– Che fai adesso, con tutto il tempo che ti ritrovi? – Io non risposi. – Scrivi un libro!
È stato questo l’incontro con un vecchio amico. Ma che senso ha scrivere un libro, se ti manca ormai il senso della vita? Era questo che io inseguivo da molti anni, forse da sempre, il senso della vita. Credevo di trovarlo, mi illudevo di trovarlo nei mille frammenti che un giorno qualsiasi ti offre. Invece erano come pezzetti di cristallo falso o fallato, non riuscivi a metterne insieme la benché minima parte. E se anche per un attimo ci riuscivi, dopo un po’ erano schegge di povera polvere, non rilucevano di niente, tutto era senza significato.
Ho rincorso la prima persona che avevo incontrato quel giorno, mi disse che non aveva bisogno di niente, il senso delle cose lo teneva per sé, non lo voleva spartire con nessuno. Mi parve un’ottima persona: perché riversare su altri interrogativi che la tua mente allucinata può nutrire in momenti inopportuni? Eppure il suo occhio lacrimava in silenzio, non era sicuro che la sua risposta fosse giusta, spartire qualcosa con qualcuno ti può aprire mondi insospettati, può risolverti problemi che prima pensavi irrisolvibili, insomma ti può salvare. Io rispettai il suo lacrimoso silenzio, ma dopo un po’ non potei fare a meno di chiedergli se l’aveva mai rincuorato il sorriso di una donna, la fresca presenza di una persona che tu ti scopri a rimirare o a contemplare anche quando lei non se l’aspetta o non si accorge che tu in maniera impudica, da voyeur dell’anima, le rubi qualcosa. Ma forse non le rubi niente, l’accompagni soltanto con quello sguardo mistico che sa di unione senza veli. Sí, l’aveva fatto, assaporando tutta l’innocenza di questo atto d’amore. Cominciava ad aprirsi. Un po’ il ricordo, un po’ la commozione che rinasceva più forte con le immagini riscoperte come fotografie di un tempo felice, sembravano ridargli il senso di quella che era stata la sua esistenza per un certo numero d’anni intensi, quasi fortunati. Tornava ad affiorare in lui il senso delle cose, un significato cominciava a prendere corpo ed era quello di un legame vissuto quasi senza contenuti, ma tenerissimo e insieme tenace, di una tenacia che fa perdere il respiro.
‘La vita ti sfugge da ogni parte’ o ‘ti incalza da ogni parte’ disse qualcuno, oppure sta fuori e ti lascia ai suoi margini. La polvere avrà ragione di te e renderà ovattata ogni cosa. Solo il senso non capito ti brucerà dentro. Il tuo sarà un appisolarsi e insieme un bruciare.
Quell’uomo non lo vidi più. Nel ricordare aveva forse bruciato il senso che avrebbe voluto tener nascosto agli altri e a se stesso. Seppi più tardi che era partito per non so dove.
Fu un padre quello che incontrai di lí a qualche giorno. Incespicava ad ogni marciapiede. E non perché fosse vecchio, ma perché il suo pensiero era altrove. Non il suo pensiero però ma il suo mondo di affetti si era dileguato, un senso oscuro l’aveva catturato e quasi rimbecillito. Falsità, inganni, illusioni deluse, sogni mal riposti, tutto questo l’aveva sfinito e il suo passo, quasi fosse il segno più evidente di come uno soffre, sembrava il marchio di una condanna pronunciata verso uno che viene lasciato andar via perché si consumi da solo e nel nulla.
Dopo tre marciapiedi quasi insormontabili lo soccorsi e il suo sguardo impaurito e pietoso insieme sembrò ringraziarmi. – Perché mi vuole aiutare? – disse con voce impercettibile, eppure quasi serena. – Non lo so – risposi – mi è venuto spontaneo soccorrerla. – Non avrebbe fatto anche lei altrettanto? – Mi venne da dirgli. – Sì, lo avrei fatto e me ne sarei andato poi per i fatti miei. Lei invece è qui a domandarmi qualcosa. Se ancora non lo ha fatto, sento che lo sta per fare. Io sono un uomo distrutto dalla vita – mi rispose. – La vita, e questo è l’assurdo, fa respirare tutti, finché c’è, dopo non piú. Ma l’assurdo è che fa respirare anche me dopo avermi distrutto.
–In che cosa l’ha distrutta? – domandai. – Mi ha distrutto nell’aver fatto di me un albero senza frutto. Non lascio nessuno che mi possa piangere, non un amico, non un figlio. Che senso ha essere un finto padre di un’umanità intera, se neppure una singola persona ti aiuta a spiegarti le lacrime che versi, i passi inutili che muovi nel percorrere strade ormai sorde a qualsiasi eco della tua voce?
Ecco, ancora una volta il senso di qualcosa sentivo risuonare nelle domande che quest’uomo faceva a se stesso. Era un rincorrersi martellante, ossessivo e insieme sterile, non approdava a niente. Tutto era fuori, stava fuori di lui, da ogni forma residuale di vita. E non c’era risposta.
Ma perché inseguire il senso d’ogni cosa, perché voler decifrare, decodificare anche quello che è il modo più banale di essere al mondo, il respirare, il voltarsi e il rivoltarsi, quasi che il nulla di una sola direzione ti fosse nauseante e insignificante? Va’ e ridi, anche di te stesso che vai. Non voltarti e non pentirti: sono tutte malattie che ti intorpidiscono per fregarti fatalmente. Era il senso di padre quello che costui aveva perso. Quali sogni, non saprei. Quali illusioni deluse, non l’avresti scoperto mai. Quali inganni, non ne saresti mai venuto a capo. Lo vidi scuotere la testa, quasi a voler commiserarmi, la mia ricerca non era approdata a nulla. Quale inganno aveva patito quest’uomo? Chi aveva rovinato per sentirsi così rovinato a sua volta? La morte di qualcuno porta lacerazioni e finisce per ‘flirtare’ con la tua morte. Ma l’essere umano non vuole ‘flirtare’ con se stesso, neppure quando è felice o crede di esserlo. La sua coscienza era oscurata da qualcosa. Il suo incespicare ad ogni marciapiede mostrava ciò che i segmenti del suo encefalogramma rivelavano: spezzati, o resi fragili come schegge di cristalli, slabbrate e ruvide.
Rimessosi dal fastidio che anch’io, con la mia sola presenza, avevo potuto procurargli se ne andò per la sua strada, attento a non incespicare: qualcuno avrebbe potuto avere il cattivo senso di soccorrerlo e di domandargli cose sue, chiuse per sempre in un oblio di tomba che egli voleva gelosamente fredde.
Era tornata la primavera e la scadenza elettorale aveva stancato già troppa gente: bisognava andare a votare, ma la democrazia era in ginocchio e dare un senso alla politica sembrava ai più roba di gente sopravvissuta, incapace di confrontarsi con quelle forze neanche troppo oscure che ormai stavano accaparrandosi tutto con una sfrontatezza da impuniti. Gente rozza e mediocre, ma capace di mistificare ogni cosa, stravolgere situazioni e dati con un’impudenza degna dei peggiori farabutti. E questa gente imperversava sui mass-media, si ergeva a giudice di tutto invocando la legge del mercato e della truffa conclamata come il banco di prova delle intelligenze più moderne.
L’aria che si respirava intorno era quasi di sfida: – vi faremo vedere noi – sembrava mandare a dire questa gente, – ciò di cui siamo capaci. – L’affarismo più sfacciato riprendeva il dominio di ogni cosa. Eppure il suo berciare non era qualcosa di poco conto, non poteva essere affrontato con un risata o qualche uscita satirica e divertita, era un berciare da apocalisse. Pochi sembravano accorgersene. Anche qui sfuggiva ai più il senso di quello che stava succedendo. Un paese moderno, che si portava addosso incrostazioni difficili da sciogliere, ma che pure aveva voluto tentare quell’opera di rimessa in ordine, o di giusta e onesta rimessa in discussione di quanto non fatto negli ultimi decenni, decideva ancora una volta di rinnovare la sua malattia di sempre, il qualunquismo individualistico e fazioso, e premiare coloro che ne erano i peggiori o migliori rappresentanti.
Quale senso trovare in un fenomeno di così larga portata? La parte piú nobile del paese vi si ribellava, ma ne usciva con le ossa rotte. Il senso di tutto questo sfuggiva anche ai più acuti degli opinionisti. Tutti a descrivere fenomenologie più o meno verisimili ed anche credibili, ma sempre parziali. Era come un rivoltarsi della storia.
Ho attraversato tutte le epoche della storia, con il pensiero e il sentimento, ne ho sentito ed ascoltato il respiro, l’ansia e l’angoscia, le gioie e le frenesie, d’amore, d’invidia e di potenza. Non una che mi restasse estranea. E adesso che me ne faccio dell’esser tanto vissuto con altri sotto tanti cieli, sotto portici e colonnati, dentro case povere e case ricchissime? Ho respirato con essi amore ed anche ostilità, mai odio per chicchessia, senso di umanità ora indifesa ora scaltrita e malvagia, se non dissennata e assurda nelle sue scelte. L’umano spesso non ha senso: la libertà che ci è data è ancora una beffa ai nostri danni. Nessuno è libero in questo mondo, non le bestie, non le piante, dicono che sia libero solo l’uomo e questo lo condanna a qualcosa che sa di derisione e di scherno.
L’umano non ha senso forse proprio perché esso è libero a metà e anche questa metà non sempre gli appartiene.
Questi erano i miei pensieri quando ho incontrato lei: una pelliccia semplice ma bellissima sembrava non coprirla ma fasciarla per ingentilirne ancor di più le forme perfette.
Le passai il braccio sotto il suo e glielo accarezzai con quel calore che si ritrova per un essere perduto, comunque lontano da troppo tempo. Ci guardammo negli occhi, erano interrogativi e sbalorditi i suoi, i miei volevano essere complici per un qualcosa che non era ancora successo ma che sentivo doveva accadere. Lei non respinse il mio braccio, anzi lo trattenne tra sé e sé e colse della mia mano un tremito che non poteva sfuggirle.
– Ma noi ci conosciamo? – Non era questo che avrei voluto sentire, anche se la sua era la domanda più ovvia e la meno infelice.
– Da ora in avanti, si! – le risposi con quel po’ d’impertinente audacia che è lecita di fronte ad una bella donna. Ma non volevo dar vita ad un incontro con parole di tanta banalità. Era il pensiero di prima che inseguivo ancora: l’uomo è libero a metà e i suoi gesti come i suoi destini gli vengono imposti dalle circostanze più imprevedibili. Lei era una donna che per me era sempre esistita: destini imprevedibili eppure tutto così privo di senso, che non fosse quello dettato dalla sua bellezza. Ecco, era la bellezza deliziosa di questa donna che rendeva logico tutto. Io questa bellezza la inseguivo, la vivevo da tempo, era mia, proiettata in una vita che avevo finalmente rincontrato.
Non fu facile continuare un colloquio con tanti punti interrogativi. La conoscenza di qualcuno che non avevi mai prima incontrato, ma che avevi sempre immaginato, ci costringe a parole, atteggiamenti, gesti incomprensibili da fuori, quasi ridicoli se dovesse mancare il sonoro come nei vecchi film. Ma questa donna era qualcosa che era esistito da sempre in me. Avevo ‘parlato’ con lei da sempre, anche quando facevo all’amore con altre. Ma tutto questo aveva un senso o era come tutto il resto assurdo?
Chissà perché, da un lato non credevo a quello che stavo facendo o a quello che mi accadeva, dall’altro ne ero attratto come da una forza sognata troppe volte. Il suo sorriso, le sue labbra, il suo non essere sorpresa di quest’uomo incontrato per caso che anche per lei sembrava essere esistito da sempre davano alle sue, alle nostre parole sfumature inspiegabili che mi meravigliavano e mi inorgoglivano insieme. Ma orgoglio di che cosa? Era un senso di semplice complicità tra due persone che alle spalle avevano due brillanti fallimenti o era il senso di un interesse vero alle soglie di qualcosa di nuovo e di bellissimo?
