PARTE PRIMA
I
La video conferenza era prevista di primo mattino. Bisognava scrollare e tenere sulle spine quella massa di colletti bianchi ancora storditi dal sonno, programmati per dare e ricevere ordini. Il collegamento con la centrale nazionale, dove il Grande Cesare avrebbe diramato le sue direttive, era stato attivato. Un buon inizio, visto che le videoconferenze organizzate da altre divisioni iniziavano sempre in ritardo. Problemi di trasmissione, sedi decentrate non in linea, addetti alle comunicazioni in difficoltà, talvolta incapaci di connettersi. Ma quando parlava il Grande Cesare, tutto doveva funzionare a puntino, guai a sbagliare. C’era il rischio di farsi degradare e, di conseguenza, di perdere benefici e soldi.
Il mega boss si faceva vivo quando lo riteneva opportuno. Tutti i sottoposti, capi divisione o mega dirigenti che fossero, sapevano che chiamate telefoniche e messaggini potevano arrivare anche nel cuore della notte. Era, in un certo senso, una triste normalità. L’azienda doveva marciare a ritmi sostenuti e produrre utili. Per mezzo di una serie di nuovi sistemi di monitoraggio accuratamente predisposti, il lavoro degli impiegati veniva analizzato con precisione. Non c’era alcun ritegno né sensibilità per quella privacy cui tutti parevano rispettosi e che invece veniva violata sistematicamente.“Come mai quello impiega tanto tempo a servire il cliente? Perché quell’altra non riesce a piazzare più prodotti?” E per capire meglio come mettere alla frusta quella enorme massa di impiegati, alle loro spalle vegliavano alcuni tecnici che, con appositi programmi informatici, rilevavano i tempi, per così dire, di produzione e, di conseguenza, testavano la loro efficienza. Il ruolo dei sindacati? Il Grande Cesare aveva messo tutti d’accordo. E i rappresentanti dei lavoratori stavano ben attenti a non provocarlo. L’allineamento era, insomma, planetario, e il responsabile dirigeva orchestra e corpo di ballo senza timore di interferenze.
Il Grande Cesare intervenne, come di consueto, con le sue precise direttive volte a riorganizzare la truppa. Si rivolgeva ora, in particolare, a quei mastini che, alle sue dirette dipendenze, dovevano applicare le sue teorie per innalzare la produttività. Sullo schermo l’immagine, come sempre, era poco nitida; a causa dell’ennesima, pessima qualità nel collegamento, era impossibile cogliere a pieno i tratti del volto, un fantasma etereo pronto a ghermire i disobbedienti. Al solito tentava di vestire elegante, completo grigio con i pantaloni attillati, quelli che tanti colletti bianchi calzavano con scarsa disinvoltura, a accentuare la diffusa pinguedine raggiunta grazie agli untuosi tramezzini e ai pasti ipercalorici consumati solitamente in piedi come i cavalli, per non perdere tempo, così da poter imperversare sulle maestranze. E produrre, tanti, tanti ricavi.
“Sapete, cari – iniziò quasi sottotono – gli affari non stanno andando troppo bene. Qui bisogna rimboccarsi le maniche, cambiare rotta, macinare chilometri, insomma, lavorare meglio”. E dopo ulteriori considerazioni, iniziò a alzare i toni in modo calcolato, stando attento a non incrementare i volumi, utilizzando piuttosto frasi scurrili e parolacce. Nessuno dall’altra parte degli schermi osava fiatare. Nella sede di Tito l’aria si fece di ghiaccio, anche se lui pativa meno di altri le pressioni imposte dai capi. O forse, solamente, riusciva a nascondere meglio la tensione suscitata dai superiori. “Cari un cavolo”, rimuginò, bestemmiando contro quella parola che nella sede centrale si usava con molta disinvoltura rivolgendosi agli interlocutori. Il Grande Cesare intanto passò direttamente alle indicazioni di metodo. “Qui ci si deve capire: per avere dei risultati è necessario viaggiare a ritmi sostenuti. E i ritmi dovete essere voi a imporli. Da oggi – continuava – bisogna iniziare a ragionare in modo diverso. Non deve passare ora di un qualsiasi giorno in cui voi non vi impegniate a trasmettere ai vostri colleghi un senso assoluto di insoddisfazione, meglio, di insicurezza, su quanto realizzato. Ognuno, e io ne sarò garante, dovrà riflettere, notti e festività comprese, sugli obiettivi non raggiunti, le occasioni mancate, i quattrini non incassati. Nessuna comprensione per l’insuccesso: dovrete imporre a chi vi circonda la vostra ansia di migliorare, la necessità di raggiungere a tutti i costi dei risultati in linea con le nostre aspettative. Non dovete dormire tranquilli, non dovete e non potete: pensatevi perennemente in discussione, ovvero …. a rischio! E queste sensazioni di precarietà, di dovere non assolto, di incompiutezza, dovete trasmetterle a tutti i livelli aziendali! A risentirci, cari.”
Concluso l’intervento, sullo schermo scorrevano ancora i titoli di coda, e giungeva pure il pigolare del codazzo del Grande Cesare che balbettava incomprensibili saluti e considerazioni. Tito non disse nulla. Tra sé e sé rimasticò le parole del mega boss, la solita broda di quella mensa che gli assicurava lo stipendio ma che, ne era certo, stava portando un altro pezzo di sistema verso un sicuro fallimento. Come tutte le grandi aziende ormai il bilancio aziendale passava per la riduzione del personale, lo svolgimento completo delle ferie, la compressione dei costi, la chiusura e l’alienazione di uffici e proprietà. Di rimpiazzare chi se ne andava in pensione nemmeno a parlarne, e di progetti a medio e a lungo termine da concepire e realizzare per risollevare le sorti aziendali, neanche l’ombra. Era ovvio: i bilanci positivi dovevano essere realizzati trimestre dopo trimestre. Se poi, per raggiungerli, si sacrificava per strada dei lavoratori, questo faceva parte della logica delle cose, in linea con l’inflessibile visione di un establishment pronto a silurare e affondare chiunque intralciasse il business. E poi i dipendenti avevano poco da lamentarsi: ringraziassero chi gli dava lavoro e non li mandasse a casa a calci.
Tra le direttive aziendali di quel periodo, ne prevaleva una: era necessario, a seconda delle necessità, convincere il cliente a dismettere i titoli che garantivano una buona rendita obbligandolo a reinvestire in nuovi prodotti. Roba poco sicura, ma che trainava profitto, s’intende, per chi la piazzava, titoli inconsistenti nei quali avevano investito intere famiglie con le loro liquidazioni e pensioni. Tito e tanti altri colleghi, in tutto il paese, passavano le giornate a contattare i vecchi utenti, che ora per un sottile gioco di definizione erano diventati “clienti”, quelli che comunque riponevano fiducia in loro e che a suo tempo avevano accettato i consigli investendo secondo le loro indicazioni. Ora però il compito era davvero improbo: ricontattarli, spiegare che l’investimento non era più conveniente e, soprattutto, convincerli a sottoscriverne dei nuovi che, a loro dire, avrebbero consentito, a scadenza, di staccare delle cedole più vantaggiose. Era una balla colossale? Lo sospettavano, anche se non potevano averne certezza, visto che la loro preparazione nel conoscere le caratteristiche dei prodotti finanziari che vendevano era davvero approssimativa. Ma di una cosa erano certi: quello che stavano smerciando non era certo un buon affare per tutti quei risparmiatori cui si erano rivolti, lo era piuttosto per coloro che dovevano, con quelle vendite, raggiungere quei budget che avrebbero portato loro dei premi.
II
Tito masticava amaro mentre stava entrando, nel tardo pomeriggio, in quel condominio di edilizia popolare della distante periferia; l’appuntamento prevedeva la presentazione di nuove proposte finanziare a una coppia di anziani che lo conoscevano da tempo. “Ma Tito, perché devo cambiare? Qui scrive che tra qualche anno potrò incassare il doppio di quanto investito; come la mettiamo?” E Tito, sempre più a disagio, a ripetere che no, il nuovo investimento era più conveniente, che avrebbero guadagnato di più, che non c’erano rischi.
Mentre gli versava il caffè, la padrona di casa scuoteva la testa. Tito riprese fiato osservando il piccolo soggiorno suburbano: tavolo e sedie spartane con i sedili di sfilacciata paglia di Vienna, qualche soprammobile, le foto dei nipotini sulla dispensa dal legno scolorito, non mancava nemmeno il souvenir palla di vetro con un paesaggio invernale. Scuotendo la boccina, la polvere invadeva il liquido interno imbiancando la slitta e le renne; nel riflesso, l’immagine dei due anziani intenti a consultarsi. “Vorrei parlarne con mio figlio – riprese la padrona di casa – ma è anche vero che ci fidiamo di lei. Se ritiene che sia meglio investire diversamente, facciamolo. Se non si crede in qualcuno, se non gli si dà credito, dove andremo a finire?”
Tito deglutì a fatica quella saliva che gli stava andando di traverso mentre i vecchietti gli sorridevano e lo osservavano con aria interrogativa. In fretta e furia fece e disfece, i padroni di casa firmarono i fogli d’assenso e, concluse le operazioni, si congedò alla chetichella con il solito, squallido, senso di colpa. “Convincere” qualcuno, vecchio o giovane che fosse, era un esercizio che lo faceva sentire sul baratro di quell’inferno che, se esisteva, lo avrebbe accolto velocemente e a braccia aperte. E, comunque, anche se la trattativa veniva svolta senza forzare troppo, Tito provava fastidio a dover imbonire quel popolino che, in linea di massima, non intendeva lucrare ma solamente conservare intatti i risparmi di una vita.
Aprendo la portiera della sua lercia utilitaria zeppa di briciole, cartacce e bottigliette, osservò quel triste paesaggio della sua città, la vecchia illuminazione pubblica che continuava a gettare una luce giallastra sulle panchine semidistrutte che ornavano un giardino condominiale ingoiato dall’erba incolta. Al piano terra di alcuni vecchi edifici, le saracinesche abbassate e arrugginite di quei fori che un tempo ospitavano dei negozietti: il frutta e verdura, la latteria, la panetteria. Da tempo ormai erano chiusi, distrutti dalla concorrenza dei tanti centri commerciali fioriti lungo le direttrici di periferia. Era successo così in fretta che la maggior parte della gente non se n’era accorta, pensava Tito. Da una parte i suoi concittadini riempivano i carrelli di derrate alimentari che avrebbero potuto sfamare una tribù, dall’altra si lamentavano del mortorio che vivevano nei propri quartieri. Non si rendevano conto che quel deserto si doveva in parte alla distruzione di quel reticolo di piccolo commercio che da tempo immemorabile caratterizzava l’Italia delle contrade, dei paesi e delle frazioni. Scomparse le botteghe eccola, evidente, la mancanza di punti di riferimento e di aggregazione capaci di dare motivi di incontro a tutto il vicinato. Non si era persa la Seconda Guerra Mondiale senza subire le direttive altrui: ora la grande distribuzione, nata oltre oceano, aveva invaso Alpi e Appennini, e tutti potevano bearsi dell’infinità di prodotti che gonfiavano le megalopoli del consumo. “E già, conveniva Tito, c’è poco da lamentarsi. Anch’io faccio parte di questo nuovo modo di dare servizi o, meglio, di imporli senza un minimo di gusto e di pudore”. Era uno degli aspetti della nuova vita, quella che la maggior parte della gente viveva tra i centri commerciali e le mura domestiche, incollati a quegli inesorabili schermi che rapivano occhi e anima trascinandoli nell’effimero mondo virtuale. Quella vita tranquilla che la gente conduceva tra un’osteria e il negozietto era un ricordo anche nei rioni più popolari. Ora il dialogo si svolgeva attraverso la grande ameba di internet che tutto vede e tutto inghiotte, lasciando nelle mani delle persone il vuoto di una videata.
