Forse una delle più pertinaci convinzioni dell’uomo in quanto animal rationale è quella che il “sapere” sia una delle sue peculiarità esclusive e, soprattutto, quell’elemento capace di elevarlo al di sopra degli altri esseri viventi. In effetti, il “sapere” inteso nella sua massima estensione (conoscenza, comprensione, scaltrezza, sapienza, saggezza, articolazione di discorsi, narrazione, intuizione, spiegazione, analisi, sintesi, etc.) svolge una fondamentale funzione immunitaria, dal momento che consente ad esempio la previsione di eventi potenzialmente pericolosi, nonché offre la possibilità di modificare a proprio vantaggio l’ambiente in cui si vive.

Ma non solo: Michel Foucault ha collegato tra loro strettamente il sapere e la dimensione del potere, come se la conoscenza e il possesso di certe competenze non svolgessero soltanto una funzione difensiva, ma anche una funzione di dominio e di sopraffazione dell’altro. In quella tripartizione della società indoeuropea che ipotizza Georges Dumézil, il sapere dei dotti, dei sacerdoti, dei giudici, etc. viene affiancato alle classi dei guerrieri e dei contadini, ma con un ruolo palesemente centrale e decisivo: chi possiede le conoscenze teologiche, giuridiche, scientifiche, mediche, etc. è colui che alla fine governa una comunità, divenendone il centro carismatico e rassicurante.

Ci troviamo ad affrontare un capovolgimento che ci sorprende non poco, poiché il sapere si dimostra all’improvviso in tutta la sua ambiguità: ciò che salva, può essere ciò che consente il governo degli altri, ma anche la loro sottomissione. La nostra epoca, in questo senso, è davvero bizzarra: infatti da un lato essa pare inalvearsi nei territori lugubri di un’ignoranza quasi strategica, per cui il non-sapere diviene uno strumento efficace per avanzare delle pretese ingiustificate, per mettere in atto un processo di auto-assolvimento sistematico (chi non sa non può avere alcuna colpa), per delegare agli altri le proprie responsabilità (i vari comitati tecnico-scientifici, le perizie, le consulenze tecniche, etc.), ma soprattutto paradossalmente per esercitare il potere, poiché laddove “non si sa” sono più semplici la prevaricazione e il dominio; dall’altro lato assistiamo a un’ipertrofia del sapere ormai diramato in innumerevoli forme di specializzazione (tutti gli -ismi e le -logie che ormai ritroviamo in ogni discorso) e in una raccolta di dati così smodata da fare della “matematica dei grandi numeri” una delle scienze fondamentali della contemporaneità (che cosa facciamo quando abbiamo tra le mani n miliardi di rilevazioni numeriche?). Ad un’ignoranza sistemica e progressiva, insomma, sembra far da contralto un “sapere” che tende all’“onniscienza” e che, soprattutto, si basa su una raccolta quantitativa tendente all’infinito di informazioni: sono entrambe forme estreme di esercizio del potere, forse andando anche al di là della lezione foucaultiana; e forse sono entrambe espressione di un non sapere di fondo che diviene ora strategico per il governo e il controllo della popolazione, ora insensato quando si trasforma in un eccesso del sapere medesimo.

A mio avviso quest’ambivalenza e questi movimenti ondivaghi in apparenza contrastanti tra loro portano a due considerazioni almeno, che vorrei sintetizzare con una domanda e con un aforisma greco:

1) che cosa significa pensare?

2) ἕν οἶδα ὅτι οὐδὲν οἶδα.

Partiamo dalla domanda che riecheggia quella più nota di Martin Heidegger, argomentata in un corso di lezioni del 1951: Was heisst denken?, “Che cosa significa pensare?” si chiedeva il filosofo di Messkirch, rispondendo a tale interrogazione — quasi banalmente — che ciò che c’è da-pensare (zu denken) deve essere ancora pensato. Se manipoliamo di un po’ questa domanda abissale e per certi versi infantile, simile ai perché? che i bimbi rivolgono ossessivamente ai genitori senza avere la soddisfazione di una risposta, essa ci suggerisce malignamente non soltanto che l’uomo occidentale ancora non pensa per davvero, ma che la medesima cosa avviene a proposito del sapere. Che cosa significa sapere? Siamo convinti che l’eccesso di sapere che aleggia nei nostri discorsi, alla fine non celi o dissimuli un più profondo non-sapere? Trasponendo così la domanda heideggeriana, dobbiamo replicare lapidariamente che ciò che c’è da sapere (zu-wissen) deve essere ancora saputo. Noi ci illudiamo di sapere tutto o quasi tutto, ma probabilmente non sappiamo alcunché, e non a causa della smisuratezza delle cose da conoscere nell’universo e nemmeno per una questione temporale, come se l’ancora-da-sapere potesse comunque essere conquistato mercé un progressivo incremento delle tecniche e delle scienze. Emerge un residuo incomprimibile che sembra molto più affine al non-senso piuttosto che a qualcosa di razionale e di ignoto, potenzialmente razionalizzabile in un prossimo futuro.