– Non tradirmi per qualcosa che devo dirti prima d’ogni altra – soggiunse quando davanti ad una bella vetrina di cristalli di Swaroskj ci fermammo come davanti a dei brillii che ci inseguivano e ci pungevano. – Anch’io inseguivo me stessa come facevi tu fino a poco fa. Mi sarebbe piaciuto rincorrerti, provocarti ed offenderti in una maniera così elegante che tu non avresti potuto defilarti dalla mia persona. Cattiveria ed eleganza, pensi che possano coabitare, quando uno sente che il cuore gli urla fino a fargli male?
Io capivo e non capivo. Di fronte ad un viso bellissimo io rischiavo sempre di non capire tutto. Eleganza e garbo, malvagità e slealtà infida cos’erano per lei, armi di difesa, mezzi sbarazzini di un’età che non finiva, insomma il gioco della vita che ti inventi quando quello dell’amore più vero e primo ti ha lasciato sconfitto a slimacciare in un vicolo brutto, freddo e senza uscita?
Seguirono giorni e mesi bellissimi, riscoprivamo noi stessi senza infingimenti né sensi traditi. Facevamo l’amore ogni giorno ed era sempre qualcosa di nuovo, di originale, sí, di originale: i suoi occhi me lo confermavano nel momento più bello. Nell’orgasmo una donna mostra un brillio negli occhi che la fa unica, è il femminile all’ennesima potenza, una sublimità di cui l’uomo non è capace, un qualcosa che dovrebbe renderla sacra ed inviolabile sempre. E quando questo non si guasta tu hai conosciuto dio.
Era un crescendo di stupore per un incontro che si rinnovava sempre in forme diverse. Emozioni e commozioni: tutto diventava esaltante. C’era qualcuno che ne soffriva? Forse sí. Ma ogni amore che sa di liberazione fa qualche vittima, anche se nessuno ne ha colpa.
Ma anche questa stagione doveva chiudersi e in un modo cosí triste che io mi sentii come una foglia accartocciata, secca, sfinita di quello sfinimento che ti fa odiare la vita. Lei era stata per me come una grazia, di quelle che ti vengono date a mo’ di sfida, per metterti alla prova. Io non cercavo segni che mi portassero significati, prima mai sospettati, ma dal come andarono le cose cominciai a pensare in un modo di cui prima non mi conoscevo capace. Visite mediche all’inizio, segno che qualcosa non andava. Lunghe pause in cui tornava il pensiero che esser troppo felici può far male, che non tutto di te puoi governare e ‘dominare’. Il male era la prova che la libertà ti può giocare brutti scherzi quando invece la necessità, quella di cui parlano i filosofi, forse potrebbe darti la felicità.
Degenze dapprima brevi per piccoli guasti, poi la chiara, maledetta evidenza che non ce l’avrebbe fatta. Furono giorni e notti terribili, lunghi silenzi e tanta voglia di esorcizzare il tutto con il calore che emanava dai nostri corpi, baci lunghissimi a sfidare la morte: volevamo ribellarci a quanto sentivamo non essere giusto. Anche questo aveva un senso, era il senso che davamo noi, l’eros piú bello e ardente con cui rinfacciare la vita per la sua vigliaccheria e crudeltà.
Lei si spense con la stessa grazia con cui era vissuta, per me fu disperazione, buio, lacrime, imprecazioni, vuoto. E nei giorni che seguirono io non riuscivo a credere di essere rimasto solo, parlavo con tutti, raccontavo a tutti la nostra vicenda e palpavo inavvertitamente tutta la mia solitudine. Parole, voce, carezze, le nostre ‘cocole’, tutto mi tornava di lei, io vivevo con il suo fantasma, ripercorrevo le nostre strade, ripensando a quello che lei era solita dirmi, e mi illudevo di ripetere con il suono della sua voce i momenti piú belli del suo ridere. Sí, per me è stata l’unica donna che sapesse ridere, c’era grazia, finezza, intelligenza, complicità che la rendevano unica.
Fu questa la tragedia piú grande della mia vita. Provai sensazioni strane: sentii il mondo ‘rimpicciolirsi’, io che l’avevo visto sempre grande, quasi affascinante, e da scoprire. Mi sembrò d’un colpo che tutto fosse chiaro e banale a confronto del destino di lei, muta ormai e fredda in quel piccolo cimitero, cosí umano, in cui aveva voluto farsi seppellire.
Quel mondo che mi appariva cosí piccolo ormai mi sembrava anche inutile, non c’era eco di fecondità che me lo facesse risuonare di qualcosa per cui valesse la pena di vivere. E non fu un sentimento di breve durata, si andò radicando sempre di piú in me, finendo per essere una veste psichica impossibile da smettere.
Nel mio andare quotidiano in cerca sempre di qualcosa mi pareva di sfibrarmi: riguardavo quella città in cui vivevo e la trovavo come immobile, spettatrice di pietra, indifferente allo scalpiccio dei milioni di esseri umani che l’avevano percorsa nella sua storia. Tuttavia mi appariva benevola nei miei confronti, sembrava non giudicarmi, io ero uno dei tanti, e neanche dei piú significativi che vi fossero vissuti.
Per molti mesi cercai di pensare a qualcosa che avrei ancora potuto fare. Scrivere il libro di cui mi aveva detto quel mio amico-collega? O riprendere con la solita mia pigrizia o accidia, come si diceva un tempo, a far politica militante per far capire a qualcuno che forse i principî di una buona ideologia potevano ancora servire? Osservavo persone e cose, ogni giorno, non perché cercassi segnali o inviti, tanto non avrei trovato niente e nessuno. Tuttavia quello che il mondo mi rimandava come immagine riflessa era di una banalità disarmante. I discorsi che sentivo mi suonavano vuoti, insulsi, senza il benché minimo senso. Tutto già visto, tutto già sentito, già sperimentato. Ma questo mi era successo sempre, io che rimandavo il meglio da scoprire al giorno che sarebbe venuto dopo, restavo sempre sorpreso che ero ancora capace di provare delusione. Non avevo bisogno di fare della psicologia, i miei studi mi permettevano di controllare tante cose che qualcuno avrebbe potuto pensare degne di esser oggetto di psicoanalisi. I risvolti come il ‘sotterraneo’ o il non detto erano argomenti che mi avevano occupato fin da giovane e non li temevo. Era invece ciò che navigava in superficie che mi dava fastidio, non delusione.
Ma ancora una volta mi venne da pensare che una nuova stagione o una nuova persona mi avrebbero potuto significare qualcosa, magari motivarmi il vuoto del mio attuale sentire. Insomma tornava il senso del futuro, il solo che può far nascere e far crescere qualche progetto o alimentare qualche intenzione.
Il settembre fu caldo e invitante, e il richiamo del mare agiva su di me irresistibile, anche se vi andavo quasi di malavoglia, tanto non vi avrei fatto nulla di nuovo o incontrato persone che mi dicessero qualcosa. Invece un incontro fortuito, strano, mi fece pensare che la galleria dei quadri della vita può essere prolungata a dismisura, pur senza dare ai nuovi soggetti troppo spazio né onore: gente da guardare di sfuggita e senza convinzione. Doveva essere cosí anche questa volta: io inseguivo segni che mi dessero il senso d’ogni cosa. E questa persona che sembrava aspettare qualcosa, là sola sulla spiaggia, mi parve incarnarne uno, fortissimo, visibilissimo, sembrava una reincarnazione: stessa figura, stesse movenze aggraziate, stesso modo di stendersi al sole e di respirare l’aria di un mare quel giorno limpidissimo come il suo cielo. Io rimasi sorpreso e incredulo, mi sedetti su uno scoglio vicino e la contemplai a lungo, non minuti ma ore. Tutto mi pareva assurdo, tanto lontano da una spiegazione plausibile che non fosse quel richiamo che tutti fanno al caso e che tanto piace a cartomanti o sedicenti astrologi.
L’indomani non scesi al mare, ma il giorno seguente vi tornai e la rividi, stesso posto, stesso scoglio, stesso atteggiamento come di attesa di qualcosa, non di qualcuno. La cosa mi intrigava molto: passavo in rassegna, come ero solito fare tante volte, tutti i casi della mia vita. Ma questa donna che sembrava reincarnare qualcuno, non sapevo dove collocarla. Forse è vero che tutto si ripete, solo riformulato diversamente e con altri protagonisti. Attaccai discorso in una maniera cosí banale da vergognarmene. Invece fu un incontro semplice e subito molto amichevole, senza sospetti né finzioni. Era una persona che viveva un momento difficile. Ma guarda! Pensai, anime disgraziate si attirano per piangere insieme! Da un lato mi scappava da ridere, dall’altro mi colpiva la serietà della situazione. Anche questa donna stupenda a vedersi aveva alle spalle legami falliti, delusioni patite per sentimenti traditi o comunque affetti mal riposti. Ma il suo tormento nell’essersi vista svilita in quello che pensava essere un vero legame aveva un senso, era spiegabile, rientrava in una casistica abbastanza diffusa. Non cosí il resto. Incontro imprevedibile e peregrino.
Attrazione, simpatia, empatia, tutto sembrava giocare un ruolo formidabile in questo incontro e tutto si ripeté di nuovo il giorno dopo: una domenica tutta trascorsa al sole, a comunicarci fatti e sensazioni della nostra vita passata, a contemplarci dentro e fuori, a stringerci in abbracci improvvisi per il caldo che emanava da noi, dalle nostre vicende, dall’essere lí a vivere un momento incredibile e insperato per entrambi. Io guardavo, chino sotto di lei, le sue labbra bellissime; la pronuncia era quella di un italiano imparato con attenta diligenza, il rumeno era la sua lingua madre, e il suo dire riproponeva tutta quella attenzione, a volte ingenua e di un candore che mi faceva sorridere. Il tramonto fu bellissimo, non avrei mai voluto che lei si rivestisse, la sua nudità era perfetta e l’ansia che nasceva dal timore di non più rivederla o ritrovarla mi attraversò come un ago sottile. Nei giorni seguenti ci risentimmo con messaggini troppo brevi ma calorosi e decidemmo di rivederci. Fu un incontro altrettanto bello, ma nelle sue parole colsi un segno che mi fece pensare in negativo. Mi abbracciava ammirata e sincera, ma io ebbi la sensazione che lei si stava distaccando. Del resto mi aveva già parlato del suo amore tradito, per un uomo in cui lei aveva creduto e che invece l’aveva svilita nella maniera più dolorosa per una donna. Io le aveva scritto in precedenza dei foglietti fitti fitti di considerazioni piuttosto precise su quello che mi aveva raccontato: ancora una volta, l’ennesima, mi trovavo a fare lo psicologo e insieme lo psicanalista di donne sconfitte da un amore mal riposto. Inorgoglito ma con tante bestemmie in corpo, perché di lei mi ero innamorato veramente. I messaggini si diradarono, ormai erano sempre più espliciti: stava male, era tormentata, quell’amore o quella attrazione non erano scomparsi, anzi. Ed anche in questo c’era un senso. Lei si diceva religiosa, esistevano a suo dire delle forze che non riusciva a scacciare, l’uomo che lei aveva amato di un amore furioso per tre anni era sempre presente nei suoi pensieri e nei suoi discorsi.
Partí per il suo antico paese, da cui mancava da moltissimi anni, e quando tornò il suo messaggio diceva che aveva fatto chiarezza in se stessa. Un uomo di chiesa – un pope ortodosso – e i parenti ritrovati l’avevano aiutata tanto. Doveva lasciar andare le cose per il loro verso: non siamo noi a decidere, ma qualcosa o qualcuno al di fuori d’ogni nostra portata.
Io avevo sempre rispettato ogni suo pensiero, cosí rispettai anche queste che mi apparivano come ingenue e infantili sicurezze. Ma forse era quello di cui lei aveva bisogno.
Non ci siamo rivisti per lungo tempo. Io stavo tornando alla mia filosofia di vita: chi non mi vuole, non mi ha. Tuttavia non ero affatto contento. Provavo ogni giorno di piú lo sconforto della solitudine, quasi che contro di me che la odiavo come la morte volesse accanirsi vigliaccamente.
‘Ma tu sei un uomo troppo impegnativo per una donna’ queste parole, che una mia studentessa mi aveva detto dopo che eravamo diventati amici – gli anni che ci separavano erano pochi – mi risuonavano nella testa con un’insistenza diabolica, e mi domandavo che cosa cercano le donne negli uomini. E volevo che questa domanda non fosse cosí peregrina come si sarebbe potuto credere. C’era una letteratura sterminata su questo tema. Io non volevo credere alle risposte vecchie e nuove che erano state date. C’era qualcosa che mi sfuggiva, la psiche femminile non è cosí facile da scoprire come quella degli uomini; anche quando credi di averla bene incapsulata in un elenco di sintomi essa ti sfugge e si beffa di te.