Più tardi, a cena, tra le mura domestiche, ripensava alle sue visite a domicilio. Le fibre filacciose che galleggiavano nel passato di carciofi cucinato da sua moglie gli impedivano di mangiare velocemente la minestra. Un autentico fastidio. Continuava a rimuginare sulle visite a domicilio effettuate di pomeriggio. Osservava, dall’altra parte del desco, i due ragazzini che litigavano e sua moglie con i bigodini; gli tornavano alla mente le scadenze dei pagamenti che doveva onorare, l’ennesima bolletta, la terza rata delle spese condominiali. E soprattutto le urla e le offese che i suoi superiori non gli avrebbero risparmiato se non avesse provveduto a procedere con quel lavoro. Responsabilità a caduta, così funzionava, che dall’alto precipitavano sulla testa di tanti tapini, ovvero consulenti finanziari. Lui era uno di questi. Era necessario trovare ogni giorno nuove persone a cui proporre prestiti e altri investimenti e prodotti. L’agenda doveva essere sempre aggiornata.
Come per la maggior parte delle aziende che agivano sul mercato, l’obiettivo era quello di agganciare nuovi soggetti a cui destinare qualcosa dell’ampio carnet di titoli in proprio possesso. C’era un verbo orribile che indicava la tracciatura delle vittime da fidelizzare: “profilare”, in altre parole costruire una sorta di ritratto del cliente, in modo da poter capire cosa era possibile piazzargli. “Pensiamo al tuo futuro”, “la prevenzione sta al primo posto”, “proteggiti per gli anni a venire”, solo alcuni degli slogan in voga, volti a cattivarsi la comunità. Catturato il cliente, era poi fondamentale che i soldi investiti non venissero più toccati. Tito ricordava come un dirigente senza scrupoli si era inventato una clausola che costringeva l’utenza in possesso di un libretto di risparmio di poter esigere i quattrini solo se in possesso di una speciale tessera. Senza esibirla, aveva ordinato il dirigente alle succursali della sua provincia, niente rimborso. Una forzatura davvero esagerata, nell’evidenza che la maggior parte della clientela era anziana, poco avvezza ai pagamenti on line, all’uso di internet e a quei numeri di codice necessari a prelevare soldi dai cash dispenser. A pensarci bene, la nuova card lanciata dall’azienda rispondeva all’esigenza di creare una vera e propria barriera ai rimborsi di valuta. Tito lo sapeva bene: era necessario che la clientela rimborsasse meno denaro contante possibile. E che questo circolasse poco. La politica in atto era quella di intensificare l’apertura di tante carte di credito o di debito. Il denaro liquido doveva rimanere al sicuro, nei forzieri dei facoltosi, la gente comune veniva ossessivamente invitata a pagare e a effettuare transazioni con le diverse card. Gli esperti periodicamente ricordavano ai media il loro impegno a far sparire i contanti dalla vita quotidiana. Tutti dovevano utilizzare i nuovi dispositivi perché così, dicevano, furti e rapine venivano scongiurati. E poi finalmente si sarebbero potuti tenere d’occhio gli evasori fiscali e i mafiosi.
Le cose non andavano proprio così. In verità l’uso delle carte obbligava i detentori a pagarne l’uso, e le nuove tecnologie mettevano in crisi interi gruppi di cittadini, a disagio nell’utilizzare il denaro virtuale. Ai comandanti della sua grande azienda, Tito lo sapeva, poco interessava delle difficoltà di tanti poveri vecchi, in balia di “pin” e altri codici. Erano solo mucche da mungere, nominativi che dovevano fruttare di tutto e anche di più. Salvadanai di carne da rompere per incamerarne velocemente le monetine. E poi era una colpa rifiutare quello che tanti capitani di industria definivano progresso, quell’intrico di nuove regole e servizi che tutto facevano tranne che rendere la vita facile?
III
Tito faceva parte di una azienda ordinata a diversi livelli. Lui era solamente una minuscola tessera di una costruzione fragile seppur fortemente articolata e attrezzata per rimanere in piedi quel tanto che serviva, utile a spillare ricchezza. Assieme ad altri colleghi, viveva prevalentemente le sue giornate di lavoro nell’antico palazzo aziendale situato alla periferia della città. Un edificio imponente, colossale, lunghi corridoi spezzati da alte porte lungo i quali si affacciavano stanze di diverse dimensioni occupate, oramai, da pochi impiegati. Era da tempo trascorsa l’epoca in cui l’azienda dava lavoro a centinaia e centinaia di persone. L’avvento delle tecnologie digitali e l’indirizzo privatistico che, grazie al compiacente e nemmeno troppo sotterraneo assenso dei sindacati e dei lavoratori stessi era subentrato a una logica di interesse pubblico, aveva portato, tra i suoi risultati più evidenti, a una forte contrazione di quello che un tempo si definiva “personale” e che oggi, con mirabile espressione, aveva preso l’appellativo di “risorse umane.” E quelle risorse, ormai, erano ridotte al lumicino, intente a trasmettere dati e a raccogliere informazioni, ipnotizzate dalle luci bluastre degli schermi dei computer.
Nella sua stanza di comando, dietro a un tendaggio, uno specchio dalla piccola cornice in legno veniva regolarmente utilizzato dalla matura dirigente, il cui volto malamente sformato da un intervento di chirurgia plastica appariva grottesco. “Specchio delle mie brame”, pareva ripetere l’inquietante bambola; il suo viso orribilmente conciato assomigliava a quelle mele caramellate che si vendono alle fiere paesane. Mentre rampognava con voce tranquilla i diversi consulenti addetti alle vendite, Tophesia, questo il nome che aveva voluto darsi sui social, si faceva fotografare in pose accattivanti che, forse, avrebbero stuzzicato qualche attempato guardone dei social o dei vecchietti ancora fedeli ai cinema dove si proiettavano pellicole vietate ai diciottenni. La dirigente dalla doppia vita: di fronte la venditrice d’assalto pronta ad assalire il mercato costringendo la gente ad affidarle i soldi attraverso i suoi tanti galoppini. Nel privato, la tardona che, con qualche grano di ellenismo da strapazzo che palesava sul net senza alcun ritegno, tentava di agganciare o solleticare un improbabile ganzo credendosi una donna di qualità. Non le mancava nulla, visto che poteva sfoggiare anche quel tatuaggio che, pensava, la rendeva “in”.
Erano rari i giorni in cui Tito non provasse quell’orribile impulso al vomito, iniziando il solito giro di telefonate alla ricerca di qualche soggetto da “profilare”. Intanto Tophesia si osservava allo specchio trangugiando qualche poltiglia biologica che, ne era sicura, l’avrebbe aiutata a mantenere la silhouette. Era questo uno scampolo del campionario di personaggi che tipicizzava la vecchia azienda, i nuovi e arditi manager che utilizzavano tecniche e metodi al limite della legalità mutuando l’etica di quel continente protestante dove il danaro è merito e virtù, la malattia e la cattiva sorte la giusta punizione dei cieli per una vita condotta in modo non virtuoso.
IV
Piacesse o meno, Tito e i suoi colleghi dovevano accettare l’andazzo. Assieme alle pressioni dei dirigenti, era obbligatorio aggiornarsi di continuo e far propri i messaggi “politici” dei vertici assoluti. Alle convention, incontri organizzati in alcuni periodi dell’anno per fare il punto sulla situazione sull’andamento del lavoro, lo spettacolo era davvero misero. Maturi impiegati arrivavano più o meno attizzati alle feste imposte, affiancati dalle scollacciate colleghe per la maggior parte appassite, le gambe avvolte in calze scure come cotechini nelle cotenne, tutti ad assistere alle singolari performance di dirigenti e ospiti speciali. Aveva fatto il giro del paese quel filmato postato nella rete dove una direttrice di una succursale bancaria, tra un sgangherato canto e uno slogan, inneggiava alla qualità del lavoro e alla forza del gioco di squadra, risorse necessarie per raggiungere gli obiettivi aziendali. Il tema comunque era sempre lo stesso: i risultati si raggiungono a patto di metterci il cuore e fare squadra. Per instillare con maggiore forza il messaggio nella satura psiche dei dipendenti, venivano proiettati su mega schermi filmati di mirabolanti imprese raggiunte con encomiabile sacrificio. Immagini di tenaci e coraggiosi dirigenti impegnati in qualche memorabile impresa, a simboleggiare come la costanza e l’unione d’intenti consentissero il raggiungimento di qualsiasi obiettivo. E non mancavano le povere quanto mediocri esibizioni di dipendenti che, al ritmo di musiche insulse, erano costretti a recitare scenette da avanspettacolo che inneggiavano alla bontà dei prodotti commerciati. A chiudere, le premiazioni dei lavoratori più meritevoli, con le tetre foto degli stagionati pupazzi immortalati assieme agli scintillanti responsabili. “Qualcuno ci crede davvero, sussurrava Tito a Susanna, una delle colleghe più al riparo dai consigli subliminali. è talmente grottesco che non riesco a capire come si possa sopportare una tale pagliacciata. E il bello è che ci dovremmo credere e pure ringraziarli per averci regalato questo fantastico momento di comunione aziendale!”
Ma non tutti la pensavano come i due amici. Altri personaggi da sempre impegnati a fare da zerbino ai loro superiori inneggiavano agli incontri e alle strategie congegnate. Da loro partivano sperticati elogi ai capi sezione e agli altri superiori. “Sono tanto felice di aver lavorato con voi – affermava un diligente “quadro” in gonnella nel suo saluto ai colleghi prima di andarsene in pensione. “Ho imparato tanto, ho cercato sempre di migliorare e non ho trascurato di mettere tanto impegno nella customer care!”, l’attenzione al cliente. Di questa premura, per la verità, avevano diritto a parlarne solo quelli impiegati in prima linea che, mentendo, dovevano spremere intere comunità, in nome del nuovo dispositivo finanziario o di qualche fresca trovata. Atteggiamenti e convenzioni ormai collaudate che stavano avvelenando tutta la società, dove le pressioni sui lavoratori si facevano sempre più pressanti e meschine, le tecniche di promozione prive di pudore, le proposte semplicemente indecenti, le pubblicità inaccettabili. All’insegna di quella mostruosa realtà del terzo millennio dove quel che è sempre più evidente è che le classi politiche obbligano le masse a vivere per lavorare e non a lavorare per vivere. Sguinzagliando, ove possibile, personaggi impegnati a mettere zizzania tra il popolino, puntuale a cadere tra le spire dei pitoni che inneggiano all’idolo ingordo di questi tempi: il consumo.
