Scuola, territorio ed educazione ambientale

Le devastazioni ambientali che stanno soffocando il pianeta trovano nelle comunità locali la strada principale per imparare a custodire il mondo. Partendo da questo presupposto Guido Viale in questo articolo ragiona su come parlare oggi di educazione ambientale significa formare gli insegnanti attraverso liberi confronti con chi segue da tempo i temi ambientali, i cambiamenti climatici e legami tra questi con i temi della giustizia sociale. Si tratta, ad esempio, di “ricostruire la storia e la geografia dell’umanità mettendo al centro il suo rapporto con la natura, sviscerare questo rapporto nella storia delle letterature e della filosofia, imparare a trattare fisica, biologia e chimica, come processi storici di trasformazione del nostro rapporto con il resto del mondo…”. Quattro passi per cominciare: didattica esperienziale e cooperativa, educazione diffusa nel territorio, impegno diretto di studenti e insegnanti sui temi ambientali, scuola come polo civico di una comunità autoeducante.

Guido Viale, è uno dei soci fondatori dell’Associazione Laudato si’ – Un’alleanza per il clima, la Terra e la giustizia sociale, fondata nel 2015, subito dopo la pubblicazione dell’omonima enciclica.

Questo articolo è la traccia della relazione preparata per l’incontro “L’educazione ambientale oltre lo sviluppo sostenibile”, evento promosso da Cobas scuola a Imola 17 novembre 2022.

Nella visione promossa dall’enciclica Laudato si’ le prime e vere vittime del degrado ambientale che sta soffocando il pianeta sono i poveri della Terra: sia quelli – la maggioranza – che vivono in paesi già soggiogati dal colonialismo, che ne ha devastato gli habitat e cercato di cancellarne costumi e culture tradizionali, impoverendoli, sia quelli, sempre più numerosi, relegati ai margini dei paesi considerati ricchi, o sviluppati, o emergenti, dove si sono da tempo create delle “enclave” sempre più affollate di emarginati.

Se i poveri sono le principali vittime del degrado ambientale, è da loro, dalle loro lotte, dalle loro iniziative, dalle loro comunità che può nascere, insieme al loro riscatto sociale, anche la rigenerazione fisica, climatica e biologica del pianeta; a partire dalle campagne, dalle foreste e dai ghetti urbani in cui sono relegati, ma con un respiro, una carica di speranza, una visione del mondo che possono abbracciare tutta la Terra. E poiché tra i deprivati della Terra il primato spetta ovunque alle donne, è da loro che possono partire, e stanno di fatto partendo, le lotte e le iniziative per il riscatto delle loro comunità e delle loro terre.

Papa Francesco contesta così uno dei cliché sull’ambientalismo più diffusi. E cioè, che la tutela dell’ambiente sia cosa da ricchi, di chi ha già soddisfatto i bisogni elementari; mentre i poveri, che hanno tutti i giorni a che fare con la fatica di campare e il rischio della miseria e della fame, non hanno tempo né modo di preoccuparsi dell’ambiente. Contestare questo cliché comporta che l’ecologia vera non possa che essere integrale, quella propugnata da Francesco: cioè incorporare non solo un’aspirazione, ma anche una lotta per l’affermazione dei diritti degli ultimi. Ma significa anche che non si possono far proprie le aspirazioni e le iniziative che mirano al riscatto dei poveri senza abbracciare anche la lotta per un ambiente, ieri avremmo detto sano; oggi dobbiamo dire: almeno vivibile.

La salute dell’umanità, di tutti gli esseri umani, è ormai indissolubilmente legata all’azione per evitare che il pianeta tutto precipiti in una condizione che potrebbe renderlo invivibile; per lo meno per la specie umana. Il tempo stringe: l’IPPC, il panel intergovernativo, promosso dall’ONU, degli scienziati che monitorano l’avanzare della crisi climatica ha fissato indicativamente al 2030, cioè tra otto anni, il tipping point del riscaldamento climatico; cioè la soglia oltre la quale i fenomeni in corso rischiano di diventare irreversibili. Greta Thunberg lo ha ripetuto per due anni di seguito a tutti i “Grandi della Terra”, trovando ascolto solo tra una schiera sempre più fitta, ma anche sempre più decisa, di giovani che sono scesi ripetutamente in piazza per raccogliere il suo allarme. Papa Francesco ne è perfettamente consapevole. Anche l’enciclica Laudato si’ è un grido di allarme: non c’è più tempo. C’è un papa che ci avverte che una minaccia incombe su tutto il creato: su ciò che per lui è l’opera di dio.

Ma l’enciclica non è solo questo allarme, né solo un assist ai poveri della Terra. È la proposta di una vera e propria rivoluzione culturale con cui Francesco, attenendosi a una innovativa interpretazione dei testi biblici, ma anche a tesi e principi già affermati dai suoi predecessori, mira a sovvertire radicalmente i principi di quell’antropocentrismo promosso dalla modernità che ha spinto gli esseri umani, una parte crescente degli esseri umani, a “ignorare il grido della Terra”: e a devastarla. Per Francesco tutto in questo mondo è interconnesso e “niente di questo mondo ci è indifferente”, come recita il titolo del libro in cui abbiamo raccolto le riflessioni sviluppate nel corso di diversi anni insieme a un centinaio collaboratori dell’Associazione Laudato si’ sul modo di tradurre operativamente quel messaggio di Francesco. L’enciclica Laudato si’ riconosce una continuità ontologica tra gli esseri umani e il mondo che li circonda – il resto del creato – pur attribuendo ai primi una responsabilità nei confronti del secondo, grazie all’interpretazione che Francesco dà di un controverso passo della Bibbia, secondo cui dio avrebbe affidato all’uomo non il dominio, ma la custodia di tutti gli altri esseri viventi.