Se era amore per me, pensai ad un certo punto che poteva almeno acquietarsi in una serena amicizia per lei, ma non ne fui subito convinto. Poteva avere un senso un legame pacato e rassegnato con una donna che ti aveva fatto pensare tanto in positivo da farti venire le palpitazioni di cuore? Il mio umorismo istintivo faceva di nuovo capolino tra le pieghe di questi miei pensieri un po’ bislacchi. Perché no? Mi dissi. In fin dei conti io sapevo tutto di lei, m’aveva detto di possedere una forza d’animo immensa, quella che le aveva fatto vincere tante battaglie. In realtà io sapevo che era debole, troppo autentica e veritiera per essere invulnerabile.
Avrei aspettato una sua telefonata, forse ci saremo rivisti, al desiderio di fare all’amore si sarebbe sostituito il chiacchiericcio gratuito di un confonderci reciprocamente i sentimenti.
Passarono giorni e settimane, raccoglievo impressioni, pensavo sempre alla donna della mia vita, era il mio demone meraviglioso e benigno, che mi voleva suo per sempre ed era giusto che fosse cosí. Lei mi aveva dato tutto di sé, e io dovevo restar legato a lei. Non importava che in mezzo ci fosse quel diaframma che si dice vita-morte, noi eravamo sempre insieme e cosí doveva essere. Pensieri belli e tristi ad un tempo, ma erano quelli più sinceri che mi venivano e quelli a cui io più credevo. Si può credere ad un pensiero? Esso ti può sopravvenire e ti può martellare: come lo devi accogliere? È una presenza estranea o è tutto il meglio di te? Anche in questo cercavo un senso, nel mentre raccoglievo impressioni e mi ‘auscultavo’ in maniera che stava diventando quasi patologica. Auscultarsi, dicono i medici, può essere un esercizio pericoloso, puoi scoprire o sentire cose che non esistono ma che possono diventare parte di te, fino a farti del male. L’introiezione di ogni cosa e la sua auscultazione può essere come un’ingestione di tossine che non riesci piú a metabolizzare. Ogni cosa va vista a distanza, la visione prospettica giusta ti può salvare da tante velenosità. Sono le passioni belle quelle che devi far tue, centellinarle fino in fondo: non c’è il rischio di esaurire la vita, ma di viverla nella sua giusta dimensione.
Ma le dimensioni della vita sono tante, potrebbe dire qualcuno, e non tutte ti offrono i loro lati benefici e gratificanti. Anche in questo c’è un senso, niente risponde ad un disegno, ma tutto sembra rispondere ad una logica interna alle volte secca e crudele, ma ineluttabile. Anche le passioni piú belle rispondono a questa logica, vi si uniformano e sembrano quasi confortarla. Ma allora bisogna prendere in mano la propria vita o affidarsi ad essa con una fiducia che comunque non ti creerà mai né sensi d’impotenza né di pentimento o di rimorso?
Tutto questo andavo rimuginando nelle mie scorribande per le vie di una città tanto innocua quanto immobile in ogni sua manifestazione. Tutto in apparenza sembrava scorrere tranquillo quell’anno, anche gli eventi atmosferici, che altrove erano catastrofici, non la toccavano ‘per fortuna’. Tutto già visto e già sentito. Ma c’era una cosa che riscoprivo sempre con rinnovata rabbia, l’insipienza e la rozzezza mentale di tanti personaggi del vivere cittadino. Insipienza e impudenza. Come nell’ambito nazionale, anche in quello locale c’erano troppi impuniti, come avrebbero detto a Roma. Le cronache cittadine lo documentavano ogni giorno: c’era una pagina del giornale locale, la pagina delle ‘Segnalazioni’ che sembrava la pagina dei delirî, di una città in sofferenza perpetua. Ma il grave era che questa sofferenza perpetua era reale, tangibile e maledettamente vera. Veniva fuori il quadro di una città stordita, troppo importante geo-politicamente per essere lasciata in pace da chicchessia, ma che nel corso della sua storia aveva avuto sempre bisogno di qualcuno che, altrove, pensasse a lei, insomma sentiva come un bisogno ‘dell’anima’ quello di essere assistita. E questo altrove veniva invocato da tutti, anche da coloro che erano venuti da poco in questa città. Mi riusciva inspiegabile questo sentirsi sempre subalterni a qualcuno o qualcosa. E quasi per converso non c’era luogo dove non si invocasse autonomia, e non ci fossero movimenti che non facessero dell’indipendentismo la loro bandiera, spesso patetica, ma sempre sofferta.
Stavo un giorno guardando, quasi sgomento, i gradini di una scalinata di cui non vedevo la fine, vi erano impressi come dei passi scheggiati, alcuni irregolari, altri cosí bene arrotondati che li avresti detti fatti apposta. Niente mi aiutava a capire quei segni, poteva essere stato uno scalpiccio forsennato, una debole vena del calcare, la cattiva postura di un operaio. Non mi piaceva niente di quella scalinata, poteva servire a tante persone come anche a nessuna, infatti per un’ora buona non vidi nessuno salirvi. Per me significava un problema. In seguito venni a sapere che su quella scala avevano trovato un morto, senza nome, senza documenti, quasi finito per errore in un luogo che non era il suo. Ma la morte ha un suo luogo? I giornali ne avevano scritto per settimane, ma non era il morto che interessava alla gente, bensí le eccitazioni che la cronaca alimentava quotidianamente. Forse il vissuto di quell’uomo non aveva nessun senso ormai, trapassava in un’ombra senza fine. Che cosa aveva pagato costui? Dopo settimane non si venne a capo di nulla ed anch’io non mi posi più domande, tanto anche la sua identità finiva per non lasciare traccia alcuna da nessuna parte. C’era del giallo e del nero in quella morte, ma per me quella morte sembrava avere una valenza metafisica: una scalinata odiosa e brutta, fuori mano e deserta, una persona senza volto vi finiva i suoi giorni, una città incuriosita ma non troppo, che vi stendeva sopra un velo indispettito. Tutto senza senso.
Gli amici che incontravo mi dicevano che io dovevo andarmene, per un po’, fare viaggi, distrarmi: il dolore per la perdita di lei andava metabolizzato, prima che mi facesse altro male. Costoro pensavano giusto, ma io non riuscivo a progettare nulla. Andare poi dove? Osservare il mondo vuol dire osservare gli uomini, donne bambini e vecchi, e le loro storie le puoi trovare ovunque, non occorre andar lontano. Ma gli uomini e il mondo non sono dovunque tutti uguali, mi dicevo, quasi per provare un impulso di novità. Effettivamente le novità ci sono e sono tante, anche se il mio desiderio di meravigliarmi per qualcosa penso che andrà sempre deluso. Ma cercare cose meravigliose o che ti sorprendano è proprio dei bambini! Questo pensiero non dovevo accoglierlo nel suo verso negativo, anzi! È solo la capacità di meravigliarci, di sorprenderci che può dare un senso a tante nostre peregrinazioni. In fin dei conti peregrinare può far bene e meravigliarci, incuriositi di tante cose, ancora meglio.
Tuttavia non feci nessuna valigia. L’ultima volta che eravamo stati a Parigi non avevo visto facce nuove, ma avevo vissuto situazioni nuove. Mi ero innamorato degli interni degli appartamenti francesi, cosí strani rispetto ai nostri, le loro scale interne per noi improbabili, lo sfruttare ogni angolino della casa con un senso dello spazio che noi non conosciamo o non conosciamo piú. Montparnasse mi era sembrata una città nella città, con un suo respiro, anche se ormai smorzato nei suoi toni acuti di un tempo. Non era molto quello che io chiedevo, ma Parigi mi dava tanto e non mi infastidiva mai. Un’umanità senza volto, mentre tutti quelli che incontravo avevano un volto, mostravano la loro provenienza, mostravano la loro vita senza mascherature che io non potessi penetrare. Dietro le loro fisionomie c’era sempre qualcosa, anche se dejà vu, niente di sorprendente, forse nei piú giovani qualche palpito d’entusiasmo per un incontro o una carezza sospirata, ma forse neanche questo: potrebbe suonare come un tocco di poesia. Mi aveva invece sorpreso fin dalla prima venuta a Parigi la ghiaietta di certi suoi viali intorno alla Senna o nei pressi dell’Hotel des Invalides, una ghiaietta gessosa di gneiss, mi pareva, comunque strana, anche per il sottile rumore che produceva sotto le mie scarpe. Figure tante e silhouettes deliziose come quella di una commessa bellissima dei magazzini Lafayette: per contemplarne il volto, e il resto, apersi, senza prestare molta attenzione, la macchina fotografica e bruciai tutto il rollino. Addio foto di Parigi! Ma questo succedeva in tempi lontani. I ricordi e i nuovi incontri si sormontavano, ma non mi dispiaceva affatto che tutto questo diventasse il collage di una vita. Erano frammenti ma sempre organici per uno che cercava o credeva di poter cercare il senso d’ogni cosa. Il rollino andò perso, ma la bellezza di quella ragazza mi accompagnò per tanto tempo, fino a condizionarmi in ogni sguardo femminile che mi accadeva di incrociare. E questo durò a lungo.
Il ritorno a Trieste fu triste. C’era una persona all’ospedale psichiatrico che aveva bisogno di me. Un dramma penosissimo vissuto come in un’atmosfera di sospesa irresponsabilità. Non se ne poteva uscire, per lei e per me. Viaggiavamo ormai lontanissimi l’uno dall’altra: io calcavo terreni bassi, lei era ormai sperduta in un mondo opaco e nebbioso, dove l’unica luce era data da scoppi bruschi di paura. La mia diventava una rassegnata malinconia: capivo di non poter far nulla per lei e mi ricordavo di quanto avevo già detto al prof. Musatti, in un incontro avuto con lui alla Stazione Marittima di Trieste in occasione di un convegno sulla psicoanalisi, nel cervello o nella psiche di una persona scattano alle volte connessioni balorde, chimismi o elettromagnetismi incontrollati e disarmanti per uno che vuole dar loro un senso. Egli mi guardò perplesso e interrogativo, ero un ingenuo riduzionista o fisicista? La psiche, mi disse, è misteriosa, ma non tanto che non si possa tentare di scandirne anche le sofferenze (prevedibili, misurabili?), o almeno quelle che noi intendiamo tali. Il colloquio ad un certo punto si interruppe, perché si era avvicinato al nostro tavolino Fulvio Tomizza che voleva parlare con Musatti. Alla presentazione, grande fu la sorpresa di Tomizza nel vedere che Musatti non lo conosceva e cercava un aiuto da me, che tacevo quasi defilato per non apparire indiscreto.
Comunque per me fu un bell’incontro e un lungo colloquio: Musatti era un grande maestro, la sua vita tutta una lunga navigazione tra anime in pena ma anche piena di felicissimi incontri e confortevoli corrispondenze. Sapeva sorridere di ogni cosa: lo spirito ironico e leggero di un’intelligenza sublime non lo abbandonava mai, men che meno quando ricordava le sue donne. Io ero uno sconosciuto, eppure egli mi parlò per piú di un’ora, forse perché io l’ascoltavo in silenzio: i ruoli si erano invertiti! Lui, psicanalista freudiano, mi raccontava tante cose, senza neanche domandarsi se avessero potuto interessarmi. Mi interessavano. Eccome!
Alla ripresa dei lavori mi salutò con un cordialissimo: – arrivederci, mio giovane amico.
Fin da ragazzo ho sempre provato una sensazione strana, quella di vivere alla periferia di qualcosa, e che il centro fosse altrove. E io lo pensavo sempre al di là dei limiti che vedevo intorno a me e che mi chiudevano. Erano limiti spaziali, geografici, non umani, l’umanità era un’altra cosa e rispondeva ad un’altra mia sensazione strana, che si tramutava in pensiero: era gente come prestata a questa terra e che pure pareva felice di risiedervi.