V
L’indirizzo lavorativo imposto dalle tophesie e dai grandi cesari ai dipendenti della grande azienda era qualcosa che Tito e Susanna sopportavano a stento. E non erano certamente i soli a disprezzare questa filosofia di lavoro. Oltre all’impegno quotidiano causava sofferenza l’ambientazione in cui si trovavano a operare. Erano stati appena trasferiti dal piano superiore dell’antico palazzo dove avevano lavorato per anni in condizioni dignitose. Ora dover vivere per tante ore uno a contatto con l’altro, sopportare lezzi e aromi del collega della vicina scrivania, non poter stare con la finestra aperta e godere di un alito d’aria pura era qualcosa che giorno dopo giorno risultava sempre più penalizzante. L’idea dell’open space, ovvero un’area dove complessivamente agiscono tante persone una accanto all’altra, è concezione che giova a chi sovrintende. Al di là del lavoro prodotto da ogni singolo elemento posizionato nello spazio aperto, prevale la presunzione di poter costringere ogni persona a vigilare su chi gli sta vicino. E se non lavori, è proprio quello dappresso a notarlo. Costrette a condividere spazi minimi, anche le persone dal carattere più mite iniziano a sentirsi osservate, guatate, valutate. A quel punto il responsabile di turno ha risolto i suoi problemi. Non è più costretto ad alitare sulla schiena dei dipendenti perché tutto procede egregiamente da sé. Inizia a scatenarsi la guerra tra i poveri. Un conflitto tanto insidioso quanto velenoso tra lavoratori che rapidamente tracima i confini fisici della propria sede e della propria ditta. “Ne ho visti tanti – annuiva Tito conversando con la bionda collega – iniziare a sbirciare sui tavoli dei vicini, alla ricerca di elementi che esulassero dai compiti assegnati.” Dai colleghi più prossimi a quelli di altre aziende o enti locali il passo era breve. Qualche anno prima, un politico dai tratti intellettuali e fisici disgustosi aveva iniziato a maledire quelli che ormai erano noti come i “furbetti” delle amministrazioni e degli enti locali, super pigroni da stanare e da esporre al pubblico ludibrio. Erano loro, sbraitava l’esagitato, che rovinavano i bilanci della nazione e che andavano licenziati e perseguiti. Difficile, per i cervelli più deboli, resistere alla tentazione di accodarsi al fustigatore e perseguire quella canaglia che rubava e li danneggiava. Non li sfiorava nemmeno il pensiero che politici, mafiosi e delinquenti in marsina continuassero a vessarli e a imbrogliarli quotidianamente, e per ben altri e consistenti importi, grazie alla compiacente sordina dei media nazionali, pagati profumatamente dai padroni del vapore per nascondere la retta via con cortine fumogene. E, comunque, se ne stavano ben zitti, incapaci di una qualche minima reazione, pavidi e impauriti di fronte al padrone di turno. Nati in una conigliera.
VI
Tito, Susanna e altri dipendenti avevano sopportato a stento il passaggio all’open space. Il piano in cui lavoravano, gli ampi spazi e i raggi di sole che penetravano le ampie finestre al piano più elevato erano stati perduti inutilmente. La scusa degli alti papaveri che avevano deciso di blindarlo era tenue: bisognava risparmiare sulle utenze, luci e riscaldamento erano troppo costosi, meglio ammucchiare tutti qualche piano più sotto. Rimanevano inutilizzati anche l’ampio salone dove si svolgevano gli incontri, la sala di formazione, un appartamento residenziale un tempo utilizzato dai dirigenti. I tecnici che avevano perfezionato l’operazione avevano ricevuto gli encomi dalla sede centrale. Non era inoltre sfuggito ai dipendenti sfrattati che una nuova sala riunioni era in corso di realizzazione in un’altra parte della sede lavorativa. “Che senso può avere un’operazione del genere, rifletteva Tito assieme agli amici. Nel piano superiore c’era già tutto, perché sprecare altri quattrini per quella nuova struttura?” In fondo al cuore, come gli altri, intuiva che qualcuno, da qualche parte, aveva perorato la realizzazione della nuova stanza per dar lavoro a qualche ditta di una certa parte del paese. Non occorreva essere dei geni per rendersi conto che qualcosa non funzionava. E che non solo lui, Susanna e gli altri avevano perduto spazi e dimensioni lavorative degne di un uomo. Stanze e ambienti che avrebbero potuto essere abitate anche dai colleghi che calzavano berretti e blusoni nei freddi ambienti dell’ammezzato. Gliene fregava invece, ai grandi capi e ai loro simili. Stessero stretti e scomodi, tanto loro comandavano, in tutto il paese, da belle stanze lussuose e confortevoli! Pian piano sarebbero arrivati a quanto, nella sede centrale nazionale, si stava impostando da tanti anni: l’alienazione del capitale immobiliare di pregio, palazzi, succursali, parcheggi e abitazioni, quanto di migliore era possibile piazzare sul mercato, precipitando nella abissali fauci del privato. Per molti dipendenti, all’origine i veri proprietari di azienda e derivati, dello Stato stesso, era difficile rendersi conto che erano loro a perderci, a esserne privati. E subivano i calci nel sedere dei tanti Zio Paperone pronti a accaparrarsi quello che veniva alienato alla svelta prima che la comunità se ne accorgesse.
VII
“Perchè non rivolgersi ai sindacati” – insistette Francesco, ragionando assieme ai colleghi dopo l’ennesimo incontro voluto dai dirigenti per impartire delle nuove direttive. Per l’ennesima volta erano stati tartassati. Un nuovo paparazzo era arrivato dal centro con i nuovi dettami: tanti espedienti e trucchetti da baraccone per tentare di spolpare un’utenza prevalentemente formata da soggetti deboli e ignavi di quel che poteva loro capitare. Come Tito, Francesco si chiedeva quale strada stesse imboccando l’azienda. Ogni programma proposto era stato concepito per essere realizzato in tempi stretti, senza cura alcuna per la povera gente. Era semplicemente rivoltante dover considerare i cittadini come limoni da spremere. Tutte le misure sinora adottate, di concordo con il governo, erano volte a privatizzare la maggior parte delle aziende pubbliche. Il processo era iniziato da qualche anno, e vedeva le multinazionali estere scavalcare inesorabilmente l’iniziativa pubblica, lo Stato. Non solo qualche animo semplice c’era caduto. Anche soggetti insospettabili vedevano nella privatizzazione un processo con cui portare a casa qualche vantaggio. Mario, ai vertici di un sindacato di categoria, aveva catechizzato: “è stata imboccata la strada giusta. Ora finalmente anche noi potremo sedere nel consiglio di amministrazione e dire la nostra. E ci saranno anche soldi in più. Come già succede in Germania.” Nemmeno un anno più tardi Mario dovette ricredersi. Il processo di privatizzazione limitò completamente i diritti dei lavoratori. Nuove e cavillose procedure resero le operazioni di lavoro ancora più difficoltose e complesse. Diversi segmenti produttivi vennero esternalizzati con grave danno per i dipendenti, costretti a reinventarsi in altri rami della società per azioni. Chi andava in pensione non veniva rimpiazzato, e i suoi carichi di lavoro venivano sbolognati sulle spalle di chi rimaneva. E tutto il gravame che era precipitato sui loro tavoli, ne condizionava l’operato e si ripercuoteva sulla qualità dei servizi resi al pubblico. Ma lassù, dal ponte di comando, nessuno se ne preoccupava. Tanto a rimetterci erano solo le comunità. Loro, i grandi cesari, continuavano a incassare premi e riconoscimenti su base progettuale. E, comunque risultasse l’andamento aziendale, alla prossima tornata elettorale, anche in caso di esiti poco soddisfacenti, avrebbero potuto andarsene, pronti ad applicare l’ennesima privatizzazione in altri lidi. Intanto le forze dell’ordine si impegnavano a “pizzicare” qualche furbetto del cartellino, mentre delinquenti naturali continuavano a girare indisturbati lungo i corridoi del potere.
VIII
La notizia della morte di Graziella sferzò impietosa Tito e tutti i colleghi. Se n’era andata nel cuore della notte in punta di piedi, come aveva sempre vissuto. Disciplinata, ligia al dovere, aziendalista per educazione più che per ostentazione, per tutta la sua giovane vita aveva cercato di migliorarsi per trovare un posto al sole nel grande palazzo. La sua era un’ambizione tanto legittima quanto timida, una ragion di vita piuttosto che l’impellente bisogno di farsi largo e calpestare chi le era vicino. Voleva crescere, dimostrare prima di tutto a sé stessa di essere all’altezza di situazioni di lavoro complesse. Lo fece senza dar ombra ad alcuno. Per due anni riuscì addirittura a insediarsi al vertice del settore in cui lavorava. Quando qualcuno glielo faceva notare, arrossiva di colpo e il suo chiaro viso si colorava della tinta del lampone. Ma chi la conosceva a fondo sapeva quanto quei riconoscimenti la colmassero di soddisfazione. E dessero un senso alla sua vita.
Purtroppo il suo impegno e la sua dedizione non vennero tenuti in debito conto. L’ennesimo manager privo di scrupoli e votato al taglio del personale, esercitò un’azione ormai comune nelle aziende italiane e europee: concentrare mansioni e competenze su macro aree, tagliando quanto possibile le periferie. Esperienze, capacità e conoscenze sul territorio erano irrilevanti; l’importante era sforbiciare sulle “risorse umane” in modo da comprimere i costi.
Graziella fu vittima dell’ennesima ristrutturazione aziendale. Nonostante le sue riconosciute capacità, venne trasferita in un nuovo settore, scaraventata a lavorare in un ufficio di cui non conosceva nulla. Non reagì né protestò, com’era nel suo stile. Ma non seppe nascondere il duro colpo subito in pieno petto a un’età in cui non è facile ricominciare e adattarsi a un nuovo ruolo. Nel giro di qualche mese, calate le difese immunitarie nella mente indifesa, Graziella scoprì di dover curarsi per il solito male oscuro. A quante colleghi era già capitato! Una notte un dolore insolito fu il segnale che il suo tempo era terminato. Il suo buon cuore aveva ceduto solo all’inizio della lunga lotta che l’attendeva ma che non avrebbe, purtroppo, combattuto.
A salutarla per l’ultima volta vennero in tanti, compreso alcuni habituées della cappella mortuaria. Nerio, da tempo in pensione, assiduo frequentatore di cerimonie funebri, prese nota dei numeri di serie della bara dove riposava la povera Graziella per poterli giocare al lotto. Serena, invece, era livida in volto; più che il dispiacere per la prematura scomparsa della collega prevaleva la preoccupazione per il proprio futuro e quello della sua famiglia. Ma si sentiva in una botte di ferro: integratori vitaminici e alimenti di prima qualità erano i capisaldi di quella prevenzione che certamente l’avrebbe protetta; e poi c’era l’olio extra vergine prodotto in casa, le verdure fresche, la frutta. Tutto questo avrebbe tenuto lontano dal suo focolare malanni e malestri. Ne era certa.
Martino, come sempre, aveva assunto la posa di circostanza; il vestiario, come di norma, era in tono con la cerimonia. Nei suoi pensieri, però, c’erano affari e donnine, con cui avrebbe dovuto certificare la sua stoffa di maturo stallone. Cavalcare è importante.
