riguardo al fatto che sono Israele e gli Stati Uniti a rappresentare la maggiore minaccia: una minaccia così grave da indurre molti a ritenere che la regione se la passerebbe molto meglio se l’Iran disponesse di armamenti nucleari. Ovviamente questo non è ciò che l’Occidente vuole. Per l’Occidente gli Stati più importanti sono le dittature dei paesi produttori di petrolio, l’Arabia Saudita e gli Emirati. Lì le rivolte democratiche sono state brutalmente represse, con il sostegno e la tolle- ranza dell’Occidente. Altrove, come per esempio in Egitto, la precedente struttura della dittatura militare rimane parzialmente integra, anche se è minacciata da forze popolari e questo costituisce motivo di gravi preoccupazioni: questo è diverso dalla retorica ufficiale, ma la retorica ufficiale deve essere sempre considerata con estremo scetticismo, per ovvie ragioni.
Il controllo del Medio Oriente rimane per il momento intatto, ma cionondimeno il declino degli Usa prosegue. Un fatto significativo è che questo declino è, in misura non piccola, autoinflitto. C’è una recente ricerca dell’Economic Policy Institute di Washington, che è la principale fonte di regolari informazioni e analisi in economia, intitolata “Fallimento su basi progettuali” (Failure by design): questo studio passa in rassegna i dati sull’impatto della politica neoliberale nell’ultima generazione e rileva che c’è stata una notevole concentrazione delle ricchezze, mentre la retribuzione dei lavoratori salariati è rimasta stagnante o è diminuita: le ore lavorative sono aumentate, ben oltre l’Europa, e il già debole sistema dei benefici aggiunti è stato eroso. Gli autori mettono in rilievo che questo fallimento è basato sulla divisione in classi: i progettisti hanno ottenuto successi spettacolari; e inoltre rimarcano che questo accade in base a un ben preciso progetto. Orientamenti politici alternativi sono sempre stati possibili, lo sono ancora, e non ci addentreremo in questo argomento; lo stesso vale anche per l’Europa, ma atteniamoci agli Stati Uniti per il momento. Il potere delle grandi società è prevalentemente costituito dal ca- pitale finanziario ed è diventato talmente importante per la politica che oramai entrambi i partiti (i repubblicani e i democratici) si collocano molto a destra della popolazione sulle principali questioni del dibattito pubblico. Ci sono importanti ricerche a questo riguardo svolte da studiosi di scienze politiche di alto livello. Esse chiariscono al di là di ogni dubbio che nel vacillante sistema politico attuale i più ricchi, il 3% della popolazione se non addirittura lo 0,1% se vogliamo prendere sul serio i sondaggi, ottengono sempre quello che vogliono, quali che siano le preferenze espresse dal grande pubblico. Gli studi più recenti e accurati svolti da Martin Gilens dimostrano che i 3/4 della popolazione sono impotenti a indirizzare la politica del governo: possono dire pure quello che vogliono, non cambia nulla. I meccanismi non sono affatto oscuri.
Comunque è corretto affermare che la Federal Reserve (Fed), cioè la Banca centrale statunitense è profondamente influenzata dai grandi gruppi finanziari (Corporations) e questa situazione appare discretamente progressista in confronto a quello che sta accadendo alle Banche centrali in Europa. La Federal Reserve ha sostanzialmente due compiti formali. Il primo è mantenere sotto controllo l’inflazione; il secondo è ridurre la disoccupazione. Questo secondo compito è l’unico che presenti qualche interesse, visto che non c’è minaccia di inflazione, anzi c’è deflazione; il secondo compito viene considerato con una certa attenzione, mentre la Fed ha stampato moneta, per fornire stimolo alla crescita.
Quanto alla Banca centrale europea (Bce), la sua posizione è decisamente diversa. Il suo unico compito è quello di mantenere sotto controllo l’inflazione, a beneficio dei banchieri, in particolar modo della Bundesbank. Questo fornisce una gradita opportunità di smantellare lo stato sociale, che è uno dei grandi contributi europei alla civiltà nell’epoca moderna. Questo è ciò che stiamo vedendo con i nostri occhi. Il presidente della Bce Mario Draghi sapeva benissimo quello che stava dicendo quando ha informato il «Wall Street Journal» che, se- condo lui, “il tradizionale contratto sociale del continente è obsoleto” non per una ragione intrinseca bensì per un ben preciso progetto. Le alternative sono possibili.
Questi colpi autoinflitti negli Stati Uniti così come in gran parte dell’Occidente non sono innovazioni recenti: risalgono agli anni settanta del Novecento, quando l’economia politica nazionale subì radicali trasformazioni, ponendo fine a quella che fu chiamata “l’età aurea del capitalismo”. Dovrebbe essere chiamato capitalismo di Stato, per via dei massicci interventi statali.
Rimarremo negli Stati Uniti ma il processo è internazionale e sta assumendo varie forme nelle diverse parti del mondo del capitalismo di Stato. Vi sono stati due principali processi: il primo è consistito nella finanziarizzazione, il secondo nella esternalizzazione della produzione off-shore. C’erano delle ragioni perché questo accadesse, ma le linee politiche che sono state adottate non erano affatto necessarie. Esse rispecchiavano il crescente potere del capitale internazionale dei grandi gruppi societari, che è sostanzialmente finanziario, e rispecchiavano anche il trionfo ideologico di quelle che vengono chiamate dottrine del libero mercato, che tradotte in politica comportavano una secca diminuzione delle tasse per i più ricchi e per i grandi gruppi societari, la deregolamentazione, la riformulazione di regole di gestione dei gruppi societari che consentissero alle retribuzioni dei superdirigenti di raggiungere livelli inauditi e analoghe decisioni politiche. Vorrei sottolineare una volta di più che il concetto di “libero mercato” è più propaganda che realtà. I ricchi che operano nel settore dei grandi gruppi societari ci tengono ad avere uno Stato molto potente: uno Stato che interviene radicalmente a perturbare i mercati, nel loro esclusivo interesse, beninteso. La concentrazione di ricchezza che ne è derivata ha prodotto automaticamente potere politico e questo ha accelerato un circolo vizioso che ha portato lo 0,1% della popolazione (per esempio i dirigenti dei grandi gruppi societari, i gestori di hedge funds e di fondi finanziari), letteralmente, a raccogliere una straordinaria quantità di ricchezze, mentre per la stragrande maggioranza il reddito è rimasto praticamente stagnante oppure è diminuito. Nel frattempo il costo delle elezioni è decollato: in questi giorni si stanno spendendo miliardi di dollari per le elezioni presidenziali statunitensi. Questo porta entrambi i candidati e i loro partiti a legarsi ancora più strettamente ai grandi gruppi societari, là dove sono i soldi. Per questo motivo negli Stati Uniti le elezioni oramai sono ridotte a una farsa grottesca, se solo vogliamo osservarle con attenzione.