Nel 1969 avevo incontrato, nella villa dello scultore Mascherini a Sistiana, il poeta Alfonso Gatto. Era venuto per farvi uno studio delle sue opere. Fu un incontro altrettanto bello per me. Ne conservo un ricordo tra i piú gratificanti. Per un giorno intero quasi parlammo di tante cose, oltreché di letteratura, della scrittura del Manzoni. Ma il mio accenno al sentirsi passeggeri e naufraghi lo colpí, me ne accorsi dal suo sguardo, quelli splendidi occhi celesti che imitavano il cielo. Non mi rispose subito né direttamente, diceva di voler capire bene. La leggerezza che egli metteva in ogni cosa, nei suoi versi, nella sua conversazione lo soccorse. Non era naufragio di morte ma di un dolce congedo che deve essere quello per ogni cosa bella che ci ha visto sorridere. Era una traccia splendida per entrambi: una cosa bella, una bella persona che ci ha visto sorridere! Su queste note finimmo per restare piú di mezz’ora. Tornava il senso della bellezza, quello in cui noi ci si perde, per uno smarrimento sottile e sempre diverso.
Alfonso Gatto, il poeta dagli occhi celesti, mi congedò con una affettuosissima dedica ad un suo breve scritto che io conservo con amore. Dedica terribilmente profetica. Presentiva di essere al tramonto, ma non che il figlio l’avrebbe preceduto nella tomba. Infatti un incidente d’auto glielo rapí di lí a poco.
Troppe cose son successe nella mia vita, troppe cose mie, poche, forse, notate da altri, da fuori. In realtà in me si sono rivoltate epoche di dimensioni gigantesche, dal ‘700, tollerante e dal tramonto quasi anestetizzato (altrove… dalla ghigliottina) al 2000 cosí insensato e critico (ma forse solo pseudo critico).
È passato del tempo… Oggi ho visto tanti sederi di bellissime donne, le quali parlavano lingue diverse, ma che forse dicevano le stesse cose: amori e delusioni, appuntamenti ignorati, acquisti da fare o acquisti accarezzati e rimandati. Chissà. I loro sederi però erano tutti stupendi, anche se parlavano lingue diverse. Sarebbe interessante sapere perché e quando è nata l’idea (o forse piú che l’idea) che se non parli la mia lingua, non puoi essere mio vicino. Presso i Greci antichi era cosí, ma presso i Romani no. La lingua ha una valenza enorme, è un pronunciamento d’identità. Ma cos’è l’identità? L’io che sa o si convince che non può essere l’altro?
Abbiamo filosofato di coscienza e di autocoscienza, sul percepire o sentire ogni sussurro che giungesse da fuori, immagini sconcertanti, intere e frantumate. Eppure non scoprivamo mai il senso. Tutto poteva sperdersi in uno spazio che era nulla e noi con loro. Il caso, che accidente!
La vita è nata da un gioco di mutazioni aleatorie. Tutto per caso! E il fine prestabilito? E il senso che noi invochiamo per spiegare ogni cosa? La vita è frutto del caso, come la morte, perché la vita non ha senso. E noi, là, a costruire simboli, per riderne o bestemmiarci sopra. Ma anche per pregare.
Il sacro è il nebuloso, l’indistinto che sta prima di noi: non risponde ai requisiti di essere, di significato, di verità, come voleva qualcuno. Questo lo rende accessibile solo al sentimento, non all’intelletto. E questo lo rende pauroso. Il sacro non lo si ama, lo si teme. È un pericolo rischioso, può rivelarsi un raptus che non possiamo dominare, può essere furia che annienta o avvilisce. Tutto questo pensavo ed ero vicino ad una chiesa, vi era giunto per caso nelle mie scorribande serali. Rintocchi cupi di campane, mi avrebbe suggerito l’intelletto. Ma chi li sentiva? Del resto mi parevano brutti, senza affetto, sí, senza affetto. Anche le campane devono amare, il suono che ne esce e le scuote non dovrebbe essere di morte, neanche quello della sera.
Ma un passo svelto di donna mi fece voltare. Non andava in chiesa, sembrava voler rincorrere qualcuno. Era molto bella. Portava con sé profumi antichi, svolazzi ricamati per aria che solo io sentivo. Volevo rincorrerla, i suoi ricami erano vicini, il sorriso che io mi ero sognato di vedere mi eccitava. Ma subito tutto mi parve privo di senso. Lei inseguiva qualcuno. Che stranezza è l’uomo, in un universo che non conosce se non vicende insensate, egli crede di poter dare un senso o significato a tutto. Crea dio e dei, inventa l’amore come sentimento sublime, e l’odio di cui poi pentirsi. Crede che l’universo tutto conosca, bene e male, e non s’accorge che è la sua fantasia a creare e ad ammalarsi. Costruisce, sí, è indubbio che costruisce, ma nell’universo delle galassie senza numero, il suo è un gioco senza risposta, inanis l’avrebbero detto gli antichi.
L’uomo del nostro tempo, pensai, è molto piú sprovveduto di quello antico: questi aveva un orizzonte di senso sempre davanti agli occhi. L’uomo d’oggi, questo orizzonte di senso, non lo ha piú. Non c’è per costui alcun senso che la vita esista solo sulla Terra. Non c’è alcun senso che tutta la realtà cosmica sia tenuta insieme da quattro o tre forze e che nulla possa essere diverso da quello che è. L’uomo antico era piú provveduto sotto questo aspetto: vedeva una ragione per ogni cosa. E là dove questa non era manifesta, c’era comunque l’insondabile volontà di un dio a rendere tutto spiegabile o a dare una risposta. E il Cristianesimo partecipa di questa antichità, ecco perché è entrato in crisi con l’avvento della modernità. È il residuato di un tempo in cui c’era un orizzonte di senso. Neanch’esso è riuscito a spiegare perché tanta gente abbia pagato e paghi per l’insensatezza di alcuni individui. Non c’è ragione che spieghi violenza e crudeltà, se non una natura dell’uomo vigliacca e folle. Eppure ancora una volta il senso di tutto questo mi sfuggiva, mi sfuggiva anche il senso di questa natura che nell’uomo diventava epifania demoniaca.
I bei visi che incontravo, di giovani donne, mi apparivano quali morbidi ricordi, li accarezzavo e mi accarezzavano. Erano profili dolci, soavi l’avrebbe detti il poeta antico. E tutti accompagnati da un profumo antico anch’esso, come di gelsomino. Non avrei voluto dimenticarli, nemmeno uno, di quelli che incontravo. Talvolta mi scoprivo a voltarmi per fissarli meglio, ma erano scomparsi, mi sfidavano in questo loro dileguarsi nel nulla. Ma io li amavo per sempre, non era l’armonia del tutto, però era la prova sublimata dell’essere.
Tu sei un quaderno ingiusto con me. Ti ho ripreso in mano dopo alcuni mesi, ti avevo messo da parte, ma tu ti facevi sentire, eri una presenza che io non potevo ignorare. Ma comunque eri e restavi ingiusto con me. Volevi che ti confessassi tante cose, volevi fermarmi anche in momenti che io non amavo ricordare, momenti sempre assurdi.
Ieri sono stato a sentire la presentazione dell’ultimo libro di Claudio Magris (Alla cieca), libro strano, ho visto solo la copertina con i colori di un mondo che forse sono quelli del cosmo, se questo ne ha uno, e con la figura di una polena che sembra quasi commiserarti. Dovrò leggerlo: sono esistenze ambigue quelle raccontate, e come l’effetto della luce Doppler ora ti dilaniano la vista, ora te la rendono cristallina. Sembra essere anch’esso un libro sul non senso. Che tutto sia frammento o scaglia di selce è un τόπος che a Magris piace, forse è questa la grande rivoluzione che egli crede di poter scorgere nel sentire che l’umanità ha avuto di sé. Alla compattezza di una appercezione solida, da qualche tempo sarebbe subentrata la dissoluzione, la frantumazione, lo squilibrio per posture precarie, incerte, malferme. L’uomo non sa piú ciò che è o può e deve essere, o forse sta sfidando Dio per fargli capire che quel che lui voleva uno, in realtà poteva essere mille e piú. E qui sta la presa in giro anche di Dio che credeva di fissare uomini e cose una volta per sempre, mentre queste gli sfuggivano bizzarre da ogni parte, sotto ogni cielo e in ogni tempo, quasi con lo sberleffo non dei ribelli ma dei giullari cialtroni, dalle evoluzioni danzanti e senza fine. Eppure l’individuo ha bisogno di raccogliere quasi in una rete tirata su dal mare della vita le molte scaglie del suo io, sparse e disseminate sulla superficie dell’acqua, sulla quale naviga ora felice ora disperato. Son tessere che lui deve ricondurre ad un centro. Forse non troverà il collante, ma sa che non sono tessere o frammenti tanto bastardi l’uno dall’altro.
La natura li ha connotati, vi ha sparso sopra un colore della stessa tinta, seppur velato, che non può sfuggire ad un occhio esperto.
Siamo molti in uno, ma quest’uno riesce a sopportarli tutti, ora con meraviglia e sorpresa, ora con quel sorriso di comprensione che li affratella di un legame profondo, altre volte con la tristezza di chi deve mediare. Cos’è vivere? Cercare ed aspettare. Questa sarebbe una bella risposta ad una domanda che non è venuta meno, neanche in un’epoca come la nostra, che pare grigia, smaliziata, scettica e cinica, o semplicemente volgare. L’ineleganza d’ogni risposta mi fa credere che sia venuta meno ogni sensibilità verso il destino dell’uomo. Parole grosse, quasi anacronistiche nei tempi attuali. Il destinatario del suo dire è un uomo sempliciotto, quasi asfittico nei suoi pensieri e nelle sue ambizioni.
Quando parlai di queste mie elucubrazioni, lei che poco prima mi aveva accarezzato l’anima e il corpo fino in fondo, mi guardò sbalordita: – tu pensi troppo e pensi male. Non è poi cosí che va il mondo. Tu lo vedi piú complicato di quanto non sia, forse lo intendi in maniera troppo severa. Basta lo stappo di una bottiglia di champagne che la storia dell’uomo volta pagina: è un’altra cosa, semplice o forse, come dici tu, inelegante.
Io guardavo i suoi bellissimi occhi e quando si alzò per andare a prendere lo champagne non potei fare a meno di dire tra me e me sommesso ma compiaciuto: callipigia. Possedeva una perfezione che solo io assaporavo, erano linee di un incarnato morbido che mi incantavano sempre, era il metafisico fuori d’ogni contingenza, il bello in cui sprofondare.
Non volli riprendere il discorso di prima, ma volli solo accarezzare tanta perfezione e perdermi in quella nudità. Il bicchiere di cristallo era pieno, le bollicine perlacee si andavano mortificando e io le miravo contro la luce di un tramonto che impallidiva. La bellezza, pensai, ti fa sognare ma anche ti disperde: ti ritrovi, sperduto, a inseguire mille rivoli senza approdare a nulla. E allora devi recuperarla, questa bellezza, tenerla in mano per baciarla, come una salvezza troppo preziosa che rende tutto fecondo.
Ma la bellezza è anche verità. E in questa, è stato detto, bisogna inserirsi. Ma perché ‘inserirsi’ nella ‘verità’ del mondo quando ti accorgi che essa è falsa? Inserirsi nel mondo come in qualcosa che abbia un senso, non so fino a che punto sia giusto o, meglio, opportuno. Lo faceva l’honnete homme del ‘700: adattarsi ai tempi, alle circostanze…
Eppure le cose al mondo non hanno sempre un senso, almeno a vederle da vicino e in contemporanea; spesso lo si scopre studiando il passato e allora si rabbrividisce scoprendo di non aver potuto o saputo scoprirlo e fissarlo quando sarebbe stato vitale farlo. Alle volte si scopre che non sono le cose o gli eventi ad essere privi di senso, ma gli uomini che attraversano il mondo. Follia e vuoto sembrano accompagnarli, ma anche ridere di loro.
Stavo ancora pensando, ma non glielo feci capire: pensavo e pensavo male! La bottiglia di champagne della mia callipigia avrebbe dato un senso diverso e immensamente bello al nostro stare insieme. Del resto anche la stagione, con le sue notti di luna fredda e muta, contribuiva a farmi vedere piú chiaro. Ci sono incontri che ti stupiscono e ti causano un palpito che ti porti dietro per la vita, altri che sono la fenomenologia del rifiuto.