Come la stragrande maggioranza di chi passava in quella ghiacciaia che i cittadini definivano a stento “cappella”, il contatto con la morte del congiunto o del conoscente era subitaneo richiamo alla propria, futura scomparsa. Un pensiero che andava immediatamente rimosso, cogliendo l’istantanea ancora di salvezza che altro non era che il proprio istinto di conservazione. Pare impossibile di dover finire così, impietriti, gelidi, sformati dalla malattia, impediti nel muoversi e nel poter rizzarsi nella propria indipendenza. Nella gelida coltre di dolore che avvolgeva il mesto corteo, serpeggiava la consapevolezza che Graziella aveva subito, interiormente, quell’oltraggio alla persona che l’aveva portata alla morte. Non vi erano elementi oggettivi per poter appurare quanto il comportamento dell’azienda potesse aver influito nella rapida decadenza della poverina; ma in tanti, oramai, pure alla luce di altri lavoratori colpiti da malanni fulminanti, erano convinti che l’avvento di una nuova società costruita sull’arrivismo, sulla prevaricazione e sulla promozione di bisogni indotti stava presentando il suo conto salato. Portarsi a casa il lavoro, oramai, era un’abitudine di gran parte dei colleghi di Graziella. E con il lavoro quei problemi e quelle preoccupazioni che, subdole, si insinuavano velocemente nel quotidiano della gente, scardinando abitudini e prospettive. “Lavoriamo per vivere – commentò nuovamente Tito come un disco rotto – non dobbiamo vivere per lavorare come è capitato a Graziella.” Alcuni assentirono con scarsa convinzione. Tito parlava sempre tanto… Eppure loro non ci ragionavano sopra nemmeno per una frazione di secondo, vittime di una ipnosi calata silenziosamente dall’alto. Ma di una cosa, alcuni, incominciavano a rendersi conto. Quel lavoro tanto mitizzato che doveva dare dignità a ogni persona non era poi così apprezzabile. “Ti guadagnerai il pane con il sudore della fronte e partorirai nel dolore”, di questo ci si dimenticava un po’ per ignoranza, un po’ per miopia. La maledizione antica, il duro destino di chi è umano.
Sfilavano intanto conoscenti e colleghi ritardatari, anche il direttore dell’azienda che portava per l’istituto quelle condoglianze che sapevano di senape scaduta. Lagrime in cappella, urla nei corridoi dove si rimproverava ai lavoratori di non fare il proprio dovere. Mi fai schifo – disse qualche tempo prima un mega dirigente a una responsabile commerciale ben conosciuta da Tito e compagni – minacciandola e rimproverandola per un lavoro a suo giudizio mal fatto. Questo mega dirigente arrivò sin dove sindacati e lavoratori gli avevano permesso di arrivare. Era costui un superbo cacciatore di lavativi, flaccido e ben tornito, con i capelli malamente tinti. Un torvo mastino che esercitava violenza per il padrone, quel Grande Cesare che quando incontrava, gli provocava ansia e paura. Al passaggio inaspettato del Superiore, il mega dirigente tremava infatti come una foglia e si scioglieva come gelatina esposta al sole. Ignorante, misero intellettualmente, interpretava alla grande il ruolo di cane da guardia. A seconda dei punti di vista, una vittima del sistema, oppure una schiuma velenosa scelta apposta per inquinare l’ambiente di lavoro. “Stana il lavativo, dagli all’indolente – ripeteva al subalterno – nessuna tregua, sotto a chi tocca”. A tempo debito, la faccia intontita da anni di servitù, venne miseramente rimosso e rottamato. Un servo trattato da servo, misero chandala al servizio dei padroni del vapore.
X
“Cosa possiamo fare? Come difenderci dal nuovo corso? Non dovremmo essere contenti di avere un lavoro? A che pro ribellarci? Non se ne viene fuori. Ringraziamo il cielo di portare a casa la paga.” Marella ripeteva prima di tutto a sé stessa un ritornello che, paradossalmente, nella sua semplicità, esemplificava quello che dall’alba del terzo millennio tanti lavoratori vivevano nelle rispettive aziende. Nel giro di pochi anni colletti bianchi e operai avevano perso quei diritti – per i padroni erano “privilegi” – che durante gli anni settanta dello scorso secolo erano stati conquistati dalle masse a colpi di scioperi, assemblee e mobilitazioni. Un patrimonio di leggi e disposizioni che le multinazionali e gli organismi più o meno segreti del nuovo continente non poteva non dar fastidio, barriere che impedivano quella libera circolazione di cose e persone che era l’obiettivo principale di chi comanda. E dunque ecco cantierata in tempi rapidi la cura che avrebbe destabilizzato e sodomizzato il vecchio continente, garantendo ai grandi capitali esteri di insediarsi in Europa a danno degli organismi statali. Prima tra tutte ad aprire le porte di casa Margareth Thatcher, premier del Regno Unito che, tra qualche difficoltà, fu capofila del cambiamento che portava grano e quattrini nei forzieri dei ricchi e miseria e gramigna per il ceto medio e il proletariato.
In Italia il processo iniziò qualche anno più tardi, in un sistema di per sé stesso fragile e minato alla radice dalla mancanza di coesione sociale e dall’incalzante affermarsi di strutture malavitose capaci di insediarsi nei gangli primari della macchina. Senza dimenticare che il Bel Paese non era ancora riuscito a definirsi quale vero e proprio “Stato”, ancora dipendente da servaggi medievali, latifondi e dall’onnipresente religione che più che al cielo era interessata a mantenere proprietà e privilegi sulla terra. In questo quadro insicuro e malfermo, i portatori dell’etica protestante e liberista delle multinazionali immersero la propria lama in profondità. Nel giro di qualche anno i brandelli di uno Stato ridotto a una serie di scatole cinesi di poteri sovrapposti, il risultato dalla grave sconfitta subita nella Seconda Guerra mondiale e di un malaffare che continuava a prosperare lungo tutta la penisola per attitudine e genetica di tutto un popolo, cedettero ulteriormente alla programmata invasione dei poteri forti.
La grande azienda pubblica in cui Tito lavorava era già da qualche anno sotto tiro. L’obiettivo dello Stato era di metterla sul mercato, per ricavare quei quattrini necessari a sopravvivere sino alla successiva finanziaria. Per buona parte dei lavoratori, ormai oltre la cinquantina, era un tirare a campare nella speranza di poter al più presto raggiungere la pensione. Questo il quadro, diffuso in tutto il paese; per tanti, come Tito, di una tristezza del tutto imprevista rispetto le aspettative di qualche anno prima quando, giovane e fiducioso, sperava in futuro roseo.
XI
“Non abbiamo alternative – sospirava Tito – siamo condannati a danzare al ritmo dei pupari, si ripeteva sconsolato. Inutile discuterne con gli altri. Un altro anno era quasi giunto al termine, e i problemi rimanevano gli stessi, ovviamente peggiorati. Tanto valeva godersi le vacanze di fine d’anno e sperare in qualche piccola epifania, così, per dare un senso a una vita che scorreva insipida e tiepida. Per quanto sembrasse incredibile, era necessario rassegnarsi. “Dove pensi di arrivare con le tue proteste – lo rampognavano alcuni amici – il necessario per vivere ce l’hai, ci sono le ferie, i computer e magari ci scappa anche una crociera. Non farti illusioni – continuavano – i vecchi ideali sono morti e non troverai nel paese una persona disposta a sacrificarsi per quel cambiamento che, tra l’altro, dove potrebbe portarti? Hai intenzione di scendere a Roma e farti giustizia da solo tentando di far fuori qualche politico? Non ti seguirà nessuno, amico, i tuoi ideali sono appassiti, la gente non sa nemmeno cosa significhi solidarietà, condivisione, sacrificio. Rassegnati. Oggi, quando il carrello della spesa è pieno, ça suffit.” Non l’avrebbe mai ammesso ma, purtroppo, avevano ragione. Ed era tristemente vero che tutti i valori per cui qualche anno prima avevano combattuto erano evaporati. Morti la bandiera, la patria, la famiglia, il sistema politico, anche il Signore sembrava essere andato in pensione mentre agli extraterrestri non passava nemmeno per la testa di scendere su questo pianeta infelice per portare una boccata d’aria nuova. Non restava che vivere una quotidianità al sapore di contenuta angoscia.
XII
Vivere giorno per giorno, senza tanti patemi o pretese, prendendo tutto quel che di buono la vita può dare. “Belle parole – rimuginava Tito – ma oggi vorrei vedere un altro al posto mio. Solo qualche ora fa ero una persona normale, sana, lesta nei movimenti e nei pensieri. Ora sono imbottito di fili e cerotti, incapace di credere a quanto mi sta capitando.” Di primo mattino Tito era salito sul bus per recarsi all’ospedale per un normale controllo. “Mal che vada, gli aveva detto il medico, se la cava in un giorno e mezzo e poi se ne ritorna a casa. Quel che è certo è che questi esami ci diranno definitivamente se lei ha qualche problemuccio o meno.” Problemuccio? Altro che problemuccio, si ripeteva Tito. Ero seduto su di una mina anticarro e non me ne sapevo nulla. Ora dovrò sottopormi a una difficile operazione e vi sono almeno due probabilità su cento che possa lasciarci le penne. Ma pensa te…”
Tito non riusciva a raccapezzarsi. L’unica cosa che ormai era chiara è che lui era una persona che rischiava grosso. L’arteria era chiusa quasi al novanta percento della sua portata e bisognava procedere a cuore aperto per poter realizzare dei bypass. “Potrei andare a casa almeno un paio di giorni per mettere a posto alcune cosette?” “Glielo sconsiglio assolutamente”, ribadì il medico, mentre Tito osservava il viso della moglie bloccato in una smorfia di angosciato stupore.
Era tutto così assurdo. La bufera che non t’aspetti. Quattro ore prima era ancora una persona normale, ora era un cardiopatico di quelli certificati, che rischiava di fare la fine della collega Graziella. Senza alternative, nella speranza che l’intervento riuscisse e gli consentisse di sopravvivere. La grande beffa era che non si sentiva male ne avvertiva dolore. Eppure…
Eppure era così. Nel fiume di pensieri che scorrevano velocemente sullo schermo della sua mente, l’unica cosa certa era che il suo vecchio mondo era andato in frantumi. Ora Tito capiva come la sua vita poteva finire da un momento all’altro. E non si sentiva pronto a recepire un’opzione di quel tipo. Tutte le sue filosofie, il suo mondo di certezze e incertezze era crollato. L’unica luce era quell’intervento a cui, nel giro di poche ore, si stava aggrappando come la sola speranza per ritornare al mondo, quello esterno. Dentro l’ospedale, nonostante il tatto e la gentilezza dei medici e del resto del personale, stava vivendo un incubo. E era tutto vero, dannatamente reale. “Devi venirne fuori – pensava – devi svegliarti e poi tutto ricomincerà, in un modo o nell’altro. Devi uscire dal buio e in qualche modo vivrai.” Era ancora cosciente quando qualche giorno più tardi entrò in sala operatoria, il momento tanto atteso. Poi il buio, repentino, era calato. L’indomani, svegliandosi, capì che era ancora lì, l’oscurità alle spalle, attorno un mondo fatto di infermieri e macchinari, cavi e mascherine per l’ossigeno, display e pulsazioni in continuo fermento. Lui, un groviglio di elettrodi e telemetrie, innesti e bende. Ma era vivo, sicuramente intorpidito dall’anestesia, ma vivo. Stava per iniziare il lungo e tortuoso itinerario per il recupero. Con tutte le sue paure e i tanti dubbi. Per il momento, solo la sicurezza che lui, dall’oscurità, era ritornato, grazie alla mano dei medici. Ma era quello il buio incosciente che, come tutti gli esseri umani, avrebbe ritrovato un giorno e per sempre? Una fine inconsapevole? Meglio rimuovere. Non pensarci. Una cosa alla volta: ora era uscito dalla rianimazione, solo il primo passo verso la normalità.