L’economia dell’epoca post-aurea è un esito o meglio un incubo che era stato preso in considerazione dagli economisti classici: Adam Smith e David Ricardo. Sia Smith sia Ricardo previdero che se i commercianti e i fabbricanti britannici (naturalmente allora si occupavano della Gran Bretagna) avessero investito all’estero e si fossero basati sulle importazioni, loro ne avrebbero tratto profitto ma l’Inghilterra ne avrebbe sofferto. Entrambi speravano che queste conseguenze avrebbero potuto essere evitate da quelli che venivano chiamati “acquirenti interni” (home buyers), cioè coloro che manifestavano una preferenza a fare affari all’interno del proprio paese e a vederlo crescere e svilupparsi, di modo che, “come per effetto di una mano invisibile”, l’Inghilterra sarebbe stata salvata dalle devastazioni dei mercati globali. Credo che questa sia l’unica circostanza in cui compaia, nel classico saggio di Adam Smith sulla Ricchezza delle nazioni, la famosa espressione della “mano invisibile”. Sostanzialmente essa compare nel corso dell’argomentazione contro quella che oggi noi chiamiamo globalizzazione neoliberale. Il suo diretto successore, Ricardo, affermò che grazie agli “acquirenti interni” la “maggior parte dei possidenti si sarebbero accontentati di un basso tasso di profitto nei rispettivi paesi, anziché cercare maggiori vantaggi e impieghi per le loro ricchezze in nazioni straniere: un sentimento, questo, che mi rincrescerebbe di vedere indebolito”. Queste erano le opinioni di Adam Smith e David Ricardo.
Negli ultimi trent’anni i “padroni dell’umanità”, come li chiama Smith, hanno deposto ogni riserva sentimentale in difesa del benessere delle proprie società, concentrandosi piuttosto sul profitto a breve termine e sugli enormi bonus (al diavolo il paese!), perlomeno fino a quando il potente Stato rimane intatto per difendere i loro inte- ressi: questa polizza assicurativa dei governi che viene designata familiarmente con l’espressione “troppo grande per fallire” (too big to fail), significa che le banche saranno salvate se sono troppo grandi. Questa “assicurazione” si stima che costi annualmente 60 miliardi di dollari regalati dai contribuenti alle principali banche, e questo è solo un piccolo esempio dei sussidi di Stato ai ricchi e ai potenti.
L’ordine mondiale emergente è descritto in modo molto calzante in una guida per gli investitori che è stata prodotta qualche anno fa da Citygroup, un’enorme banca che per trent’anni si è ingrassata al truogolo del denaro pubblico, in un ciclo di prestiti arrischiati, enormi profitti, crolli, salvataggi con denaro pubblico, e così via. Sta accadendo di nuovo ma in realtà la cosa va avanti dai primi anni Ottanta. Gli analisti della banca descrivono un mondo che si sta dividendo in due blocchi: da una parte c’è quello che essi definiscono “plutonomia”, dall’altra la grande maggioranza, che a volte essi definiscono “precariato globale”, cioè coloro che vivono esistenze precarie, abbiano o meno un lavoro fisso. Negli Usa essi sono soggetti alla “crescente insicurezza dei lavoratori” che sarebbe la base di un’economia sana, come ha spiegato al Congresso l’ex presidente della Fed Alan Greenspan, cantando le lodi del proprio operato in fatto di gestione economica durante gli anni di Clinton.
Questa è la vera transizione del potere nella società globale: non quella della Cina e dell’India, bensì quella della “plutonomia globale”. Gli analisti della Citygroup consigliavano gli investitori di concentrare la loro attenzione sui soggetti molto ricchi, quelli intorno ai quali succede sempre qualcosa, dove c’è azione, quelli che hanno un “portafoglio azionario plutonomico”, prodotti e atti- vità che portano beneficio alla piccolissima quota di super-ricchi. Essi rilevavano che, dal 1985 in poi, il loro “portafoglio azionario plutonomico” aveva fornito prestazioni finanziarie migliori rispetto alla graduatoria economica mondiale dei paesi avanzati.
Era stato appunto nel 1985 che il programma economico Reagan-Thatcher di arricchire i già molto ricchi e punire il resto aveva cominciato a decollare. Prima del crollo del 2007, di cui quegli stessi analisti sono stati in gran parte responsabili, le istituzioni finanziarie del “fallimento su basi progettuali” neoliberale avevano conqui- stato un sorprendente potere economico; avevano più che triplicato le loro quote di profitti societari. Dopo il crollo, per la prima volta, un certo numero di economisti ha cominciato a porsi delle domande riguardo alle proprie funzioni, in termini puramente economici, cosa che sorprendentemente non avevano mai fatto. Un premio Nobel per l’economia, Robert Solow (Mit) ha pubblicato uno studio in cui concludeva che mentre “l’impatto ge- nerale delle istituzioni finanziarie è probabilmente negativo – cioè esse sono nocive – e probabilmente queste istituzioni aggiungono poco o nulla all’efficienza dell’economia reale”, laddove “i disastri trasferiscono denaro dalle mani dei contribuenti a quelle dei finanzieri”.
Martin Wolf del «Financial Times» di Londra, che è forse il più stimato corrispondente del mondo finanziario, scrive che “il settore finanziario, sfuggito ormai a qualsiasi controllo, sta divorando dall’interno la moderna economia di mercato, proprio come la larva della vespa pompilide divora il suo ospite vivo nel cui corpo è stata inoculata”. Questo però è un grande successo per quell’1% della popolazione che ha progettato l’attuale sistema di cui, cosa che certo non sorprende, proprio quella piccola percentuale è beneficiaria. Ora, dopo aver ridotto a pezzettini quel che rimane della democrazia politica, essa ha posto le basi per portare avanti quel processo letale, quantomeno fino a quando le sue vittime saranno disposte a soffrire in silenzio.