Il nostro incontro era stato un incontro palpitante, aveva provocato in entrambi un fremito di quelli che non si acquietano tanto presto. Ma anche i palpiti piú accesi hanno bisogno di qualche intermittenza e il discorso scivolò su un tema quasi scolastico e banale se non fosse che esso riempie scaffali interi di università: cos’è la forma? La forma è una epifania. Se le strutture che la sottendono sono belle, anche la ‘forma’ è bella. Ma queste strutture sono incontri, aggregazioni mirate di sinapsi piú o meno ‘astute’ o frutto di casualità irriverenti che il pregiudizio dell’osservatore vi vorrebbe ritrovare?
Però esistono forme belle convincenti e forme belle che non convincono affatto. Andavo a cercarne un senso, ma l’intermittenza ebbe termine e i palpiti piú accesi riebbero il sopravvento. Tutto tornava ad apparire piú chiaro e sensualmente piú caldo, e per un momento dimenticai la ἐπιστημονική αἴσθησις degli antichi.
Ma un senso le cose lo possono avere solo se le definiamo. La lingua impone ordine al mondo, dà forma e definisce ogni cosa. Se non c’è un segno, un termine anche l’idea piú alta, il sentimento piú caldo e nobile, l’invenzione piú acuta restano nel nulla. Eppure il mondo è altra cosa rispetto a quanto il linguaggio ci fa credere. O no? La civiltà classica ha voluto ed è riuscita a ‘definire’ il mondo per capirlo. Le forme in cui essa lo ha fermato e fissato lo hanno reso spiegabile. La civiltà moderna è penetrata in alcuni interstizî e ne ha allargato le crepe, svelando caos e indeterminazione nell’essere d’ogni cosa, cosí anche nella vita.
La sfida d’ogni sapere oggi sembra essere quella di ricostruire vie d’accesso che si legittimino, non solo trascendentalmente, a penetrarvi (mondo, essere, vita). Un tempo lo facevano i poeti, oggi i veri poeti sembrano essere gli scienziati, che osano credere di poter definire ogni cosa e, cosí, il mondo. Al poeta l’essere appare informe, indecifrabile, ed egli non riesce a ‘definire’ nulla ormai. Lo scienziato vuole definire tutto quanto può definire e, ‘nominando’, ‘creare’ l’essere. E perché non lo potrebbe fare? In fin dei conti è il λόγος del dio, di cui egli partecipa, che ne garantisce la legittimità. Prima i poeti e i legislatori, oggi i giudici e gli scienziati. Per i primi crisi della parola, crisi del soggetto. Per i secondi la parola, il segno aiutano a ricreare l’universo. E piú esso è matematico, piú sembra veritiero. Quale rapporto c’è tra vita e parola? Qualcuno ha detto che questo rapporto ormai s’è rotto. Eppure senza la parola la vita stessa finisce per essere un enigma, si crede di viverla, in realtà la si insegue faticosamente. Con la parola non la si ferma, ma la si vive. E se le parole son cose e non solo funzioni o segni bistrattabili, noi dobbiamo essere severi con esse, devono essere punti che dolgono nel mentre ti aprono orizzonti di senso altrimenti preclusi. Senza la parola il mondo resta fuori di noi, finisce per non appartenerci. E allora sí che rischiamo di essere naviganti sul nulla, ontologicamente tautologici, inesistenti. La parola è la via che ci collega con l’altro, ci proietta all’esterno, rompe la capsula o campana sotto cui rischiamo di soffocare. È con la parola che invochiamo aiuto.
Anossia dell’anima, inibizione delle sinapsi, infecondità dell’io. Tutto questo accadrebbe senza la parola. E se invece senza di essa fosse possibile ammirare mondi nascosti, universi paralleli e molteplici? Ma chi, allora, lo potrebbe certificare? Un segno, una sillaba, un suono: tutto è messaggio che dà vita anche all’inesistente o ai nostri sogni e fantasmi, al non voluto, al chimerico come all’utopico e all’ucronico. Di parola si vive. Erano, questi, pensieri che alla mia callipigia non esternai: contemplai la sua meravigliosa nudità e questa volta le bollicine perlacee dello spumante non si mortificarono nel nulla. Fu invece un desiderio incontenibile di carezze urlate quello che seguí per tutti e due, la sola cosa che dava un senso a tutto.
– E in un’epoca di crepe e di non senso come l’attuale cosa pensi della letteratura che sembra imperversare proterva come non mai? – Io non credo, risposi dopo qualche minuto, che alla letteratura spetti oggi il compito di ‘fotografare la realtà’, termine abusato e, forse, da non usare piú: ci sono altri mezzi e forme che lo possono fare meglio. Se non il ‘fuori’, la letteratura però e la poesia in primis deve tornare al ‘dentro’: tutto quel mondo sotterraneo, fatto di sentimenti, per dirla come un tempo, di emozioni, sogni e fin’anche pazzie e visioni, sensorialità accese, che pure sono stati l’opus majus di ogni tempo e il piú misericordioso per l’uomo e che possono salvarlo, anche perché è di questo che si sente il bisogno. La poesia poi è il gratuito per eccellenza e perciò impagabile nel suo far del bene. Ma la poesia può essere anche il riso, la caricatura di se stessa. Nel mentre vuol ‘definire’, fa sentire il tarlo che corrode le sue ossa, sono gli scricchiolii del linguaggio che fanno sentire la loro lugubre presenza. Non si crede in quel che si vuol ‘definire’, perché il rapporto con ciò che si canta non poggia ormai su niente, può essere un autoinganno, diventa religione. E cosí il poeta finisce solo per contemplarsi.
– È molto bello quello che mi dici, forse anche vero – e qui un bacio delizioso interruppe il nostro ‘filosofare’. La notte limpida suggeriva a noi due tante altre cose belle: eravamo due creature libere con il nostro girovagare dell’anima, mentre il corpo ci teneva dietro, innamoratissimo di entrambi. Tutto questo aveva una sua logica?
Erano giorni incantevoli ma anche di stasi: mi sembrava di vivere quasi ancorato a qualcosa di solido che io non avevo provato altre volte, perché la vita mi aveva condannato da tempo ad essere un viandante, io che avrei voluto essere solo un viaggiatore. Ero condannato ad essere senza una meta né avere uno scopo. Forse perché uno che ha conosciuto l’esilio, resta un esule per sempre. E in questo esilio per me ormai perenne, io inseguivo solo la bellezza, bellezza di forme ma anche di pensieri, di sensazioni, di parole, di gesti, di visioni: questa è la sola bellezza che mi dice qualcosa, il resto è tutto banale, mi annoia mortalmente. E se questo fosse il δαίμων di cui parlava Socrate? Questo δαίμων mi ha fatto inseguire ed aspettare sempre qualcosa. Cercavo di inseguire, ma aspettavo anche che mi venisse dato. Forse questo mi ha indebolito ed intristito, anche quando volevo godere pienamente di qualcosa. È storia mia, ma è storia forse di tanti. L’uomo cerca un senso perché la tabe della religione lo ha contagiato nelle sue età primordiali. Anche il filosofo ha finito ‘religiosamente’ per autoingannarsi quando s’è visto signore dell’universo, se non addirittura il fine della storia! Il tempo è l’uomo e l’essere in lui, ha detto qualcuno, si attua compiutamente, in modo assoluto. Autoinganno piú grande non c’è mai stato. Ecco dove si arriva volendo antropomorfizzare tutto. Ogni galassia ride di noi e ci compiange.
Erano passati ormai degli anni ma la mia Euridice mi parlava sempre piú da vicino. Nelle mie scorribande per le strade della città guardavo tutto, ma una nebbia mi oscurava i contorni d’ogni cosa, quella nebbia non fisica che ti costringe a pensare su tutto e molte volte anche a pensar in negativo. Il mondo tirava avanti piuttosto male, sembrava in ebollizione, non come quella del ’68, tutto sommato piú di linguaggio che altro, e maledettamente falsa. Questa era una ebollizione globale (ah! La parola chiave che sta sulla bocca di tutti) che nasceva da tormenti diffusi per mali antichi, lasciati incancrenire, ma che rendevano bene in termini economico-finanziari a grandissimi centri di potere. Cosí si diceva in giro, con un linguaggio che non mi piace. Miscugli truffaldini di politica, economia, finanza. Mezzo mondo che si risvegliava e si scopriva nudo e derelitto: un colonialismo piú astuto e tatticamente piú subdolo si era impadronito dei problemi del mondo, non certo per risolverli, ma per godere di tutti i vantaggi che comunque essi offrivano. Era palpabile il malessere, che non scaturiva solo da problemi e sfide cruciali, etniche, religiose, sociali, politiche, economiche, che trovavano nel terrorismo la sola espressione possibile, perché piú facile e gestibile, anche con mezzi semplici seppure crudeli e qualche volta infami. La cosa piú grave era che il Potere (con la P maiuscola stavolta) non aveva nessuna intenzione di affrontare tali problemi. Questo ‘Potere’ non voleva confrontarsi con la ‘coscienza’ del mondo; aveva un’idea antiquata anche di se stesso, era in ritardo sulla storia, però galleggiava floridamente su mezzo mondo e piú di disperati. L’affarismo piú sfacciato diventava l’etica del mercato (altra parola del nuovo credo, piú malandrino che mai) e chi osava denunciarlo veniva tacciato di essere un passatista, un comunista, un totalitarista, insomma un individuo da zittire per sempre. Mi sembrava di assistere ad un disastro, se non in atto, in fase di incubazione.
– Ma tu perché vuoi sempre definirmi? Non ti basta il disegno delle mie labbra, il loro segno rosso sangue che sa di vita e non di bugia? – E questo lei lo diceva in maniera cosí ostentata che mi procurava un piacere folle. Non riuscivo a giudicarla male, anzi. Mi appariva cosí sicura di sé e insieme cosí elegante fuori e dentro. Era un’eleganza che la vita non sempre ti consente. Quando la trovi in una bella donna, l’adori. Ma io cercavo di definirla, senza che lei se ne accorgesse. Era un gioco del mio pensiero o del mio cervello, quasi ineludibile per me. Ma mi venivano definizioni tutte stucchevoli in quel luogo. Eravamo al Pigalle, su un piccolo divano appartato. I suoi occhi mandavano riflessi irreali, per le lenti a contatto che portava. Ma io di quei riflessi ero inebriato. Il rosso dei velluti da un lato mi eccitava, dall’altro mi procurava una quiete di ragionamento e di contemplazione. Guardavo le sue labbra e ci ragionavo sopra: troppo belle solo per pronunciare le solite parole, troppo belle per non seminare intorno un incanto da eccitarti di brividi ed allusioni d’ogni tipo. Erano insomma irresistibili (come dicono tutti prosaicamente). Mi pareva che definirla o definirne forme e impulsi potesse farla piú mia. Volevo che di lei non mi sfuggisse nulla: una compenetrazione dell’anima? No. Erano due corpi, due sensi della vita che si mordevano l’un l’altro e si esaurivano. Del resto cos’è l’amore se non gustare il senso del doppio, che alle volte vorrebbe rifiutarsi spasmodico, ma che invece può ritrovarsi solo nell’annullamento?
Io non avrei mai voluto riflettere su me stesso, autoanalizzarmi. E invece l’ho fatto tante volte, fin da ragazzino ‘sentivo’ me stesso e fuori gli altri, tutti gli altri, le cose, tutto il resto, fossero persone, avvenimenti, vicende familiari, eventi storici grandi come la guerra, l’esodo, il sopraggiungere violento di genti nuove, mai viste prima. Questo rovistare in me e nel resto del mondo intorno se da un lato mi veniva naturale, dall’altro mi procurava ansie; in seguito, non indurito mai dalle vicende patite, avrei voluto che quel modo di essere non mi appartenesse. Benché passassero gli anni non mi indurivo mai, ero una canna, avrebbe detto qualcuno, che non si stancava mai di vibrare. Sensibilità accesa che mi faceva star male, alle volte. Il bello era che la dissimulavo cosí bene, che a molti apparivo freddo, controllato, antipatico. Ma non era vero. Se incontravo una donna con altrettanta sensibilità, la mia dissimulazione spariva, restavo inerme, indifeso, non riuscivo piú a barare con la vita.