Il periodo di prima riabilitazione trascorse all’insegna dell’incertezza. Tante le domande che frullavano nella testa di Tito, ancora intento a smaltire la sbornia dell’anestesia. Solo una cosa era certa: per la prima volta nella sua vita, dopo l’infanzia, era completamente in mano altrui. Cure, farmaci, sostegno psicologico, tutto veniva svolto dal personale ospedaliero e dai familiari. Tito non poteva farci nulla, una condizione che lo metteva in forte crisi. E quante domande a infermieri e infermiere: – “Ce la farò, tornerò quello di prima, guarirò?” Infinita la pazienza dei camici bianchi alle sue continue inquisizioni. Tuttavia qualcosa stava cambiando. Tito aveva iniziato a fidarsi, a cercare un contatto, a tentare di instaurare un rapporto anche con il personale più riservato. Da qualche parte bisognava pur ricominciare. E realizzare che l’unica ragione di vita è comunicare con chi ti è più vicino nell’istante in cui ti rendi conto di essere presente a te stesso e al mondo che ti circonda. Questa riflessione rappresentò per Tito l’unica consolazione in una vicenda estrema come quella in cui si trovava. Parlare, scambiare impressioni e idee, riuscire a incrociare in profondità gli occhi dell’interlocutore; sembra una stupidaggine, un’autentica banalità in un mondo che gira vorticosamente. Ma era questa l’unica certezza per Tito: riuscire a destare l’attenzione altrui, essere insieme a qualcuno, vivere imparando a conoscersi in profondità, con pazienza, senza secondi fini, alla ricerca di sé stessi attraverso gli altri. Più volte in quelle lunghe ore, in quei giorni di degenza, faceva capolino nella sua mente la parola empatia. Quella necessaria a instaurare un contatto con il personale infermieristico, con i medici, con tutto quel mondo di pazienti e parenti che gravitava lungo quelle lunghe corsie dove, giorno dopo giorno, ci si ingegnava per trovare la forza di migliorare e ritornare alla salute.
Dietro agli occhi di ogni persona c’era tutto un mondo da esplorare e da conoscere. Era necessario trovare rapidamente la chiave per aprire quelle porte che spesso, di primo acchito, sembravano sprangate. Era davvero duro, all’inizio, confrontarsi con il volto squadrato di Baerbael, infermiera/kapo originaria, come tante sue colleghe, della terra polacca. I gelidi occhi azzurri incastonati in un viso scolpito nella slavata pietra nordica deviavano regolarmente se incrociati. Eppure anche Baerbael era un essere umano con cui si poteva intavolare un minimo discorso. La montatura civettuola dei suoi occhiali era indice di un mondo più vezzoso e di attitudini più semplici e, per così dire, umane. Era una donna, dopo tutto, si sperava non del tipo di Irma Grese o Maria Mandl. E infatti, giorno dopo giorno, battuta dopo battuta, Baerbael iniziò a “sciogliersi”; sul suo viso le angolature iniziarono a arrotondarsi, e qualche timido sorriso spuntò, finalmente, per la soddisfazione di Tito. Una conferma che, pazientemente e attraverso un’attenta osservazione, era possibile trovare i modi e le parole per fare breccia anche nei personaggi più difficili. La parola magica era per davvero empatia, quella che consentiva di percepire la cifra umana dell’interlocutore. Empatia attraverso la quale era possibile per davvero entrare in contatto con l’essere, la persona. In un universo fatto di incertezze e misteri, l’unica, piccola sicurezza durante l’effimera parabola che ci viene concessa, durante la quale incrociamo altrettanti esseri insicuri e impauriti quanto noi. Ci facciamo compagnia, diventiamo amici, iniziamo a parlarci prima di dover, purtroppo, dividerci. Ma ci riconosciamo, ci ricordiamo di noi in una briciola di eternità.
PARTE SECONDA
La piccola epifania
I
Era la vigilia di Natale perfetta: l’aria profumava di neve, il vento frustava senza tregua la città e l’intero golfo, e il sole, quando decise di far capolino, apparve timido e poco propenso a riscaldare cose e uomini di questo mondo. Dunque, era arrivato per davvero l’inverno, quello vero, autentico e certificato, del gelo e della galaverna, dei cappotti e dei piumini, dei punch e dei grog. Negli ultimi anni s’era tanto parlato dei cambiamenti climatici, delle estati roventi, degli inverni miti e di tutte le conseguenze che il pianeta stava soffrendo per quell’inquinamento che, alcuni studiosi lo asserivano, aveva contribuito al rialzo delle temperature. La Terra aveva la febbre, e a rimetterci per prime le quattro stagioni, copie sbiadite rispetto a quelle di un tempo. Le previsioni per il prossimo futuro erano fosche e, almeno per quel che riguardava il Bel Paese, tutt’altro che azzardate. Da parecchi inverni infatti le temperature non scendevano sotto lo zero, e la neve si faceva attendere persino sulle Alpi. Le fioriture dei mandorli e dei pruni iniziavano già a fine gennaio, merito di una primavera precoce. Insomma tutto appariva fuori contesto. Quella vigilia natalizia invece sembrava riportare le cose al loro posto. Per Tito, che si era appena svegliato, la giornata si preannunciava nei migliori dei modi, almeno dal suo punto di vista. L’inverno gli piaceva, il vento pure, e il clima freddo, invece di creare problemi, lo invogliava a uscire e a sfidare le intemperie. Aperte le imposte, venne investito da una cruda brezza e respirò a pieni polmoni l’aria frizzante e minerale. Tito non era certo quel fervente cattolico che di primo mattino iniziava i preparativi che sarebbero culminati nel cenone e nella successiva messa di mezzanotte, tuttavia la vigilia di Natale non gli era indifferente e, pure se gli era difficile ammetterlo, quello appena iniziato non era certo un giorno come gli altri.
Tito era solo. Il resto della sua famigliola era andato a trascorrere le festività altrove, mentre lui era rimasto in città per sbrigare alcuni impegni di lavoro. Ma dal pomeriggio era libero da tutte le incombenze, e pertanto poteva godersi la vigilia come meglio gli aggradava. Dopo la visita all’anziana madre che, al solito, gli aveva raccomandato, neanche fosse stato un ragazzino, di tornare a casa presto la sera e di comportarsi bene, ovvero di non alzare il gomito, aveva preso il telefono per chiamare Sano, amico di lunga data. I due erano già d’accordo dai giorni precedenti. La vigilia poteva essere una bella occasione per recarsi fuori porta, magari rintracciando un posto carino dove far merenda e bere qualche bicchiere. Le condizioni proibitive del primo pomeriggio – il vento era aumentato e il cielo era coperto da nubi color canna di fucile che promettevano burrasca – non avevano scoraggiato i due. Sia Sano che Tito amavano gli estremi, e dunque perché perdersi un’uscita degna di due vecchi lupi di mare? L’aria gelida non doveva rappresentare un ostacolo. Erano passati diversi mesi dall’operazione subita al cuore e Tito cercava di lasciarsela alle spalle, per quanto poteva. Con le dovute cautele…..
I due amici decisero dunque di avventurarsi in collina, dove resistevano ancora alcuni ritrovi dal sapore antico. Lì avrebbero trovato ospitalità nella classica osteria di Silvano, in una casetta quasi a picco su di un versante collinoso che guardava al bosco. Appena giunti, dopo che Sano si era prodigato a più riprese nel canzonare la guida di Tito, a disagio lungo la stretta e impervia salita, si accorsero che il vento tirava ancora più potente. Parcheggiata l’auto, scesa la scalinata che portava all’osteria, ecco la balzana idea del Sano. “Caro Tito, ghignò con un espressione che sembrava quella di un diavolo, non sarai davvero così infreddolito da cercar rifugio all’interno di questa casupola? Guarda – e indicava all’amico la sottostante vallata e il lontano centro città con il porto aggredito dal mare in burrasca – assisteremo tra qualche ora a un tramonto in technicolor e poi, incalzava Sano, non avrai mica timore di buscarti un raffreddore?”
Mentre l’ennesima raffica gli faceva quasi perdere l’equilibrio, Tito era pronto a scaricargli addosso una lunga salva di improperi. Ma la sfida era ormai lanciata e non ci si poteva tirar indietro, anche se non sapeva come il suo cuore l’avrebbe presa. Tito però osservò bene il pergolato sotto il quale si sarebbero accomodati, mentre sullo sfondo il grecale torturava a destra e a sinistra, senza alcuna pietà, susini, cachi, olivi e le querce della boscaglia vicina. Una forza invisibile che piegava al suo volere uomini, piante e, che vi si creda o meno, anche le case. “Caro Sano, replicò l’amico, sarò io tra qualche giorno a procurarti lo sciroppo per la tosse. Ci sistemiamo qui, a fianco dell’entrata, e io darò spalle all’edificio mentre tu mi starai di fronte, a fianco della terrazza. Così ti godrai il panorama sul bosco e, visto che lo gradisci molto, il vento.” Tra una battuta e l’altra, presa finalmente posizione, Tito entrò nell’osteria dove alcuni clienti erano già su di giri: la solita allegra atmosfera di un ritrovo piuttosto apprezzato dai fan del genere. Tavoli, panche e sedie spartani, vecchi arnesi del contadino appesi alle pareti, a est la vetrata spettacolare che si affacciava sul bosco e dalla quale si potevano vedere lontano, altissimi, i grandi ripetitori delle emittenti televisive, incombenti dal ciglione dell’altopiano su di un paesino sottostante. Subito accanto l’ambiente principale, quella fresca cantina dove Silvano era intento a mescere il vino e a soddisfare le altre richieste dei clienti. “Avete un bel coraggio a star fuori”, commentò l’oste, aggiungendo una bella risata. Tito afferrò la bottiglia di vino e i bicchieri sospirando ma, senza battere ciglio, si avventurò di nuovo all’esterno dove il Sano pareva godersi, con ulteriore sguardo di sfida, il trionfo di Eolo. “Oddio, riprese con misurata indifferenza, se soffri le intemperie, possiamo sempre entrare. C’è chi ha fisico e chi invece è, come dire, ….gracilino! Bisogna avere comprensione.”
“Sono nato in collina – rispose Tito – e lì vento e neve erano di casa ogni inverno. T’immagini, ricambiava con lo sguardo assassino, se questa leggera brezza è in grado di infastidirmi”. Tito sorvolò sull’accenno al malanno che lo aveva colpito. Sapeva che Sano cercava si scuoterlo e di far riapparire, in qualche modo, quella recente esperienza ospedaliera che, senza dubbio, aveva lasciato il segno. Evocarla per parlarne e, in qualche modo, svuotarsene, curare quella ferita nella mente.