Le domande del pubblico

– Vorrei chiedere al professore, che ha parlato della straordinaria libertà del suo paese, se ha qualcosa da dirci sulla libertà di informazione in Italia, che sembra essere di cattiva qualità, e risulta tale anche nelle classifiche internazionali. Si parlava degli archivi che negli Usa vengono aperti ogni 30 anni, mentre qui in Italia, anche a proposito degli interventi della Cia, non si riescono ancora ad avere delle idee certe.

L’Italia ha un livello piuttosto elevato di libertà di stampa. A proposito del caso che Lei ha menzionato, cioè la sovversione negli anni Quaranta e poi il suo ritorno negli anni Settanta, diciamo che se ora Lei ne scrive non verrà spedito in un gulag, né messo in prigione, né assassinato. Se la gente non lo fa, non fa uso di questa libertà e negli Usa non è molto diverso. Come ho detto, abbiamo una insolita libertà d’accesso agli archivi, ma riguardo a quello di cui ho parlato qui, quasi nessuno negli Usa ne avrebbe sentito parlare, perché gli intellettuali e i mezzi di informazione svolgono il loro compito di proteggere la popolazione dal sapere cose che non li riguardano, come per esempio quello che sta facendo il governo. Questo va tenuto distinto dalla libertà di espressione: molta libertà è stata conquistata nel corso degli anni. Come poi venga usata, dipende da voi.

– L’ultima parte del Suo intervento ha riguardato soprattutto il potere finanziario. È trascorso un anno da quando è nato il movimento Occupy Wall Street. Io penso che sia una panacea per la democrazia, che cosa pensa Lei?