Il pensare è frutto di un attrito, ma l’amore no: io credo che esso abbia bisogno di languore, di quel feeling che scorre sotto la pelle e che si rivela al primo incontro, al primo sfiorarsi. Il pensare può essere crudo e ruvido, l’amore no, è carezzevole, levigato…
Lei era talmente entusiasta di quanto pensavo e dicevo che non si accorse delle spalline dell’abito che erano scese e lasciavano intravedere un seno meraviglioso, gonfio e vivo, tanto era caldo, accogliente. Io non lo sbirciavo, ma lo contemplavo quasi sfacciatamente e insieme con un sorriso complice.
Ci furono altri giorni belli tra quelli trascorsi a Parigi. Percorrevamo a piedi l’Ile de Saint Louis, Place des Vosges, il Marais per sentire sotto di noi la eco di tanta ira che era rintronata per quelle strade, fino a far sparire edifici giganteschi e generazioni vissute, chi bene chi male. Grandi ricchezze allo sbando per tante ingiustizie compiute e tante false stabilità infrante da idee coraggiose, furiose, crudeli. La Sainte Chapelle mi apparve come uno scrigno tutto ingemmato all’interno, rifugio e reliquiario insieme in una dimensione che trascende tutto ciò che le sta intorno. Fuori sembra non esserci nulla se non un viatico che sa di ruvidezza d’altri tempi. Ma quando vi entri lo scrigno mostra tutte le sue gemme, in una atmosfera quasi metafisica, non religiosa: dentro, un tempo, c’era ricchezza e sfarzo, e un velo sottile, surrettizio, mi sembrava tenere il tutto in contatto con Dio. Non era cosí. Era una gemma dei Capetingi, impreziosita da una mistica che forse grondava sangue o lacrime di vergine.
Il tempo fuori era cambiato, una pioggia sottile, tutta parigina, inorgogliva le nostre palpebre, il metrò avrebbe poi tutto asciugato. Ma il metrò è freddo, con spifferi odiosi che non mi piacciono. Eppure lí sotto c’è tutto un mondo, di umanità che si rincorre o rincorre chissà che cosa. Uno si volta e vede una donna incespicare per la fretta di sottrarsi ad un calore sotterraneo che non sa certo di viscere affettuose. Un altro, spaurito da uno sguardo infido, si ferma per controllarsi e controllare. Ma c’è anche la ragazzina che, seppur guardinga, sembra non accorgersi di come il metrò sia un condensato non bene assortito di umanità. Chissà perché tutti lo usino, ma lo scansino con una rapidità che sa, alle volte, di fuga. Credo sia una fuga dagli altri, ma anche da se stessi. I rifugi stanno altrove.
Fuori pioveva, ma c’era anche il fuoco delle banlieues, un fuoco che forse era covato a lungo e brutalmente veritiero. Parigi non era solo Boul. Mich. come per noi. Era una città dove il mondo sfidava se stesso. Contraddizioni spasmodiche, conflitti di coscienze, no, erano conflitti quasi irreali per la loro comprensione, ma segnali chiarissimi, tragici di un andare avanti che la storia degli uomini non sapeva fare. Tutti i columnits d’Europa e del mondo avrebbero per giorni banchettato e strologato su quei fatti, quando invece sarebbe bastato pensare ad un altro autoinganno che l’Europa e l’Occidente tutto compivano verso se stessi. L’altro mondo li aveva presi in parola ed essi lo stavano tradendo.
Dal fuoco delle banlieues noi ci ritiravamo nel caldo delizioso della nostra stanza d’albergo, ancora nel Boul. Mich., con la Sorbonne a quattro passi e con la chiesa di Saint Denis in fondo dove respira ancora il soffio dell’intelligenza ‘sofisticata’ di Abelardo. Ma forse i giacobini del ‘93 avevano disperso tutto. Povera Eloisa, pensavo: ancora una volta le donne patiscono per l’infamia di uomini stolti, malvagi, insensati. Lei voleva solo donare amore, intelligenza e grazia. Gli uomini erano troppo volgari e stolti per capire l’essere ‘divino’ che c’era in Eloisa e in altre creature come lei. Forse lo sono ancor oggi.
Come sempre il ritrovarci a letto fu radioso: il sublime della trascendenza. Ma era l’ippocampo a parlare cosí o la cultura, come avrebbe suggerito l’antropologo? Saffo sarebbe stata d’accordo con noi. E Catullo ancor di piú.
Riccioli dorati
sulla tua dolce nuca,
un sudore anch’esso tutto d’oro
bagnava il tuo bel ventre.
Io rimiravo quell’incanto…
e ricordavo il sole della nostra estate!
Quando si fa l’amore, il tempo non c’è, esso si fa da parte, discreto e gentile: non c’è la storia. Questa altrimenti non ti perdonerebbe nulla: rincrescimenti, pentimenti, momenti già vissuti. Ma il sapere che anche in quei momenti potresti recuperare una parte di te, anche minima, o del tuo passato, che comunque c’è, anche se calpestato, è sconveniente, fa male e non si merita di star male in quei momenti. Il senso delle cose va recuperato sempre, direbbe qualcuno, ma, appunto, senza star male.
Non mi entusiasmò, per la terza, quarta volta che la vidi, la visione de La Gioconda. Leonardo forse era in trance quando la dipinse o forse voleva prendersi gioco di tutti quelli che l’avrebbero contemplata. Io penso che non ci credesse molto in quel ritratto: c’è qualcosa che mi sfugge e questo non è il sorriso, che ad alcuni è parso ambiguo, o il paesaggio che sa di gioco di maestro, ma è tutto l’insieme che mi sfugge. È il gioco dell’umano che sorride di quanto sta accadendo e tutto questo in un’atmosfera che sembra compassionevole ma anche irrispettosa.
Lei non era d’accordo con questa mia ‘lettura’ del quadro. Del resto il bavardage che da cinque secoli circola intorno a quel quadro ha condizionato ogni spettatore. I nostri pareri discordi furono suggellati comunque da un bacio caldissimo: era uno di quelli della notte prima.
E via… fuori con les crepes, a spasso, senza una meta fissata in anticipo, ma cercata cammin facendo. E fu il Monet dell’Orangerie che doveva farci vibrare all’unisono. La natura forse non inganna mai e quella di Monet ti emoziona suggerendoti paradisi. Ma noi eravamo innamorati e tutto ci accarezzava.
Leggere la natura, leggere la Gioconda, leggere un volto per definire anche il nostro mondo… Ma le nostre parole valgono per noi, per il nostro mondo chiuso o possono valere per dimensioni piú ampie? Esse possono dare un senso alla storia, fare storia e vita o sono misure definitorie di qualcosa che ci vede unici protagonisti e insieme i soli responsabili?
Ancora una volta ero un viandante, ma questa volta non tra spazi fisici o persone, ma viandante in zone d’impotenza e come tale non creavo niente, neanche la mia vita che scorreva fuori di me e non andava da nessuna parte. Nessun altrove mi aspettava, tutto in me stesso e in nessun luogo. Forse l’Io del viandante recupera se stesso solo nel sonno della notte buia, quando ogni verità si scontorna ammorbidita, quasi sfatta. Questo pensiero finiva cosí per acquietarmi. Quello che feci dopo fu un abbraccio caldissimo quasi di liberazione, un bacio suadente e felice nella sua morbidezza. Lei non si era accorta dei miei pensieri. Del resto le vetrine di Parigi sono meravigliose anche per distrarti: ti compensano allegramente anche delle ansie in cui tu credi di riconoscerti, mentre altri ne riderebbero.
Il viaggio di ritorno non fu granché. In Italia l’aria che si respirava era malsana. Un paese ingaglioffito da un mediocre impostore che si era impadronito d’ogni potere con il denaro e la menzogna piú impudente fatta strumento di governo. Un altro ‘cavaliere’ la stava disastrando dopo anni in cui c’erano stati dei tentativi per farle ritrovare slancio di vita pubblica e dignità. Ma non era la solita recrudescenza di qualunquismo un po’ cinico all’italiana quella a cui assistevo, ma il manifestarsi di una volontà fatta sistema di rapinare un paese intero da parte di un uomo e di un gruppo di potere che pur di salvare la propria vergognosa ricchezza distruggeva ogni ethos comunitario politico, economico, culturale mistificando il tutto con un richiamo falso ad un liberismo selvaggio che nessuno ormai, neanche nel mondo occidentale, osava ricordare. Erano l’inganno e la menzogna che trionfavano attraverso un sistema mediatico controllato, pagato con i soldi di tutti gli italiani. Il lato tragico era dato dal fatto che tanta parte del popolo piú povero, come si sarebbe detto un tempo, sembrava non accorgersene. L’uomo del destino, il taumaturgo ancora una volta firmava il disastro di una nazione. Si stava profilando cosí una primavera burrascosa. Si respirava un’atmosfera di attesa, ma era palpabile anche l’angoscia perché si avvertiva che stava per scadere piú che una fase storica.
Ero tornato da Parigi e mi ero calato ancora una volta nel reale di questa mia città, bella per le pietre, l’aria e l’orizzonte che non è aperto d’ogni parte, ma solo in una direzione, il sudovest di un tramonto che ti può incantare ma anche farti del male. Tutto sembrava avere una dimensione minima e non aggrovigliata. Era la borghesia con la redingote ben studiata che l’aveva fatta cosí nell’Ottocento? O era un prodotto quasi di natura che non poteva essere diverso? La gente che vi abitava era quieta, o cosi sembrava. In realtà era stanca. Vi era arrivata da tutte le parti nei secoli passati e si portava dietro l’usura di tante esperienze, il disincanto era la sua ancora di salvezza. Divisioni etniche, linguistiche, religiose? Tutte fandonie da molti cavalcate. Era solo stanchezza, quasi rassegnazione di trovarsi in un luogo ospitale, tutto sommato quieto, che si volgeva ad occidente.
Ma Boul. Mich. mi era rimasta nel cuore, come la Cité. Rivedevo stampata sul selciato la vecchia Bastille. L’avevano disegnata nel suo perimetro, ma non vi avevano impresso angosce e dolori, torture e delusioni, i tanti disinganni che giovani vite vi avevano provato solo per aver gridato che il mondo non è giusto.
La mia Sophie mi ordinava di capire, lei capiva piú di me, e le sue labbra mi confermavano tutto. Era sempre il vero che io inseguivo e lei lo possedeva come nessun altro. Che genio Spinoza! Noi eravamo, siamo una modalità del vero, e il vero è bellezza, armonia, contorni non sfigurati, sensazioni con risposte non bugiarde, ma appaganti che urlano e vogliono fiducia.
Ma tutto questo poteva anche finire, il mio tourbillon si sarebbe arreso impotente a trascendere verso un altrove che fosse di felicità.
Dopo aver scritto tutto questo mi venne quasi da ridere. La mia Sophie: – non riesci mai a restar serio fino in fondo. Non è una commedia quella che noi viviamo, che può chiudersi con una gran risata oppure con un finto lacrimare da nascondere agli altri. Ci siamo impegnati a vivere con verità, quella che tu hai chiamato anche ‘figlia infelice d’ogni tempo’, e dobbiamo andare fino in fondo – .
Io non osavo replicare, lei aveva ragione. Ma io non riuscivo a non ridere di me stesso, anche se non lo davo a vedere. Era la mia la parte piú insulsa, non la sua. La tabe corrodeva me, non lei. Lei era ‘divina’.
Ma raccontare una storia non è come ‘ficcare il naso negli affari degli altri?’ Ecco una domanda altrettanto cretina di quelle che mi frullavano in testa da tempo. Tutti hanno raccontato storie degli altri, ma forse pensando sempre a se stessi. È facile farlo, l’antropologia anche la piú spicciola ed empirica offre sempre modelli, tipi e situazioni. Il tutto lo si carica di drammaticità, ora tragica ora comica ora intimistico-lirica, e il gioco è fatto. A questo punto mi sono messo a riflettere su quanto stavo scrivendo: idiozie, nient’altro. Io che credevo che si potesse ricreare la vita, ora stavo ‘delirando’. Un voyeur dell’anima, della vita, della storia patisce con ciò che ricrea, filtra tutto attraverso un vaglio minuscolo quasi un pertugio di cannocchiale o di microscopio, a seconda che voglia vedere lontano o vicino, e la scoperta della sua ri-creazione può anche farlo impietrire. Ci si richiama alla vita sempre come a un dato incombente sopra di noi, ma essa non c’è senza di noi, e noi ce la giochiamo anche quando non ci piace o ne siamo ‘vittime’. Quando ne usciamo vincitori, ci sembra di poterla sfidare: l’abbiamo soggiogata, di essa possiamo fare quello che piú ci piace. L’orgoglio può diventare sberleffo. Quando questo non succede, imprechiamo contro qualcuno, ‘persona’ o ‘destino’. In modo un po’ paranoico la colpa del ‘negativo’ è sempre di qualcun altro, ostacoli o difficoltà non li abbiamo voluti noi, la nostra è sempre ‘incolpevolezza’. E con ciò la vita torna ad incombere su di noi, dal di fuori!