Il primo bicchiere di vino rosso – perché o si beve rosso oppure non si beve vino, sentenziava al solito Sano – venne bevuto dai due senza fretta. “Rendiamo lode al vino – disse – con il quale convivo da anni senza problemi. Come potremmo campare senza questa preziosa essenza?” Tito non poté che condividere, elogiando con ulteriore enfasi le proprietà di quella bevanda. “L’importante, asserì con convinzione Sano, è saperlo «tenere» a bada. Ci vogliono impegno e tenacia quando, sorbendone, le quantità diventano notevoli. Un vero uomo non si ubriaca.”
Che tristezza l’essere astemi, aggiunse Tito, un altro sincero cultore del genere alcolico. E tra un ricordo e l’altro della agenzia di spedizioni dove un tempo lavorava, vero e proprio quartier generale del Sano, la fornitura di vino e salumi scomparve. Almeno per questa vigilia, pensava Tito, voglio spassarmela senza pensare alle diete e alle precauzioni! Mentre pasteggiavano, il grecale continuava a imperversare. “Non ti biasimerò, Tito, se pensi di riparare dentro”, riprese un Sano sempre pronto a “punzecchiare” bonariamente l’amico.
“Tranquillo, la replica, qui si sta davvero bene.” Freddo e vento non impedirono ai due amici di chiedere il bis al Silvano. Tra una fetta di salsiccia e un gotto di vino, la conversazione tra i due prese diverse direzioni. Oltre alle posizioni sempre più intransigenti di entrambi su politica, società e costume, iniziarono ad affiorare i ricordi. “Ascolta Tito, gli anni sono trascorsi in fretta e io vorrei incontrare alcune persone che non vedo da tempo.” Con l’amico, Sano ricordava le giornate trascorse nel negozietto di dischi di via Loombard. Affrontò un argomento caro anche a Tito che ripensava a quei pomeriggi vissuti nell’accogliente esercizio. “Siamo fra i pochi che vorrebbero per davvero incontrare la signora Gabriella infischiandosene dei dischi che probabilmente l’anziana conserva ancora in qualche sgabuzzino, vinili sui quali tanti appassionati delle sette note vagheggiano di rintracciare qualche fantastica rarità.”
Tito sorseggiava il vino e annuiva. Era stato lui, qualche tempo prima, a recuperare il telefono dell’anziana. “Si ricorda di me, signora? E di Sano?”
“Come no, rispose l’anziana”, che aveva conservato il suo dolce e unico accento. “Sano, sicuro, suonava con il complessino. Lei chi è invece? Però mi spiace, non posso ricevervi. Mi scusi, è tardi, devo chiudere.”
Tito non si offese per non essere stato riconosciuto, preoccupato, piuttosto, per non esser riuscito a scovare in tempo reale uno stratagemma per farla recedere dal proposito. Il telefono era ormai “stanco”, Lei troppo lesta nell’abbassare la cornetta. “Ha chiuso repentinamente la conversazione, Sano.”
“C’era da immaginarselo”, rispose l’amico, consolandolo. Gabriella è rimasta professionale e finemente distaccata anche nel crepuscolo della propria esistenza. Come una donna che si rispetti, non ha voluto farsi cogliere nel momento in cui, nel cantiere, era in disarmo. Peccato non possa sapere e comprendere che l’affetto che Le portiamo va oltre l’apparenza. Ma capisco il suo cortese ma fermo atteggiamento di chiusura.”
“Forse esagero, Sano, ma da Gabriella ho trascorso tra i più bei momenti della mia gioventù. La vedo ancora col trucco appena accennato, la statura imponente, le belle gambe anche in età matura. Mi piaceva tanto passare il tempo con lei. Quella musica….gli altri amici con cui discutevo animatamente delle nuove uscite discografiche, un mondo nuovo tutto da scoprire. I dischi appesi alle pareti, le copertine colorate, la piccola vetrina, le pile di 33 giri accatastati l’uno sull’altro, i clienti più strani e diversi e di tutte le età. Ognuno, a suo modo, musical dipendente. Pensa che di tanto in tanto mi capita di sognarla. Nel sonno mi stupisco di trovarla di nuovo dietro al banco di un negozio situato nei paraggi di via Loombard. Nel sogno sono consapevole del suo ritiro, eppure è lì, a vendere dischi, ancora. Quanta nostalgia. Mi capisci?”
Eccome capiva, per un momento taciturno, l’amico Sano. Erano ambedue, chi un po’ di più, chi un po’ di meno, sulla soglia della terza età. E forse pensavano e ricordavano malinconicamente come fanno tutti gli anziani. Rispetto a tanti altre persone attorno alla sessantina, i due accettavano il trascorrere del tempo e se la ridevano di quelli che ne soffrivano e che desideravano l’eterna giovinezza. Tinture di capelli, salsicce di silicone per tornire le labbra, trapianti e altri correttivi. Che disastro!
“Caro Tito, un tempo vivevo forte e senza timori in ogni situazione. Ora mi capita addirittura di commuovermi per una canzone e pure per qualche ricordo. Te guarda…!” Per qualche ragione, intanto, il freddo sembrava aver attenuato la morsa. I refoli investivano l’orto davanti l’osteria con minore accanimento. Alberi e arbusti potevano tirare un sospiro di sollievo. A terra, alcuni rami spezzati dalla furia dell’aria. Le piante che avevano superato l’esame del vento dovevano essere resistenti per forza, vaccinate e pronte a sopportare le folate del prossimo vento che sicuramente avrebbe imperversato, presto o tardi, lungo quel versante. Dalla postazione occupata dei due amici, gli edifici cittadini si scorgevano nitidamente. “Tito, riprese Sano, da qualche tempo ripenso a una mia tenera esperienza dei primi anni sessanta, quando ancora andavo a scuola. C’era una ragazzina che davvero mi interessava, il primo amore. Thelma, questo il suo nome, frequentava il mio stesso istituto. Per stare assieme spesso salivo via dei Sicomori, dove lei abitava, e iniziavo l’“appostamento” per attenderla. Insomma, ero innamorato, capito?” Tito ascoltava con attenzione. E nella sua mente immaginava Sano camminare lungo la rampa che lui, a quei tempi bambino, affrontava quotidianamente. Perché lui, in via dei Sicomori c’era nato e vissuto per un bel po’. “Chissà, forse qualche volta ci siamo incrociati. Te in attesa della tua compagna di scuola, io forse da solo, o con mia madre, mentre tornavo a casa oppure rendevo visita a qualche amico. Comunque sia, hai provato a contattarla? Il suo cognome risulta ancora sulla rubrica telefonica? Ma che dico, sicuramente si sarà sposata, magari lavorerà altrove. Chissà che vita le è toccata in sorte.”
“Chissà…” – rispose il Sano.
“Beh, rammenti certamente dove abitava, continuò Tito. Perché non andiamo a verificare se lei o i suoi parenti vivono ancora da quelle parti?”
Per un attimo Sano rimase sorpreso della proposta. Poi a Tito parve di veder scintillare una luce negli occhi dell’amico. “Allora mi accompagni, vero? Andiamo a scoprire assieme se vive ancora là?”
“Cosa aspettiamo”, rispose Tito, mentre prosciugava l’ultimo bicchiere e si accingeva a saldare il conto. “Andiamo a cercare Thelma!”
II
I due amici lasciarono l’osteria di Silvano all’imbrunire. Non fu uno scherzo svincolare l’auto di Tito dal groviglio di vetture degli altri avventori, parcheggiate alla rinfusa. Con qualche manovra in più – Sano ancora una volta non perse l’occasione per burlarsi delle capacità di pilotaggio dell’amico – l’auto riuscì a imboccare l’erta salita che portava alla via Sacri Monti. Per raggiungere via dei Sicomori, i due scelsero di scendere verso il centro. La pendenza della strada esaltò per l’ennesima volta Tito, cui non importava incrociare qualche mezzo proveniente dal piano. Anzi, il disguido rientrava in uno dei piccoli piaceri goduti dove l’imprevisto dettava legge. “Mah, vai proprio a cercartele”, commentò saggiamente Sano all’ennesimo stop cagionato dall’incrocio con una nuova vettura incastrata nella stretta carreggiata.
“Saranno affari miei?”, ringhiava Tito mettendo a dura prova ruote e frizione per il puro gusto di percorrere la pittoresca strada. Non senza patemi, lo chaffeur raggiunse, infine, il piano. Quel quartiere era cresciuto dal secondo dopoguerra in poi senza alcuna disciplina. Enormi palazzi erano sorti dappertutto, attorno alla chiesa, alle scuole, all’ormai dismesso stabilimento di liquori. Per Tito, che li aveva vissuto, la fabbrica di laterizio rosso rimandava al tempo in cui frequentava la vicina scuola elementare. Alla fine della giornata scolastica poteva capitare che, uscendo dall’edificio, i ragazzi venissero investiti da un alito profumato di brandy. Che atmosfera!
Lasciata la via principale, in nemmeno una cinquantina di metri l’auto dei due amici aveva imboccato la via dei Sicomori. Erano decisi a rintracciare quel viottolo davanti al quale, quarant’anni prima, Sano si era appostato più volte in attesa di Thelma. “Suppongo non sia difficile ricordare – si rivolse Tito al Sano – cercando di capire dove avrebbe potuto trovare parcheggio lungo una salita dove auto e scooter si disputavano quotidianamente un “lebensraum”, un fazzolettino di marciapiede dove sostare.
“E i pedoni?”
“Affari loro”, rispose avventatamente Tito, le cui uscite erano spesso ruvide, lontano dagli obblighi formali imposti dal lavoro aziendale. “La gente non pensa al prossimo, proseguì, altrimenti non acquisterebbero dei macchinoni mastodontici per girare in strade strette come quelle di una antica e raccolta città europea qual’è la nostra. Non siamo mica nel selvaggio West dove, per arrivare alla tua fattoria, devi percorrere chilometri di sterrato!”
Una considerazione che il Sano condivise. “Ora ricordo – interruppe l’amico – era proprio in questo slargo che l’attendevo. Qua, fermati.”
Sarà stata la buona sorte o il caso, Tito trovò uno spazio insperato proprio dove l’erta incominciava a impennarsi, l’impressionante benvenuto della salita a chi si accingeva a percorrerla in uno dei suoi tratti più difficili. A pochi metri da quella che un tempo era la trattoria “Al gallo blu”, salendo sul marciapiede, Tito si inserì tra una macchina già parcheggiata e uno di quei contenitori che servivano a accogliere le immondizie; dovette aspettare che Sano scendesse per poter, dopo qualche evoluzione nell’abitacolo, uscire anch’egli. Il vento si era ulteriormente chetato, in giro non un’anima o un cane. Attorno un gradevole sentore di legna che sicuramente ardeva allegramente in qualche caminetto. I due amici arrivarono in un attimo a quello slargo che portava a due differenti androne. “Qui, sull’angolo di questa vecchia casa – spiegò Tito – era aperta un tempo un’altra osteria. Quante volte ci andavo da piccolino con i miei”.