Penso che il movimento Occupy sia stato un fenomeno piuttosto notevole: non mi aspettavo che si sarebbe sviluppato così e se un anno fa mi avessero domandato se poteva aver senso occupare un parco vicino a Wall Street avrei risposto: “È pazzesco, non può riuscire”. Come al solito il mio consiglio tattico non è stato molto valido. Lo hanno fatto, è stato un successo e in brevissimo tempo il movimento Occupy è dilagato in migliaia di città grandi e piccole negli Stati Uniti e in tutto il mondo – io stesso ho parlato davanti a riunioni dei movimenti Occupy in Australia e altrove – e si è collegato ad altri movimenti che si stavano sviluppando indipendentemente altrove, come gli Indignados in Spagna eccetera. Tutti questi movimenti hanno avuto l’effetto di spostare l’attenzione del dibattito nazionale sulle cose di cui parlava la gente, a cui stava pensando. In effetti lo slogan 99%-1% è diventato un argomento del dibattito pubblico, di cui si può leggere nella stampa finanziaria e via dicendo. C’è stata una spaventosa disuguaglianza per moltissimo tempo, ma adesso l’attenzione è stata richiamata su questo. È stata un’ottima tattica. Tuttavia le tattiche hanno una specie di emivita: funzionano per un po’ e poi cominciano a incepparsi. Non si può trasformare una tattica in un movimento: una tattica può galvanizzare l’attività ma poi deve essere raccolta e tradotta in qualcosa che la supera. Ed è chiaro in che cosa deve essere tradotta: in conflitti di classe. Ma questo è piuttosto difficile: non appena si parla di conflitti di classe, tutti quelli che esercitano il potere reagiscono, in maniera trasversale – liberali, conservatori, intellettuali, qualsiasi sia la loro posizione – ti piombano addosso come un peso schiacciante.
Un clamoroso esempio di tutto questo è il movimento dei diritti civili. Fu un movimento di grande successo e molta retorica è stata spesa per rendere onore a Martin Luther King, in sua lode. Ma se prestate attenzione alla retorica, noterete che questa cessa nel 1963. In quell’anno ci fu una grande marcia per i diritti civili a Washington: King tenne un discorso, il famoso discorso che comincia con le parole I have a dream (“Ho un sogno”) e quel sogno era che gli afroamericani potessero ottenere ed e- sercitare il diritto di voto: non dovremmo permettere ai razzisti dell’Alabama di impedire alla gente di votare. Fin qua, tutto bene: i liberali del Nord erano ben lieti di condannare i razzisti dell’Alabama. Ma King non volle limitarsi a questo: si spinse più avanti, cercò di organizzare un movimento dei poveri, e venne assassinato cinque anni dopo, in Tennessee, dove era andato a sostenere uno sciopero di lavoratori dei servizi fognari e il suo piano era di fare una marcia dal Tennessee fino ai luoghi in cui era stata combattuta la battaglia per i diritti civili per poi arrivare a Washington e cercare di fare pressioni sul Congresso affinché approvasse delle leggi che avrebbero portato beneficio a un enorme numero di poveri e di lavoratori nel paese. E quello era il Congresso più liberale che ci fosse mai stato nella storia degli Stati Uniti. Riuscirono ad arrivare a Washington, piantarono una tendopoli che fu chiamata “Città della Resurrezione”. Non ci volle molto prima che il Congresso mandasse la polizia in piena notte a distruggere la tendopoli e a cacciare tutti i dimostranti fuori da Washington. Nessuno disse mai una parola su questo, e non ne sentirete mai parlare durante i discorsi sulle battaglie che ha combattuto Martin Luther King. Anche il suo ultimo discorso è stato un di- scorso I have a dream: usò la retorica biblica che impiegava di solito, rappresentandosi come Mosé, che poteva vedere la Terra promessa, in cui lui non sarebbe arrivato, tuttavia poteva assicurare alla gente che lo stava ad ascoltare che loro ci sarebbero arrivati. La Terra promessa era la giustizia per i poveri e per i lavoratori. Ma quella Terra promessa è ancora molto lontana: King si era azzardato ad affrontare i temi del conflitto di classe, e così facendo aveva colpito un punto delicato. Quello è il punto in cui le istituzioni si solidificano e reagiscono. E tra queste istituzioni vi sono anche le categorie intellettuali, la stampa liberale e via dicendo. E qualcosa di simile è accaduto con il movimento Occupy: è stato un movimento molto breve, ma io non credo che sia finito. Deve raccogliere questi temi e fare quello che ha fatto il movimento dei diritti civili: affrontare questi problemi. Il movimento dei diritti civili ha impiegato molto tempo per raggiungere degli obiettivi sia pur limitati: era cominciato un secolo prima, negli anni sessanta dell’Ottocento, ma ottenne alcuni risultati solo all’inizio degli anni sessanta del Novecento.
Lo stesso vale anche per altri movimenti popolari. Per esempio nell’ultima generazione ci sono stati formidabili progressi nel campo dei diritti delle donne ma la lotta per i diritti delle donne risale al Settecento e anche prima, ma c’è voluto moltissimo tempo prima di ottenere qualcosa. Negli Stati Uniti, fino a tempi molto recenti, le donne erano considerate proprietà in base alla legge: proprietà dei loro padri oppure di loro mariti! Non c’erano diritti individuali. Se risaliamo alla Rivoluzione americana, le donne non avevano il diritto di voto. L’argomento a favore di questo era che sarebbe stato iniquo concedere alle donne il diritto di voto perché qualora le mogli avessero votato, il loro mariti avrebbero potuto contare su due voti anziché su di uno, giacché la moglie avrebbe votato se- condo le indicazioni del marito, essendo una sua proprie- tà. Fino al 1975 le donne non avevano il diritto di votare nelle giurie federali, perché non erano pari, non erano uguali. Sicché c’è voluto molto tempo per raggiungere risultati che in effetti sono molto importanti: le battaglie più importanti sono dure, richiedono applicazione, non vengono vinte da un giorno all’altro.