ISBN: 9788893130776, pagine 352, Collana: Piccola Bibliothiki n.50, 29,00 €

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Assistiamo ad un dileguarsi dei fondamenti, come se il progresso delle scienze, nella sua esuberanza certo meritevole ma talvolta tracotante, stesse pericolosamente bordeggiando l’area del noli tangere, cioè un’area pericolosa e scivolosa dove il rischio maggiore è quello di scoprire improvvisamente l’insensatezza di tutte le nostre acquisizioni. A questo punto l’ignoranza sistematica e l’ipertrofia del sapere, oltre a funzionare quali strategie di potere e di governo, possono essere pure interpretate come delle tecniche di difesa immunitaria rispetto a un’alterità, un Altro che ci abita, che lambisce la nostra esistenza e le nostre conoscenze, ma che nella sua natura è impossibile. Con il termine impossibile definiamo ciò di cui non vi può essere padronanza (l’etimo di potis indica infatti anticamente il “padrone”, il dominus), ovvero l’out-of-joint, ciò che è disgiunto, slegato da qualsiasi possibilità di legame, eppure “legato” e connesso a tutto. Si tratta inoltre di un’espressione che Jacques Lacan associa al cosiddetto “reale” che non bisogna confondere con la “realtà”, la quale significa invece il mondo con tutte le stratificazioni simboliche, categoriali, linguistiche e immaginarie attraverso cui lo percepiamo: il reale è associato al linguaggio ed è “impossibile” proprio perché si manifesta in seguito al fallimento del medesimo linguaggio: non vorrei addentrarmi nel campo della teologia della quale non ho la minima competenza, ma mi pare che proprio qui, in questi termini che vanno a configurare quasi un ossimoro – impossibilità, fallimento, reale – si palesi nel suo sfuggire e nel suo smarrirsi ciò che chiamiamo, ancora con una parola insufficiente, sacro.

Forse il secondo punto che abbiamo sintetizzato con l’espressione greca ἕν οἶδα ὅτι οὐδὲν οἶδα ci può aiutare nella comprensione di questi passaggi effettivamente complessi: siamo partiti dallo stretto legame che intercorre tra l’esercizio del potere e il sapere nelle sue due forme dell’ignoranza strategica e dell’eccesso, per arrivare all’osservazione che ciò che c’è da-sapere deve essere ancora saputo e che questo da-sapere si manifesta (nascondendosi) nell’impossibilità (incontrollabilità) e nel fallimento. La frase greca viene bene sintetizzata, nel modo tipico dei latini, dall’espressione scio nescire, “so di non sapere”. Come si può notare, siamo di fronte al classico paradosso filosofico, molto simile per struttura al cosiddetto “paradosso del mentitore”: se infatti “non so” come posso sapere di non sapere? Ma al di là di queste contorsioni logiche, abbiamo ben rappresentato uno dei versanti della cultura greca, quello per così dire di origine socratica, per cui il compito del filosofo è quello di mettere in dubbio tutte le nostre acquisizioni e tutte le ovvietà che alimentano i nostri discorsi e le nostre narrazioni. Per Socrate, in effetti, in genere l’uomo si caratterizza per un nescio nescire, nonostante l’esibizione di cognizioni e competenze che sovente confinano con la chiacchiera o – come osserva Heidegger – con la passività inerte del Si (Man) quotidiano, cioè con la sfera del “si” dice, “si” fa e “si” pensa.

ISBN: 9788893131346, pagine 256, Collana: Piccola Bibliothiki n.63, 25,00 €

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L’altro versante è identificabile con la massima religiosa greca nel tempio di Apollo a Delfi: γνῶθι σεαυτόν, “conosci te stesso”. Si trattava a dire il vero di una sorta di “raccomandazione” rivolta a chi volesse interpellare l’oracolo, cioè di aver ben chiare nella propria mente le istanze e le domande che si volevano esporre. Al di là però di questo aspetto pratico-economico, si tratta della convinzione ellenica che l’autocoscienza, l’approfondimento riflessivo dei propri pensieri e delle proprie emozioni, possano costituire un esercizio fondamentale per la costruzione di un Sé integrato nella pólis. Da una parte quindi abbiamo a che fare con il raggiungimento di una sorta di docta ignorantia, di un non-sapere che non deriva dalla semplice ignoranza, come quella strategica di cui abbiamo fatto cenno, bensì da una sorta di arretramento del sapere laddove, conscio dei suoi limiti, esso lascia spazio, cede all’indicibile. Dall’altra parte anche per pervenire ad un risultato che pare poco soddisfacente se paragonato alla sicumera scientifica e all’ipertrofia dei saperi specialistici, è necessario un lungo e talora estenuante esercizio auto-riflessivo e riflessivo. In estrema sintesi, bisogna incedere molto nel campo del sapere prima di comprendere l’incomprimibilità del da-sapere, non riducibile a un “ancora-da-sapere” e pur tuttavia essenziale al sapere medesimo. Come il tedesco Sinn nella sua paradossale ambiguità rimarcata da Hegel, il termine “sapere” rimanda ad un etimo sap– ad indicare nello stesso tempo la “saggezza” e il “sapore”: c’è una commistione quindi tra il campo della pura sensibilità, non facilmente razionalizzabile, e il campo del linguaggio o, più genericamente, del lógos, del campo discorsivo. La schisi di questi due campi può in questo senso essere legittimamente considerata la caratteristica specifica dell’Occidente, cioè la separazione all’interno del “senso” di un senso razionale e argomentabile discorsivamente, e di un non-senso che concerne invece il registro ancora oscuro della relazione, dell’amore e del sentimento.