“Tua madre era davvero una bella donna, se ne uscì inaspettatamente Sano, e anche tuo papà portava bene il suo autentico muso nordista”. Osservazioni che Tito incassò con una qualche, istantanea, malinconia. Sua madre, nel bene e nel male, c’era ancora. Ma papà non c’era più già da qualche anno.
Comunque fosse, tutti e due si sentirono in qualche modo “a casa”, in una strada della vecchia città silenziosa e tranquilla. “Sano, dove si va? Se voltiamo a destra il viottolo è a fondo cieco. A sinistra si insinua tra gli arbusti e alcune casette. Siamo sulla giusta via?”
“Proseguiamo, approvò l’amico, che in cuor suo forse si sentiva emozionato. Raro personaggio, Sano, di una forza interiore dai tratti titanici, con un carattere estroverso e solare capace di elevarti al suo fianco in un istante, ma nel medesimo lasso di tempo, di soverchiarti e disarmarti con una sola occhiata. “Ho tolto la maschera, soleva dire da qualche tempo, ora anche per i più deboli e mediocri non sono più interessante. Non mi frequentano”. Difficile credergli, per chi lo conosceva già da parecchi anni, visto che nonostante qualche acciacco, il Sano conservava il suo carattere fiero.
Mentre camminavano, Tito rifletteva su quella antica e emozionante modalità di ingaggio tra uomo e donna chiamata “appostamento”. Era però l’uomo a praticarla quasi esclusivamente. Quanti adolescenti, e non solo, debitamente appostati ai lati di una strada, opportunamente nascosti dietro all’angolo del condominio, di una siepe, di un albero, magari di un palo della luce pubblica, hanno atteso con impazienza la ragazza o la donna del cuore a cui dichiararsi. La crudele femmina, se arrivava, quando arrivava, poteva smontarti con il solo battere delle ciglia. Oppure concederti dolcemente le chiavi del giardino delle delizie. Con il trascorrere degli anni, con l’esperienza, è facile intuire che, con buona probabilità, chi curava un appostamento sarebbe rimasto deluso. Perché tale pratica era di per sé indice della necessità. L’appostamento era quasi mai una tranquilla attesa, piuttosto una pena di quel cuore di cui spesso, per la prima volta, si avvertiva la presenza. Ma che soave tormento, che momenti, quante speranze!
Thelma era stata il primo amore di Sano. Un sentimento che egli ricordava benedetto dall’innocenza. Qualche bacio, forse, le carezze ancora ruvide e inesperte, le confessioni affettuose, piccoli equivoci e complicità, immaginava pensando all’amico Tito. I ricordi più teneri e ingenui, che si rammentano con un sorriso lieve, scambiando tra se e se qualche considerazione su quanto si era inesperti e fragili ma pronti a sfidare orologi e fortunali per vederla, per starci assieme.
Mentre camminavano, Sano rifletteva sul trascorrere inesorabile del tempo. Il suo era quello dei consuntivi. Un tirar le somme cercando, con alcuni protagonisti della sua vita, di chiudere in bellezza. Lo diceva spesso, ormai: – “Ci sono alcune persone che devo rivedere e alle quali ricordare come volevo e voglio loro ancora bene. Oggi la visione è diversa, figlia dell’esperienza. La cosa che fa dispiacere è accorgersi che la maggioranza non riesce ad aprire il forziere per donarti le ultime pietre preziose. E quel che è peggio, è che in molti non riescono a vedere né a sentire quel che gli porgi. Tu dai ambra, loro avvertono ruvida pietra. E ancora, e questo è comune, una donna non riesce a intendere che tra l’uomo e Lei non ci può essere amicizia.”
Sul rapporto uomo – donna i due amici avevano discusso un’infinità di volte, ma su di una cosa, ribadivano, erano convinti: se si è sinceri, non vi può essere una vera amicizia tra i due. Dopo la fine di un rapporto, anche non necessariamente intimo, l’uomo poteva conservare qualche piccola reliquia, un residuo cristallo che, in estrema condensazione, racchiudeva il senso di quella relazione. Per una donna invece, la fine di una relazione significava passare dal fuoco direttamente alla cenere. E spesso non v’era possibilità futura di ricordo. L’uomo perennemente prigioniero di sogni e sentimenti, ma ancora disposto al rimembrare, la donna le cui radici erano salde e ramificate nella cruda terra, il cuore votato al raccolto, a una praticità tanto antica quanto necessaria al perpetuarsi dell’esistenza. Mietute le spighe, non rimaneva che suolo spelacchiato. Forse, era più ragionevole pensare che chiunque, maschio o femmina, dopo un amore concluso, dopo aver dato tutto e di più, avvertisse alla fine che tutto lo sforzo era stato inutile. Tra le mani solo un po’ di sabbia. A consuntivo, il nulla. Tuttavia meglio la lotta e pure la sconfitta che non aver vissuto. Per alcune persone l’esistenza è un partecipare alle vicende altrui. è comprensibile: in questo modo non ci si bruciano le dita, sono altri a cavare le castagne dal fuoco. Ma è molto meglio scottarsi i polpastrelli e tentare di rubare e mangiare il dolce frutto, i due amici ne erano convinti, che partecipare, spettatori, alle gioie e ai dolori altrui.
Questo vagheggiava nelle teste dei due mentre camminavano lungo il sentiero. Dopo aver sfiorato una proprietà disabitata, alla destra del vialetto, la prima casetta. All’esterno il cognome sul portone di ferro non era quello di Thelma. Così, con qualche impaccio, timorosi di essere scambiati per ladruncoli, continuarono per un piccolo tratto a leggere furtivamente su campanelli e targhette i nomi dei proprietari. Quasi in fondo a quello che nel frattempo era diventato un vicolo, la sorpresa. Era proprio quella la casa, ora ricordava Sano, dove un tempo lei viveva, il cognome sul portale lo confermava. “Che si fa?”, gli si rivolse il compagno d’avventura. Presentarsi così, la vigilia di Natale, due uomini maturi, a cercare quella che ora, forse, era la padrona di casa. E poi, Thelma era sposata? Chissà, forse stava preparando qualche pietanza per la vigilia. Stava giocando con i nipotini? O se n’era andata da tempo e in via dei Sicomori erano rimasti solo i parenti? Insomma, ci voleva un po’ di coraggio per presentarsi a quell’uscio la sera della vigilia. “Proviamo a suonare”, rispose osservandomi Sano, per un istante incerto, ma subito pronto a riprendersi quell’atteggiamento deciso che era la sua cifra.
L’attesa non fu lunga. Fu un signore di una certa età a affacciarsi sul vicolo. Sano fu veloce nel prendere per primo la parola: – “Buonasera, ci scusi se suoniamo a quest’ora. Cercavamo Thelma, forse abita ancora qui? Sono un suo compagno di scuola e, passando di qua, ho provato tanta nostalgia per la nostra gioventù e un immediato desiderio di rivederla. E lui – indicando Tito – è un amico che mi accompagna in questa bellissima passeggiata serale”.
Per nulla impaurito, tutt’altro che scocciato, l’anziano signore rispose con cortesia: – “Thelma non abita qui da tanti anni, sorrise. Qualche tempo dopo la conclusione dei suoi studi se n’è andata in America. è ritornata solo qualche anno fa. Risiede da qualche parte sull’altopiano, non vi so dire con precisione dove.” Il gentile padrone di casa, che doveva essere qualche lontano parente, osservò la nostra reazione. Subito dopo, sempre con affabilità, fu celere nel congedarci con uno sguardo bonario. I due lo salutarono, lui chiuse la porta, loro rimasero per un attimo senza parole. “Che si fa ora” – chiese Sano?
“Si sale in collina – rispose senza incertezze Tito. Intanto sappiamo che Thelma vive ancora dalle nostre parti, e questo mi sembra già qualcosa.”
“Ma come faremo a trovarla? osservò Sano. Non possiamo certo bussare a tutte le case dei paesi! è un tentativo ridicolo, Tito, ragiona.”
“Non preoccuparti, rispose. Qualcosa faremo, inventeremo.”
III
I due amici ritornarono sui propri passi; intanto la sera aveva avvolto sentiero, case e viandanti. L’auto di Tito iniziò a arrampicarsi lungo la rampa non senza fatica. Via dei Sicomori non dava respiro alle grosse cilindrate, figurarsi la vecchia utilitaria color bordeaux che di anni ne contava già parecchi. Sano intanto rimuginava. Come contattarla e quale approccio tenere? Non gli mancava certo coraggio o iniziativa, ma la situazione era delicata. C’era da considerare che, una volta individuata la vecchia amica, bisognava non interferire con la sua vita familiare e crearle dei problemi, innescare degli equivoci. Un contatto di questo tipo, del tutto innocente, se si fosse verificato, quale impatto avrebbe avuto sull’eventuale marito oppure sui suoi figli? “Comunque sia – parlò a alta voce – devo vederla. Domani posso morire e voglio incontrare coloro con i quali ho condiviso dei momenti importanti. Costi quel che costi!”
Raggiunto il piazzale alla sommità della salita, i due presero la strada verso l’interno della vallata per poi deviare verso un villaggio collocato proprio all’imbocco della grande selva. Mentre stavano entrando nel paese, il conducente ebbe la buona idea di dirigersi un po’ più in là, in una piccola frazione che guardava il mare. Lungo la strada principale, c’era la vecchia trattoria del paese. Tito conosceva il gestore, Carlo, il ristoratore umanista, un personaggio singolare pieno di risorse e cose da raccontare. Era una bella occasione per salutarlo, bere qualcosa e, magari, incrociare qualcuno che poteva dare l’informazione agognata. Al calduccio dell’accogliente osteria, Tito ordinò immediatamente due chine calde con tanto di scorza di limone. L’aromatica bevanda risultò un toccasana dopo le diverse ore passato all’addiaccio. Ne convenne anche Sano, lesto a sorbire la china scura e fumante. Mentre stava rivolgendosi al figlio del ristoratore, Tito incappò nello sguardo del signor Bruno, al tempo presidente di un’associazione del posto. E dopo i saluti, colse l’occasione: – “Caro presidente, tu che sei un’autorità in queste contrade, forse ci puoi dare una mano. Io e l’amico Sano siamo alla ricerca di una persona che dovrebbe risiedere da queste parti. Tu, magari, potresti conoscerla.” Mentre i due amici aspettavano la buona nuova, l’interlocutore si sedette vicino al banco.
“Vediamo ….Thelma ……., hai detto? Beh sì, il nome non mi è nuovo – si rivolse al Sano che lo fissava con un’occhiata capace di trapassare una lastra di marmo – ho sentito parlare di lei, vive in una frazione interna l’altopiano. L’indirizzo esatto, spiacente, non lo conosco.” E dopo un brindisi e i ringraziamenti, Sano e Tito iniziarono a consultare la rubrica telefonica. Pur sfogliando più e più volte l’elenco, il cognome della donna non saltò fuori. “Sarà sicuramente sotto quello del marito, oppure magari non dispone del telefono fisso. Con l’avvento del cellulare sono i tanti a non rinnovare l’abbonamento all’impianto.” “E allora? Che facciamo?”
“Alza i garretti Santo, addentriamoci nell’altopiano.”
“A far che – disse Sano – mi pare che stiamo esagerando!”