– La ringrazio per il discorso sulle donne ma in Italia siamo ancora in una situazione dove la discriminazione femminile, soprattutto al Sud è ancora molto grave, nonostante ci sia una pari opportunità che appartiene a un’idea italiana ma non è ancora applicabile completamente, soprattutto nelle quote rosa, nella politica.
Detto questo, la mia domanda era un’altra.
Il fatto che il nostro linguaggio, la nostra bella lingua italiana, si sia ridotta, sia per accelerazione di comunicazione, sia perché si è ridotto il livello culturale – siamo ridotti ormai a 300 vocaboli usati nella lingua – può creare una possibilità di controllo maggiore, può determinare una prospettiva diversa soprattutto nei giovani? Quali sono cioè le conseguenze dell’impoverimento culturale di tutto il mondo occidentale?

Credo che dovremmo essere piuttosto prudenti quando si tratta di esprimere giudizi come questo. Non ho nessuna prova per affermare che la lingua si stia impo- verendo. Per esempio la comunicazione degli adolescenti è sempre stata in certo qual modo limitata e privata: è molto caratteristico che gli adolescenti sviluppino dei linguaggi privati: parlano tra loro in un linguaggio da adolescenti per tenere fuori dai loro discorsi gli individui più anziani. Spesso questo arricchisce la lingua. Spesso questi linguaggi vengono raccolti dalla generazione successiva e contribuiscono alla ricchezza della lingua, e in effetti entrano nella letteratura e così via. E sono sicuro che qualcosa del genere sta accadendo anche oggi, forse in misura maggiore, forse no. Credo che questo argomento vada studiato, è un argomento della sociolingui- stica che si studia anche in Italia. Ma sarei prudente soprattutto quando si tratta di emettere giudizi sulle conseguenze.
C’è comunque qualcosa che sta chiaramente accadendo ed è in corso da molto tempo, cioè la significativa dimi- nuzione della lettura. Questo fenomeno è in corso da molto tempo. C’è uno splendido saggio sulle abitudini di lettura dei lavoratori in Inghilterra nell’Ottocento: fabbri ferrai, artigiani, manovali. Leggevano i classici, la lette- ratura contemporanea, erano esposti a una gamma molto ricca di cultura intellettuale avanzata. Sono abbastanza vecchio da ricordarmi che negli anni trenta, quando ero bambino, i miei parenti erano per lo più operai o disoccupati, ma avevano una vita culturale molto ricca, e parlo di cultura alta: leggevano Shakespeare, andavano ad a- scoltare gli ultimi concerti del Quartetto di Budapest, si occupavano di ogni forma di politica immaginabile, della differenza tra Freud e Stekel e così via. Tutto questo faceva parte della cultura della classe lavoratrice.
Ancora negli anni trenta, c’erano persone della classe lavoratrice, quella da cui provengo io, che andavano a vedere i drammi di Shakespeare. Un po’ come in Italia si va all’opera, questa è una grande fortuna, perché è comunque cultura alta.
Una parte del New Deal consisteva proprio in questo, nell’offrire i classici, rappresentazioni dei classici a cui si poteva assistere gratis, si sovvenzionavano gli artisti. Era parte del New Deal creare una cultura condivisa, non c’era la televisione, ma c’erano altri mezzi.
In effetti a quel tempo, gli intellettuali di sinistra dedicavano molto impegno e tempo all’istruzione della classe lavoratrice. Quello fu uno dei ruoli, uno dei ruoli positivi del partito comunista a quel tempo. Importanti scienziati come John Desmond Bernal e altri si impegnarono nel campo dell’istruzione per i lavoratori e a scrivere libri per i lavoratori, per portare la cultura – anche la cultura scientifica – alla gente che lavora. Se guardiamo ai loro corrispondenti odierni, vediamo che gli intellettuali di oggi parlano una specie di linguaggio privato di cui io, perlomeno, non sono in grado di capire una parola: lo chiamano scrittura postmoderna, lunghe frasi, paroloni che sicuramente risultano incomprensibili alla grande massa della popolazione. E si considerano di sinistra! Sono molto diversi dagli intellettuali di sinistra degli anni trenta. Tutto questo è solo un riflesso di un processo tuttora in corso. I lavoratori e gli indigenti, negli Stati Uniti oggi, non stanno assolutamente partecipando alla cultura alta contemporanea. E questa è una trasformazione che è in atto da molto tempo. Potremmo domandarcene il perché, infatti non è assolutamente necessario che sia così. Nell’Ottocento, per esempio, negli Stati Uniti, c’erano dei fabbri ferrai a Boston, che avrebbero potuto essere praticamente analfabeti, eppure se avevano del denaro erano capaci di ingaggiare un ragazzo per farsi leggere ad alta voce. E leggere allora voleva dire leggere quella che veniva considerata letteratura corrente e noi siamo portati a considerare classici, come Dickens, Throllope e così via. Penso che questo accadesse anche in altri paesi, ma non so se ci sono studi sull’argomento nelle culture di altri paesi. Ora tutto questo appare molto strano oggi e del resto lo stesso si dimostra a ogni livello. Uno studente del college legge molto meno di quanto avrebbe fatto un tempo. E parlo della mia esperienza al Mit. Non molto tempo fa usavo correntemente inserire nelle mie lezioni dei riferimenti letterari, senza limitazioni e la gente li capiva al volo. Oggi è molto difficile farlo: la gente stenta a capire di che cosa stai parlando.
Dunque questo sta accadendo, e si può discutere se questa sia una tendenza contro cui si può fare qualcosa o no. Ma dubito comunque che si possa rinvenire nella lingua qualcosa che abbia a che fare con la riduzione, l’impoverimento del lessico o del significato delle parole, mi sembra che sia difficile.