– Sono belle queste tue pagine – mi ha detto uno a cui avevo dato da leggerne qualcuna. – Ma quale storia vuoi raccontare? In fin dei conti chi scrive, e che non sia saggista, racconta storie. – Costui aveva ragione. Raccontare di sé o degli altri è sempre una storia che vien fuori. Ma cosa la può rendere interessante o coinvolgente come amano dire oggi? Erano coinvolgenti Eugenie Grandet, Anna Karenina, l’ormai vecchio don Giovanni Tenorio o il Lucio di Apuleio o le donne di Dante e di Shakespeare? Era un’umanità che offriva se stessa attraverso l’operosità creativa di poeti innamorati di quanto potevano ‘fermare’ nei loro lavori: invenzione, resoconto, fotografia, revival emozionato di tormenti, gioie o delusioni e sconfitte della vita? Raccontare storie, bella forza! Ma perché lo si fa? Per riconoscersi o per far sí che gli altri vi si riconoscano? Gli uomini amano raccontarsi e raccontare, ecco un grande vizio! Il vecchio cristiano avrebbe detto che è superbia questo voler ricreare il vissuto che, loro dicevano, appartiene solo a Dio, come il tempo. Noi pensiamo che appartiene solo a noi e che è l’unica cosa che ci meritiamo: un briciolo delle pene del mondo deve sopravviverci. Quello che viene raccontato sopravvive e il tempo viene tenuto in iscacco.
Intanto il mondo andava avanti: traffici ed intrighi, problemi piccoli e grandi si affacciavano ogni giorno: erano i giornali a viverci sopra! Per l’uomo generico il solito tran tran. Dal mio osservatorio, piuttosto fuori mano e forse un po’ micro, cercavo di capirne dinamica e senso. Una volta tanto non apparivano granché enigmatici. Quand’anche gli orizzonti economico-politici fossero in movimento, i soli del resto a poterlo fare, le prospettive non cambiavano: uomini nuovi, con intelligenze rinnovate e coscienze accese, non apparivano all’orizzonte. Anche il mondo della scienza che nei secoli passati era stato sempre rivoluzionario, seppur sotterraneo e tenuto a bada dal potere, sembrava addomesticato. Il suo nemico non erano i potenti di turno, politici o religiosi, ma la mancanza di mezzi finanziari. La ‘libertà’ della ricerca diventava un sogno? La scienza pura soffriva di anossia.
Mezzo mondo moriva di fame e di malattie, ma quel potere che controllava il mondo stesso sembrava voler dire che cosí doveva essere. E le storie che si sarebbero potute scrivere su questo mondo mai tanto cosí complesso come l’attuale, avrebbero potuto essere infinite. Si sarebbe potuto partire da una città metropoli alienante o accogliente, dove gli esseri umani si sono sempre raccolti per non sentirsi soli, o per dare il meglio di sé. Cosí almeno ci era stato detto tante volte. Ma in mezzo a queste città ci sono individui soli con se stessi, alcuni innocui e anonimi, altri tormentati, inquieti se non velenosi. In essi si agita un mondo che è un groviglio di cose non dette, quasi un sedime fatto di striature oblique e sempre in agguato.
Sarebbe stato facile un tempo collocare in questo spazio storie di passioni inappagate, amori violenti, disperati rimorsi. Oggi è piú difficile. L’individuo, le istituzioni, i rapporti interpersonali, tutto sembra essere piú complicato, il tessuto dell’oggi mi sembra quasi ‘sbrindellato’, la sua trama mostra sfilacciamenti irrecuperabili.
Ma si può vivere solo d’impressioni? Sono impressioni quelle che riceviamo quando incontriamo una persona o assistiamo a qualche evento bello o brutto che sia. Impressioni che possono tramutarsi in giudizi, spesso di una superficialità disarmante, se non addirittura fuorvianti e falsi. Noi siamo portati a trasformare l’impressione in giudizio, confortati da un luogo comune, antico come il mondo: le prime impressioni sono quelle piú veritiere. Invece non è sempre cosí. La mancanza del velo della riflessione fa commettere errori brutali. Eppure all’impressione, e che questa sia la prima, noi restiamo affezionati. Direi che essa costituisce per noi un viatico. Quando ci accorgiamo che esso è sbagliato, ci è faticoso se non impossibile tornare indietro. Sui propri passi non piace tornare a nessuno, troppe cose sarebbero da rivedere, certezze ormai acquisite da rimettere in discussione, accuse di incoerenza da smontare. Non ne vale la pena, tanto l’onestà intellettuale è cosí rara, ed un lavoro di autocritica non lo capirebbe forse nessuno.
Io avevo avuto tante volte l’impressione di essere in un posto sbagliato, di vivere in un tempo sbagliato, non mi sentivo in coerenza con luogo e tempo insomma, e questa sfasatura mi pesava. I momenti di godimento nella mia vita sono stati tanti ma io li ho vissuti sempre come in attesa di qualcos’altro e di un altro luogo. Una mia cara amica ebbe a dirmi in un’occasione ormai lontana: – togli quel punto interrogativo che hai nel cuore. – Io non capii subito il significato di quelle parole. Solo a distanza di anni riuscii a rendermi conto che lei aveva ragione: era il punto interrogativo della mia vita, dove, quando, come.
In seguito tutto questo si tramutò in una convinzione che finí per radicarsi in me sempre di piú e a rendermi dubbioso su tante cose.
D’altra parte c’era un’altra faccia di me, quella che mi faceva apparire come un vincente. – Tu cadrai sempre in piedi – lei m’aveva detto tante volte e non intuiva che io ero il primo e forse il solo a non crederci. Ma ero un bravo dissimulatore, si sarebbe detto un tempo, un individuo deciso nella sua equilibrata apparenza. Ma anche questa era un falso. Il mio era un rabbioso equilibrio, come bene aveva visto un’altra persona che mi aveva osservato per pochissimo tempo e durante una conversazione-discussione piuttosto importante.
L’Io di questo narrare parla di sé ma forse racconta la storia di un altro. La scrittura lo permette, anzi lo vuole, come nessun’altra forma d’espressione. Il singolare è anche plurale, le sfaccettature possono essere diverse, alcune contrastanti, non esiste uno che sia solo, ma insieme che non sia tanti altri.
Io mi sentivo bene con questi pensieri, fuori poteva succedere di tutto, un viso sorridente, una faccia intristita, un bel seno gonfio di donna potevano anche farmi fermare per un po’, ma i miei pensieri restavano sempre in attesa che li riprendessi o che io mi si sintonizzassi di nuovo con loro. E quando questo avveniva li ritrovavo ora compiuti ora incompleti. Ciò che mancava, spesso mi veniva suggerito dalle nuove visioni e da nuove sensazioni.
– Nuove visioni, nuove sensazioni! Che senso possono avere per una storia di noi che tu credi di poter raccontare, ma che è fatta di squarci in cui tu pensi di poter inserire ogni cosa? Ma è del nostro inimitabile amore che devi parlare, e non tanto per coloro che forse leggeranno queste righe, ma per me che tu hai reso leggera alle volte, ma anche perplessa come colei che talvolta crede o sente di aggirarsi nel vuoto e di un vuoto che non mostra mai i suoi contorni. – Queste sue parole mi turbarono. Si può parlare oggi ancora di turbamenti? Forse non piú. Chi riesce a sentirsi turbato dal vedere o assistere agli assiomi inverecondi che la vita quotidiana ci offre? E tanto piú rimasi turbato perché mi ricordai che nel mentre facevamo l’amore m’ero perso a pensare come nasce e da dove viene ‘l’ispirazione’ poetica! Quando il poeta si mette al tavolo (può anche non averne uno) e pensa qualcosa a cui dare un segno, c’è in lui un’eccitazione particolare che proviene da un che di indistinto, né tempo né luogo lo producono, ma qualcosa che monta su e invade dal buio il suo ‘cervello’. Ma no! Il suo cervello sembra come in attesa che succeda qualcosa, e questo qualcosa viene da lontano, un lontano oscuro, buio ma non tetro, può essere anche gioioso, ma insondato fino allora e insondabile. I contorni sono confusi, non slabbrati o sfrangiati, ma solo non chiari. Diventano tali quando l’estro inventivo rielabora il tutto. Ed è il linguaggio, la forma, la eco di armonie riposte che giocano un ruolo essenziale. Nasce la poesia, e, forse, cosí ogni opera d’arte. E questa non è comunicazione, ma espressione di qualcosa di singolare. Il lettore in quel momento non c’è, verrà dopo. E allora nasceranno i dubbi, i pentimenti e talvolta la voglia di bruciare tutto. Non è cosí nel momento dell’eccitazione prima, quando tutto pare dover diventare bello, entusiasmante anche per gli altri.
– Hai finito? I tuoi pensieri io li sento, quasi con l’epidermide e so che su di essa tu depositeresti tutto, anche il tuo io, sventrato e libero finalmente di quel maledetto punto interrogativo che ti porti dentro. – Ancora una volta lei aveva ragione.
Fu una serata incantevole quella che seguí. Il tavolo era bello, il ristorante piccolo ma coinvolgente, per un’atmosfera che non ti estraniava come quella di tanti altri che avevo conosciuto e scansato per sempre. Io giocavo col tintinnio dei bicchieri di cristallo. Mi son sempre piaciuti, e piú erano elaborati piú ne accarezzavo gli orli, volevo sentirli suonare. Lei era bellissima come sempre, e le lenti a contatto che portava mandavano bagliori fluorescenti che mi facevano dimenticare tutto. Erano una fonte di mistero. Non era lei il mistero, non l’avrei sopportato, noi eravamo un’endiadi. Ma il mistero nasceva da quella fluorescenza cosí luminosa e mai uguale con se stessa. Stavo quasi per inseguire altri pensieri, ancora visioni e sensazioni, se lei non mi avesse distolto e riacchiappato per rimettermi al mio posto. In fin dei conti era il posto piú bello che io potessi desiderare. La sua graziosità non scompariva mai, restava intatta anche quando i nostri giudizi su alcune persone o cose si scontravano come duellanti in una ‘gentil tenzone’. Che bella espressione, pensai, ma un po’ demodé, ma quanto felice quando il caldo delle lenzuola o il sorriso della seta ci accoglieva nel morbido pieno della notte.
– Sai cosa mi piacerebbe fare? Un bel viaggio, magari in luoghi dove la vita si è estinta tanti anni fa. Anche secoli o millenni. Petra, Palmira. La Giordania della bella regina Rana, la Siria, sempre al centro di tante storie che hanno caratterizzato il mondo. – Ma io non ho soldi abbastanza per questi bellissimi viaggi – risposi. – E scrivi allora qualcosa per i giornali, loro pagano bene. – Ma io non so scrivere per i giornali. Io scrivo poesia. – E qui il discorso si fece cauto e critico insieme. I giornali pagano bene e tra coloro che vi scrivono ci sono firme validissime, voci intelligenti e in possesso di un ‘sedime’ culturale notevolissimo. Ma ci sono anche coloro che impudentemente millantano originalità, che è solo mediocrità piatta e disonesta. I giornali hanno un potere immenso, se vi compari sei qualcuno, altrimenti rassegnati all’anonimato dell’uomo ‘generico’, dell’uomo-massa che non ‘pensa’, non conta se non per il fatto che assiste da spettatore e acquista ogni spazzatura. ‘Cittadino protagonista’: ecco una bella fandonia della contemporaneità. L’uomo-massa è tornato plebe, forse tutelata in alcune cose, ma condizionata in tutto.
– E la libertà di pensare, di agire, di andare, dove la metti? – Si apriva un nuovo capitolo, ma anche abbastanza vecchio. Ci si può considerare liberi quando il tuo raggio d’azione è cosí limitato, che talvolta la sola tua risorsa è l’imprecazione o la sconsolata rassegnazione? Su questo anche lei era d’accordo.