“Anda, ribadì Tito, soggetto non facile a scoraggiarsi mentre era a «caccia» di qualcosa o qualcuno. Proveremo a dare un’occhiata a alcuni indirizzi. E poi magari saremo fortunati e, chissà, incroceremo qualcuno capace di aiutarci, magari la stessa Thelma!” Sano fu lesto a seguire il compare, anche se la situazione cominciava a farsi difficile. “Tito, entusiasti o meno, forse è meglio che ci fermiamo qui. Non dobbiamo forzare la mano, siamo al limite”. L’amico capì al volo ma non desistette. Scesi dalla vettura, il borgo era avvolto nella tenebra. Il bosco da una parte, le case dall’altra, nemmeno un’anima in giro. “Sano, hai ragione, non possiamo insistere; aspettiamo però un pochino, chissà che da qualche casa non esca qualcuno a cui strappare l’informazione che ti serve.”
“Non è il caso, osservò saggiamente il compare. Qui siamo arrivati e qui ci fermiamo. è già una bella notizia sapere che Thelma abita da queste parti. In qualche modo riuscirò a contattarla e capirò se avrà piacere di incontrarmi e parlare assieme a me dei vecchi tempi. Voglio chiudere il cerchio, così farò.”
Tito annuì, prese a braccetto l’amico avviandosi verso l’auto. “La serata finisce così, chiese?”
“Ma nemmeno per idea, rispose Sano. Sei stanco? Siamo alle solite: chi non ha fisico….”
“Ma stai scherzando? Sali sul trabiccolo e vediamo dove ci porta.”
IV
La vecchia Renault imboccò la vecchia provinciale che portava verso il centro città. Dalla panoramica strada si poteva osservare la città risplendere di luci. Tutto era terso, nitido; il vento aveva soffiato forte ripulendo l’aria. Lo spettacolo, nonostante il buio, era nei loro occhi. A metà discesa, Tito sbottò una nuova: – “Sano, perché non facciamo un salto da Sergio Mocassini? Abita proprio un paio di curve qui sotto…”.
“Fare, non parlare” – rispose Sano, rispolverando una vecchia battuta di cui deteneva i diritti d’autore. Fare, fare e vivere, senza perdere il proprio tempo: questo diceva un tempo Sano, onorando sino in fondo l’assunto. Un colpo di telefono, il pronto assenso di Sergio che effettivamente era a casa e via, i due imboccarono l’erta che portava al piccolo nucleo di casupole che popolava uno scosceso versante. La mezzanotte era vicina. Parcheggiato il mezzo vicino al ruscello che incideva una valletta, l’aria umida e fredda del bosco accolse i due amici. Percorsero un sentiero tra un dedalo di casupole: Baldassetti era il tipico borgo di periferia, case abbarbicate l’una sopra l’altra lungo una salita impietosa. Dietro le case il bosco di roveri, con le sue piste abbellite dall’erica selvatica. Trovarono Sergio ad attenderli sull’uscio di casa, come sempre gentile, rispettoso, ospitale. Solo lui poteva accogliere i due a quell’ora, la vigilia di Natale, annunciatisi con un “drin” senza tanti convenevoli. Tutti si accomodarono al piano terra della piccola casa; fuori dalla finestra, la città rimaneva al suo posto, splendida, padrona del buio. Sopra, al piano superiore, a capo del letto, la batteria e gli altri tamburi del padrone di casa, percussionista provetto e appassionato. E furono un altro paio d’ore all’insegna dell’allegria, con ulteriore spuntino debitamente innaffiato con il vino rosso. “Se non è rosso non è vino”, ribadì autorevolmente Sano. Nel cuore della notte i due amici si congedarono dal padrone di casa. Ritornando alla macchina, ne sottolinearono ancora la bontà d’animo – anche troppa, risero – lodando la calda accoglienza del fido Mocassini. Mentre stavano per recuperare l’auto, Tito alzò il capo e si accorse che alcuni timidi fiocchi di neve stavano scendendo, lenti, ma ben visibili, grazie al chiarore dell’illuminazione pubblica. Mentre avevano trascorso le prime ore del giorno nell’accogliente casa di Sergio, luna e cielo erano stati progressivamente velati dalle nubi. Nel giro di qualche minuto la nevicata s’infittì. “Guarda che vigilia, mancava solo la neve.” “è Natale, Sano, guarda che meraviglia!”. “Proprio così“– rispose l’amico, non ho mai trascorso una vigilia così!” “Nemmeno io” – assentì Tito. Dai, torniamo in città prima che la strada ghiacci. Questa volta si va a letto per davvero.”
“Andiamo.”
V
La vigilia di Natale di Tito e Sano si concluse con la magia della neve e il ritorno, incolumi, tra le mura amiche. Ma il lettore sarà certo curioso di sapere se, successivamente, Sano riuscì a incontrare Thelma, e con quali esiti.
I due ex compagni di scuola si rivedettero. Grazie a un conoscente, Sano entrò in possesso del numero di telefono di Thelma, la rintracciò e poté trascorrere un intero pomeriggio con l’ex ragazzina del cuore.
Cosa si dissero? Che successe?
Non scenderemo nei particolari per educazione e per non scadere nella curiosità più pettegola. Diremo soltanto che per l’ennesima volta il Tempo, quella variabile che spesso vorremmo rallentare o accelerare, meglio accantonare e dimenticare, giocò inevitabilmente la sua parte. Cose e persone mutano pelle e abitudini, travolte da passioni e vicende, in modo spesso irreparabile. Le distanze un tempo così vicine, possono diventare incolmabili e viceversa, un po’ come la passione e l’amore possono diventare odio e rancore. Sano stava cercando, come sempre, di capire, di porre ordine, governando pensieri e sentimenti. Dovette scontrarsi con un cambiamento che aveva previsto, ma non in quelle proporzioni. Era ovvio che Thelma non poteva essere quella di un tempo, ma nessuno poteva immaginare che la permanenza nel nuovo continente avesse operato in modo così radicale. Thelma ragionava in tono consono a quel mondo permeato di liberismo e protestantesimo. Niente di più lontano dalla visione europea che il Sano, in sé, riassumeva.
Il tempo, si sa, agisce con la forza del destino, opporsi è inutile, perdere la partita di carte della vita sta nell’ordine delle cose. Nessuno può sfuggirvi. Anche chi pensa di aver vinto la sfida e invece ha brillato per una sola smazzata.
La filosofia dei nostri tempi è prevalentemente quella di relativizzare ogni ordine di cose. Una posizione forse conveniente, ma che cozza contro coloro, come Sano e Tito, che “vogliono il mondo, e lo vogliono adesso”, per citare una ben nota canzone. C’è chi ama stare alla finestra, c’è chi vive succhiando, come un vampiro, l’esperienza altrui; c’è pure chi, sulla riva del fiume, attende da qualche migliaio di anni di veder passare il cadavere di quel nemico che mai giungerà. Per i due amici era meglio il combattimento: o bianco, o nero, il primo o l’ultimo, vincere o perdere, vivo o morto. Subito, ora! Alla fine, aveva detto più volte Tito, sei comunque costretto a prendere una sola strada. Spaventati dal caos e dall’anarchia, i due personaggi lottavano, ognuno con i propri metodi, per tentare di dare un senso al proprio cammino. Per Tito, la salutare vigilia di Natale aveva lasciato dei postumi incoraggianti rispetto le sue miserie lavorative e il delicato frangente sanitario che, psicologicamente, lo aveva duramente provato.
C’erano alcune idee da cui partire in un periodo storico dove l’uomo non porta più rispetto per sé stesso. “Riteniamo di vivere le nostre esistenze lungo un binario che definiamo «progresso». Spiacente, amici – affermava Sano – il progresso è una chimera che sta solo nelle nostre menti. Dovremo più modestamente recuperare un andamento più lento, naturale, cosmico. Le velocità odierne fanno cappottare questo povero pianeta. E noi con lui.” “Domani” è la più grande bugia pronunciata dal diavolo; meglio piuttosto tentare di vivere nel presente, accontentandosi di essere ora, qui!
La morte arriva come un ladro nella notte. Nella nostra breve vita è la consapevolezza di esistere a fare la differenza, con tutto quello che è nostro e che a malapena decifriamo, che ci fa vibrare, esultare, soffrire. Desiderare non è sufficiente. Com’è evidente, la vita illude, impone traettorie e ci porta a incroci inaspettati che noi tentiamo di interpretare nella speranza di aver preso la giusta direzione. Tutto, però, si risolve in due secondi: nel primo il sangue, magari a fatica, gira ancora. Il secondo successivo la linfa smette velocemente di scorrere e la corsa finisce.
Era necessario vivere ogni istante come fosse l’ultimo, creandosi obiettivi strada facendo, prestando attenzione a non dare troppo rilievo allo stordimento provocato dal lavoro e dalle opere che ne risultano. Che, inevitabilmente, al crepuscolo, non è possibile portarsi dietro. Possesso e consumo sono figli della brama che dissolve, bruciando, l’esistenza. Meglio trascorrere il proprio tempo con chi si ama e si è capaci di instaurare un vero rapporto.
VI
La gente, in fondo, si accontenta di poco, pensava Tito, mentre passeggiava nel parco. Guarda là quel signore com’è contento di girare con il suo cagnolino. E quella ragazza impegnata a correre mentre ascolta con le cuffiette la sua musica. Si potrebbe vivere meglio senza l’incalzare incessante di un mondo che avvalla politici senza scrupoli, stakanovisti e consulenti impazziti. La gente è stanca, rifletteva, di offerte, finti premi, proposte, suggerimenti, finanziamenti, sconti, investimenti, conti correnti, tutto quel bagaglio violento che la società dei consumi odierna mette a disposizione di imprenditori scostumati. Tito stava tentando di saltare giù dal carrozzone ma non capiva come fare. Sapeva solo di avere le tasche piene di un mondo vuoto che la gente riempiva con acquisti, telefonini, tablet e internet, quel paradiso virtuale che portava direttamente alla fine di una strada a fondo cieco. Nell’intimità della propria abitazione, osservò per l’ennesima volta le foto di figli e parenti accuratamente disposte sulla vetrinetta di uno dei mobili del soggiorno. Ma quel pomeriggio di inizio d’anno era diverso. Quelle foto sembravano voler dirgli qualcosa. Accese l’impianto stereofonico mentre continuava a osservarle. La musica innescò un’emozione difficilmente descrivibile. E le foto iniziarono magicamente a parlargli, a narrargli di matrimoni, nascite, battesimi, feste di famiglia. Erano vive, come vivo era il suo desiderio di interrogarle e ricordare. Dispose sulla vetrina altre immagini. Lacrime gli scendevano sul viso mentre salutava ogni nuova foto esposta. E pensava ai tempi andati, belli e brutti, comunque pieni di significato. Qualsiasi destino gli fosse riservato, era vivere che contava. Quel che doveva fare era smettere le inutili velocità e preoccuparsi di ciò che veramente contava, come aveva iniziato a fare durante la degenza ospedaliera. C’era un mondo là fuori ancora da scoprire e con il quale comunicare. Andassero al demonio consumi e desideri, brame e gelosie. Due occhi che guardano dentro a altri due occhi. La ricerca di una profondità che poteva essere solo l’inizio di una nuova avventura. Attraverso la propria reale presenza e attenzione.
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