– Per delle persone istruite in Italia è molto difficile credere a tutta la mitologia su Osama Bin Laden, Al-Qaeda e via dicendo che riguarda l’11 settembre. La mia opinione è che si è trattato di un attentato compiuto con l’aiuto di un’organizzazione basista. Dunque la mia domanda è: ci sono negli Stati Uniti restrizioni, vincoli o blocchi che impediscono di vedere la cosa in modo diverso? Hanno dei problemi a pubblicare?

Diciamo che se qualcuno divulga informazioni sottoposte a segreto di Stato, sono previste delle pene. In effetti Barack Obama ha superato ogni precedente primato in questo senso: ha punito più denunciatori di segreti di Stato di tutti gli altri presidenti messi insieme. A questo proposito c’è anzitutto la questione del perché un’informazione dovrebbe essere segreta. Ed è una questione molto seria. Se mai qualcuno di voi ha studiato – come ho fatto io per parecchio tempo – documenti declassificati, cioè documenti dai quali è stato tolto il vincolo di segretezza, avrà scoperto che sono molto interessanti. Non c’è praticamente niente in quei documenti che sia veramente un segreto di Stato, tuttavia essi sono stati classificati come segreti per proteggere l’élite politica dalla popolazione. Non c’è niente in quelle carte che un nemico non sappia già o di cui possa curarsi. Potete vederlo da WikiLeaks. Date un’occhiata a quello che è trapelato nei suoi archivi. Non c’è praticamente niente che possa nuocere alla sicurezza statunitense. Tuttavia è materiale diplomatico che il Dipartimento di Stato non vuole sia messo a disposizione dell’opinione pubblica. Dunque si stanno proteggendo dall’opinione pubblica. Questo è il classico modo in cui l’élite si protegge dalla popolazione in generale. La cultura delle élite ha una tremenda paura della democrazia e questo viene spesso dichiarato apertamente. Questa è la grande massa dei segreti, e forse ce ne sono anche alcuni che devono essere tenuti segreti, per esempio durante una guerra non si vuole che venga reso pubblico dove sono schierate le truppe e via dicendo. Questo tipo di informazioni però rappresenta una frazione molto piccola del tutto.
Comunque, per tornare alla Sua domanda, si prendono delle misure per punire chi divulga materiale riservato: a volte tuttavia queste misure hanno successo, altre volte no. Nel caso di Obama, un certo numero di casi che il presidente ha sollevato non sono stati accolti dai tribunali. Un famoso precedente storico è quello di Daniel Ellsberg, che [nel 1971] diffuse i documenti del Pentagono, li consegnò alla stampa, il che ovviamente è un reato. Fu messo sotto processo, ma il processo venne sospeso. Anch’io sono stato processato. Ma il rischio è veramente esiguo in confronto a quello che la gente affronta continuamente in condizioni molto più dure in tutto il mondo. Dunque i rischi ci sono ma non sono molto gravi rispetto ad altri standard.