– Ma se non sei malato, allora sei un uomo libero! – esclamò tutta trionfante. E qui aveva un’altra volta ragione.
Petra, Palmira ci avrebbero aspettato ancora. Tanto, aspettavano chiunque da millenni. Stavano lí sotto il sole o illuminate dalla luna, con i loro bellissimi colonnati e le oasi piene di vita, mentre gli uomini passavano per tornare là donde erano venuti. Una foto e via. Lo avrebbero raccontato agli amici!
Benché le giornate diventassero sempre piú oscure, il nostro amore restava radioso. Io contemplavo il suo meraviglioso viso, c’era della sofferenza, ma c’era in esso ancora tanta vita.
– Sono belli i racconti della tua infanzia, della tua adolescenza, – mi diceva. – Ma perché le persone che devono amarsi tanto si incontrano cosí tardi? – La sua era una domanda ‘cruenta’, ma tanto lucida nella sua secchezza. Non era certo il destino di tutti, era il destino di quelli che gli dei vogliono far soffrire, avrebbe detto l’uomo di duemila anni prima. L’amore vero non è di tutti, è una cosa difficile, può riempire una vita, come può distruggerla. Lucidità vorrebbe che lo si collocasse sempre nel posto debito, tra gli eventi della vita, uno tra gli altri, non creargli nessun altarino, men che meno crederlo sfolgorante. Ma non è cosí. Esso forse è la sola cosa che vale, alla resa finale, l’unica cosa per cui vale la pena di vivere o di essere vissuti. Certamente aprire orizzonti per sé e per gli altri, creare idee nuove e farne partecipi il maggior numero di persone può essere esaltante, ma l’amore vero è un’altra cosa. Significa la trascendenza. È un altrove che tu porti in te stesso e che ti fa degno.
Ancora una volta sensazioni, idee, neuromagnetismi, avrebbe detto lo scienziato, che si affastellavano ora per annebbiarmi ora per farmi veder meglio ogni cosa. – Ma non è un io sbrindellato quello che ti fa vivere cosí – mi dicevo – è sensibilità aperta su ogni riflesso che si fa specchio e che ti colpisce, impegnandoti a interpretarlo, a collocarlo, a dargli un senso, una dignità – ma quello che io non riuscivo mai ad oscurare era il ghigno che saliva in me per il non credere in nulla. Eppure il nichilismo l’avevo sempre guardato con sospetto, pur convinto che esso, maledettamente, rinviasse a qualcosa che non poteva essere ignorato. La vita, mi veniva da dire, è dubbio e interrogativi, se hai fatto bene o no. Ancora una volta una scelta etica o una scelta estetica?
Mentre io facevo della filosofia spicciola, lei tremava. Non capivo se di freddo o di paura. In altri momenti ci saremmo avvinti l’un l’altro e avremmo tacitato tutto con un calore che avrebbe escluso tutti e tutto, totalmente. Ora invece non potevamo contare solo su noi stessi. C’era qualcosa di estraneo, di oscuro, che sembrava aver la meglio anche sulla vita.
A questo punto la domanda interrotta diventava piú d’una. E come tale si sbriciolava quasi in tante ‘foglie’ secche che il vento avrebbe disperso: domande e insieme risposte misteriose come quelle della Sibilla. La vita è interpretazione e come tale è interrogativo e dubbio, domandare e credere per poi dubitare di non aver mai visto giusto. Non mi restava altro che far rifluire il tutto in poesia, e questa, piena di un altro meraviglioso fantasma femminile, bellissimo ancorché severo nella sua enigmatica fierezza, che volle, ad un certo punto, tacitare un calore inebriante e senza eguali…
Ride, talvolta, l’anima mia
ma è solo l’evaporazione di un sogno.
Eppure la gioia di una notte
può riempirti la vita:
parfois le temps s’arrete
et la vie se colore d’or.
Fluctue la mer
au dessous de moi
et embrasse toi…
Ma c’era un’onda
che lo scoglio rifiutava
e fu fatale l’abbraccio per tutti e due.
Scontornati anelli
di una fiducia non piú attuale.
Ma se per un attimo
sospendi il tuo parlare
e avvolto nelle spire
del tuo pensiero
ascolti il fruscio del tempo
e l’incommensurabilità del cielo
tu diventi piú grande.
Eppure… come blasfemia dell’esistente
resti quale foglia secca
a contemplare il tutto
che di abisso ha nome.
Sorseggiò, la civetta, dalla sua tana
uno spicchio di luna
e si nascose.
Fu requie di sonno,
fu noia assopita
per una luce fredda
che desolava il tutto.
Ma l’albero, ansioso
sotto i colpi del vento,
aspettava che, su, dalle radici
si arrampicasse la linfa della vita,
sicuro di non essere tradito.
Non son le radici a tradire,
ma colui che venuto
da un lontano altrove
ha spento ogni sorriso,
non ha portato il nuovo
per ristorarti,
ma ha voluto incriminarti
per le tue radici,
che non erano le sue.
Sorseggiò la civetta
un’ultima volta
il freddo raggio che la rischiarava
e volò via.
Una maschera, un volto
e nulla dentro
che non fosse sterilità
di un uomo inebetito.
Era forse il segno
del potere di altri
o della miseria e della fame del mondo?
Ingordigia di tanti,
debolezza di molti,
sospetti e paure,
danni e violenze
tutto questo era chiuso
in quella maschera
e in quel volto di carta incerottato.
Non era opaco
lo sguardo dell’uomo
verso il primo orizzonte,
ma di aurorale splendore
e di ineffabile meraviglia.
Non disse nulla
ma tremò e si raccolse.
Era lo spazio
nell’antro oscuro del tempo,
non vuoto, ma pieno di corpi
e di furiose energie.
Nuotare nell’universo
quando il morbido ti affila
e l’impalpabile ti opprime:
può essere follia
ma anche un sogno dell’alba
che fa rinverdire ogni entusiasmo
e ti ricongiunge con l’esser tuo.
Non tocchi foglia,
non assapori il miele
ma ti confondi con te stesso
e rischi di essere felice
per le palpebre socchiuse
della tua bella donna
che nascondono due brillanti,
ebbri di gioia,
quando si aprono al sole.
Volevo dirti, allora, cose serene,
ma la tua pelle mi suggeriva
di essere ingordo:
fremiti, vibrazioni, sussulti
per un urlo che sdruciva se stesso.
Erano ricami i tuoi baci
sugli orli del labbro
che li aspettava
e li voleva intensamente trattenere.
Ricamavano gioiosamente
anche il tormento
e risanavano ogni lacerazione.
Ma erano cose serene
quelle che ti avrei sussurrato
nella quiete di un dopo
che avrei voluto senza tempo.
E i tuoi piccoli brillanti
vegliavano su di me:
non domande, ma attese
di una risposta piena
e incontaminata…
Può la memoria
essere un gioiello d’ambra
e incastonare ogni cosa
senza brividi o riflessi?
Emozioni sconvolgenti
fissate per sempre
ma sempre seducenti,
in cui ti rispecchi
quasi impietrito quand’anche vivo.
Essa può essere la verità
che tu non hai visto allora,
ma che ora ti rimprovera
per non averla coltivata.
Era un’esca sublime
che ti avrebbe aperto tante porte
mentre tu la ignoravi
per inseguire un te stesso
che si ingannava con le sue mani.
Crescevano le lune di notte in notte,
mentre la rugiada faceva piegare
gli steli d’erba deboli e sottili.
Brillavano gli occhi di lei
alla luce che pur si spandeva
da quel fervido cielo
e io mi riguardavo intorno
per trovar qualche riflesso
che mi impaurisse o mi ridestasse.
Tutto invece sembrava dileguarsi.
Nudo il gioiello d’ambra
aspettava che io lo raccogliessi
e fu solo memoria.
Sono voci nascenti dal nulla
quelle che il poeta raccoglie
e traduce in canti
ora tristi e malinconici,
ora festosi e di gioia.
Ma sono anche presagi
di fuga avventurosa
all’ombra di un cielo
che inghiotte ogni cosa
e consuma ogni delirio.
Eppure la melodia del canto
sfida ogni silenzio,
avvilisce anche il vuoto,
è violenza di creazione,
è superbia di eternità,
come il roteare di un valzer
disegnato da Pleiadi furiose
in un vuoto che sa del respiro
di un’eco di esplosione
senza fine.
Dicembre 2011
Si sono rinsecchiti
i fiori della mia speranza
e Debussy li accompagna triste.
Eppure il flauto recupera tutta l’aria
che odora ancora di gelsomino.
Essa è pregna di ricordi
ma anche gonfia di lacrime.
Sono foglie secche
di un piacere ormai sfinito
che si disperdono
nell’acqua di un torrente
che non perdona.
Come l’acqua della vita
scorre impietosa,
ma flauti ed archi
la guidano in un fluire
che pur sa di dolcezza.
Erano tenere le labbra
che sapevano dell’amore
e non increspate dal dubbio
si offrivano vogliose
perché io le accarezzassi
e non mi volgessi piú indietro.
Flauti ed archi
parevano ovattare il tutto
e respingere ogni incredulità.
L’amore, pur ricreduto e spento,
voleva tornare ad aver voce,
ma non riusciva a farsi sentire:
non c’era suono né profumo
che gli ridesse vita.
Era sordo
ogni momento dell’attesa.
29 dicembre 2011, notte
Nuvole basse come appiattite
sull’onda di un mare oscuro,
pensieri profondi
sentimenti lacerati
da un tormento crudele
che spegne ogni respiro
e soffoca ogni ansiosità.
Non valgono piú
né sospiri né preghiere
quando l’oscurità si affaccia
all’orizzonte della tua vita,
e non ti incantano piú
né lo stormire delle fronde
né la dolce risacca di un mare
che dovrebbe accarezzarti
in ogni tua piega.
Tu ti domandi il perché
di questo fosco appiattirsi:
sono sguardi e sensazioni
che si annullano, dello spirito vitale.
Ti rimorde il tutto che non hai fatto,
ti rincresce anche il poter mirare
lo sguardo altrui,
mentre non provi pietà per nessuno.
È il segno orrendo della sconfitta
o di un tradimento inaspettato.
Ogni corolla del fiore già vissuto
ti pare odiosa e ostile.
Ne vorresti sputar l’anima
anche dopo averne inseminato
tutta l’aria intorno.
Un rabbioso tormento
confonde ormai ogni mio pensiero,
vorrei ricami anche per le ipocrisie
e che il velo della finzione
non si corrodesse mai.
Tutto invece si appiattisce
su una linea oscura,
indefinita nel suo proiettarsi
verso un qualcosa
che non ha senso alcuno.
6 gennaio 2012
Recuperato il respiro,
risentito un soffio
che mi rimandava a piaceri
ormai creduti esauriti
ti ho rivista e ti ho rivissuta.
Recupero o riconquista?
Forse illusione
di chi non si arrende,
o folle speranza
di un impenitente che si affanna
a contemplar stelle cadenti,
manufatti decrepiti,
pietre scrostate,
sagome di figure non piú vive,
revival di una notte senza tempo.
Ci si illude alla luce del giorno,
si vuol credere ad ogni mistificazione,
si finisce per favoleggiare
anche sulle tragedie.
Non c’era luogo allora
che non mi suggerisse qualcosa:
figure ora eleganti,
ora volgarmente rozze
di persone che percorrevano il mondo,
le avrei volentieri bistrattate
senza rispetto né pietà.
Ma il ritorno di un respiro
che riecheggiava la vita
mi faceva ricredere:
sfiduciato di me stesso
ma recuperata la sua fiducia
con un bacio d’incanto
volevo suggellare ogni confronto.
5 febbraio 2012
Furioso come colui che visse
una stagione bella e di speranza,
senza ore inopportune
che non fossero orlate di ricami.
Eppure risvolti iridescenti,
pieghe sfrangiate,
contorsioni dolorose,
aneliti di sfiducia
tenevano socchiusa ogni mia porta.
Era la materia oscura
del mio vivere quotidiano
e l’obiettività veniva respinta
come presenza invasiva
che vigliaccamente poi
mi avrebbe sbeffeggiato.
Fu contrasto ed agonia
per tutto il bello che coltivavo
quando rincorrevo parole calde
che grondavano desiderio
come ogni epidermide
che nuda al sole
si riscopre inerme
e vogliosa d’ogni sensazione.