– Si può affermare che l’uso del periodo ipotetico sia efficace quale pratica comunicativa democratica, a li- vello di apertura relazionale, a livello di apertura di atteggiamento di ascolto dell’altro? Dell’alterità? È possibile una pratica linguistica che promuove l’interrelazione? Sono possibili modalità comunicative interrelazionali che promuovano linguaggi? L’uso del periodo ipotetico può essere considerato un atteggiamento linguistico relazionale di trasversalità?

Diciamo che fondamentalmente non ho opinioni al riguardo. È una questione che potrebbe valere la pena di indagare, non sono informato di alcuno studio al riguardo. Ci sono circostanze in cui il periodo ipotetico è appropriato, la gente lo usa. Se poi abbia conseguenze di questo tipo, non riesco a immaginarlo. Suppongo che sia una tematica che dovrebbe essere oggetto di ricerche e di indagini.

 

Non ci sono risposte generali sulle tattiche. Dipende da cosa si vuole ottenere, da quali sono le circostanze, da quale è il livello di comprensione del pubblico, della popolazione e via dicendo. Non ci sono regole generali. Io sono stato arrestato molte volte, per disubbidienza civile. A volte, penso che sia stata la tattica giusta. Aveva l’intento di far pensare la gente a cose che altrimenti avrebbero ignorato. Se funziona, è la tattica giusta. Se invece l’essere arrestati ha l’effetto di spaventare la gente o allontanarla, allora è la tattica sbagliata. Ma non c’è risposta alla domanda se questa sia la tattica giusta o sbagliata.
È un grosso problema, per chiunque sia stato impegnato in movimenti di attivismo: prendete il movimento pacifista, un grande movimento verso la fine degli anni sessanta, e in parte lo è ancora. C’era dibattito nel movimento su quale fosse la giusta tattica da usare; ed era molto interessante ascoltare i consigli dei vietnamiti, quelli cioè che erano direttamente colpiti da tutto questo. Erano fortemente contrari a molti dei suggerimenti tattici degli attivisti militanti negli Stati Uniti. Sapevano che molte delle tattiche che si impiegavano, come rompere vetrine e così via, avrebbero finito per orientare la gente a favore della guerra. Questo loro non lo volevano, erano i primi a subirne le conseguenze. Le tattiche che raccomandavano, a favore delle quali si impegnavano, erano a volte così blande che gli attivisti americani vi si opponevano. Per esempio una volta proposero che delle donne vietnamite girassero un video silenzioso in un cimitero in cui erano sepolti dei soldati americani. Quello secondo loro avrebbe aperto gli occhi della gente. Ma proprio in quella fase si formò un gruppo di giovani attivisti, che si chiamavano Weathermen che scelsero tattiche come scendere in strada, spaccare vetrine, picchiare la gente, provocare i poliziotti e via dicendo.
La domanda, dunque, è una buona domanda ma non c’è una risposta pronta, dipende da tante circostanze. Nel caso di Occupy c’è un generale accordo su quale dovrebbe essere il prossimo obiettivo. Ma non ha molto senso star seduti ancora in una piazza. La prossima cosa da fare è rivolgersi al pubblico generico e affrontare questioni che riguardano tutti, coinvolgere quel 99% in attività che possono essere importanti per loro. Questo non è facile, è molto più difficile che occupare la piazza e non accade da un giorno all’altro. Nel caso che ho citato, può richiedere molto tempo: parlo degli Usa, ma credo che si possa ge- neralizzare. Il crollo del Partico comunista negli Stati Uniti ha privato il movimento attivista di un elemento molto importante: qualunque cosa voi pensiate del Partito comunista, i suoi militanti avevano una qualità molto positiva, ossia non si aspettavano risultati rapidi. Non si davano per vinti quando qualcosa andava storto. Sapevano che poteva andar storto. Avevano combattuto per tanto tempo, sempre per la stessa lotta. E la prossima volta erano di nuovo lì, con un po’ di esperienza in più, con un po’ di memoria in più. Su come si gestisce una manifestazione, su come si organizza una riunione. Da quella volta, invece, negli Stati Uniti tutto deve sempre ricominciare da zero. Il movimento Occupy per esempio è stato iniziato da giovani che non avevano alcun’esperienza politica. Cominciavano da zero. Questo era molto efficace, ma è bene avere un po’ di memoria collettiva e sapere come fare, cosa fare la prossima volta, e rendersi conto che se non hai ottenuto quello che volevi, non è poi la fine della lotta. Impari dai tuoi errori e puoi andare un po’ più avanti. Finché non si forma questo tipo di sensibilità, tutti i movimenti avranno solo effetti a brevissimo termine. Questo lo potete vedere dalla storia dei successi e dei fallimenti. Quanto ai consigli di tattica generale, non riesco a vedere come se ne possano dare: il risultato di qualsiasi scelta dipende da tanti, troppi fattori.

– Vorrei sapere, a proposito dei rapporti tra il movimento sociale e le infiltrazioni nel movimento da parte dei servizi segreti e della polizia eccetera, quale strategie ritiene appropriate per difendersi da questi rischi che naturalmente hanno delle conseguenze sull’opinione pubblica e sulla creazione di consenso.

Ancora una volta ci sono diverse risposte per diversi posti. Per esempio in Egitto, in Piazza Tahrir, la tattica migliore è stata che i militanti si difendessero. Ma naturalmente potevano contare su un enorme consenso, e sul supporto di numerose organizzazioni dei lavoratori. Nella nostra società le cose stanno molto diversamente. Credo che bisogna tener conto del fatto che la polizia è formata da quel 99% di cui parlavamo prima: sono lavoratori, si trovano di fronte agli stessi problemi e difficoltà. La tattica giusta è cercare di raggiungerli e far loro capire che sei dalla loro parte, che non stai combattendo contro di loro, ma stai combattendo le istituzioni che si servono di loro per mettere in atto la repressione. A quel punto possono partecipare anche loro. Lo stesso può valere per le forze armate. E questa tattica può rivelarsi piuttosto efficace. Per esempio negli anni sessanta, all’epoca dei movimenti attivisti, alcune delle componenti più avanzate del movimento, che non avevano a che fare con la polizia bensì con i militari, hanno messo su dei chioschi per il caffè nei pressi delle basi dei militari, dove i soldati potevano capitare: lì trovavano sempre qualcosa per loro, potevano parlare liberamente, c’erano discussioni aperte, sulla natura di quello che facevano e così via: questa i- niziativa ebbe un grande effetto nel creare considerevoli dissidenze all’interno dell’esercito, e queste diventarono così estreme che nel 1968 il Comando supremo voleva sospendere le chiamate di leva, perché c’erano troppi dissidenti fra le reclute, volevano ricorrere all’esercito di professionisti di cui si fidavano di più, diciamo sostanzialmente ai mercenari. Credo che qualcosa del genere si possa fare in una società più libera e meno repressiva. C’è stato un periodo, nella storia degli Stati Uniti, in cui le forze di sicurezza erano veramente violente: possono ancora essere violente, alle volte, ma nulla di simile a quanto accadeva in passato. Se considerate la storia del movimento operaio negli Stati Uniti, vedrete che dovette affrontare una repressione estremamente violenta, in confronto a quella di altri paesi, perlomeno fino alla seconda metà degli anni trenta. Gli scioperanti venivano uccisi dalle forze dell’ordine. Questo non è più accaduto, dopo di allora. La società è diventata più libera, più civile, e le cose sono cambiate.
Abbiamo assistito a un esempio sconvolgente di questo qualche settimana fa, in Norvegia: c’era il processo a Ander Behring Breivik, autore di una strage orrenda. Se fosse accaduto negli Stati Uniti, l’assassino sarebbe finito immediatamente nella camera a gas, senza commenti, né processo. In Norvegia c’è stata una reazione straordina- riamente civile. Certo la strage ha procurato un trauma fortissimo alla società civile ma in definitiva la reazione ha scelto di mettere al primo posto la tutela dei diritti umani: si sono resi conto che dovevano affrontare la cosa. È stato istruito un processo e l’imputato non è stato condannato a morte, bensì alla massima pena detentiva prevista dalla legge norvegese, 21 anni, in uno sforzo di riabilitazione, tenendo conto del fatto che Breivik è un essere umano, che ha fatto una cosa orrenda ma è pur sempre un uomo. Questa è la Norvegia oggi. Si dà il caso che il più importante criminologo del mondo sia un norvegese, Nils Christie, che si è occupato appunto di storia del crimine e della giustizia penale in Norvegia. Ebbene ancora non molto tempo fa, diciamo all’inizio del xix secolo, non c’erano praticamente prigioni in Norvegia: questo non perché fossero particolarmente clementi, bensì perché le punizioni erano così severe che non era affatto necessario recludere il reo. Se uno era sospettato di aver rubato in un negozio, per esempio, gli trafiggevano la mano con un bastone: ecco perché non occorrevano prigioni. Nel corso del tempo tutto questo è cambiato, raggiungendo un livello di civiltà che non credo sia lontanamente paragonabile a quello di alcun altro paese. Qualcosa di analogo potrà accadere anche in altri Stati, per quanto riguarda i corpi di polizia, i mezzi di coercizione e tutto il resto. Ed è questo l’obiettivo che dobbiamo cercare di raggiungere.

 

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