Questa continuità rappresenta comunque una rivoluzione radicale rispetto alla concezione del mondo che si è andata affermando con la modernità, o con l’avvento del capitalismo: quella di una discontinuità radicale tra l’essere umano – anzi, tra l’uomo, quello occidentale, implicitamente maschio e bianco, dominatore della Terra, campione dell’umanità – e il resto del mondo. Ma la storicizzazione di quella dicotomia, cioè la sua collocazione entro i limiti della cultura occidentale e di una fase specifica della storia umana, è una acquisizione della più innovativa antropologia contemporanea che si rifà a studi di culture, soprattutto quelle dell’America latina, che hanno ispirato anche l’enciclica Laudato si’; cosa resa successivamente esplicita dal ruolo e dall’importanza che papa Francesco ha attribuito al recente sinodo sull’Amazzonia. Tutto ciò mette in discussione anche la concezione corrente che stabilisce una gerarchia tra le diverse culture e civiltà che si sono succedute o giustapposte nel corso del tempo: non solo in base alla loro maggiore o minore complessità – civilizzati versus selvaggi – ma anche lungo una scala temporale lineare, cioè il “progresso”; secondo cui ciò che viene dopo è necessariamente superiore e migliore di ciò che c’era prima.

Con queste premesse, a mio avviso, l’educazione ambientale non può essere una materia di insegnamento da aggiungere o affiancare alle altre materie curriculari, dedicandole qualche ora alla settimana o al mese, così come non lo possono essere l’educazione civica, l’educazione sessuale o sentimentale o di genere, l’educazione alimentare, quella sanitaria, ecc. O si riesce a integrare questi temi cruciali dentro i programmi ordinari, ovviamente rinnovandoli radicalmente, oppure non otterremo i risultati auspicati. Ma per farlo, viste la complessità e la delicatezza degli argomenti da trattare, sono preliminari una formazione, ma ancor più una preparazione, degli insegnanti, da sviluppare non con delle lezioni e delle conferenze, ma con un libero confronto tra le opinioni di ciascuno, mettendole ovviamente a misurarsi con il contributo di esperti o cultori della materia.

Ma qui il punto decisivo è la conflittualità di questo processo di autoeducazione. Perché, come tutti gli altri temi indicati, è oggi più che mai terreno di conflitto tra visioni del mondo contrapposte. La giustizia ambientale, il rispetto e la salvaguardia della capacità di rigenerarsi degli ecosistemi da cui dipende la possibilità stessa di sopravvivere della specie umana sono indissolubilmente legati alla giustizia sociale, che non è uno stato di quiete, ma conflitto, lotta contro le diseguaglianze sempre più mostruose che caratterizzano la società contemporanea a livello globale. Per questo l’educazione ambientale non può evitare di entrare nel merito di questo conflitto, senza posizioni precostituite, ma aprendosi al confronto e alla verifica dei fatti.

Nella scuola conterà la capacità di mettere al centro delle materie curriculari, sia in termini teorici che pratici, il nostro rapporto con l’ambiente, con la natura, con il vivente non umano (così come occorrerà farlo con temi quali la sessualità, le emozioni, la salute, il rispetto di chi è diverso, per citare le tante altre materie di incerta collocazione nell’attuale spazio scolastico). Bisognerà ricostruire la storia e la geografia dell’umanità mettendo al centro il suo rapporto con la natura nelle diverse epoche, nei diversi contesti, nelle diverse culture; sviscerare questo rapporto nella storia delle letterature e della filosofia, imparare a trattare le scienze dure, fisica, biologia, chimica, come processi storici di trasformazione del nostro rapporto con il resto del mondo, ecc.

Naturalmente diffondere o, se non lo si condivide, anche solo prendere criticamente in considerazione quel radicale sovvertimento del pensiero, non basta. Ci vuole anche la pratica. Di seguito indico quattro passi che secondo me dovrebbero essere percorsi per rinnovare la scuola, e la concezione stessa della scuola, alla luce di una effettiva educazione ambientale che affronti il tema del conflitto.

1. Innanzitutto, c’è bisogno di un cambiamento della didattica che riduca radicalmente lo spazio dell’aula, delle lezioni frontali, dei libri di testo (sempre più ricchi di pagine e di supporti documentali, ma poveri di spunti di riflessione) a favore delle discussioni di gruppo, del confronto con l’esperienza diretta, delle gite e delle visite fuori delle mura scolastiche.

2. In secondo luogo, occorre apre la scuola al mondo esterno: al quartiere circostante, alle esperienze di chi è già inserito nel mondo del lavoro (e lo può illustrare molto meglio di una assurda esperienza di cosiddetta scuola-lavoro non finalizzata), ai problemi del territorio, ma anche alle lotte e ai conflitti che lo investono: tutte cose che dovrebbero diventare oggetto di un confronto permanente su cui misurare la fruibilità dell’insegnamento curriculare.

3. In terzo luogo, occorre promuovere l’impegno diretto degli studenti e del corpo docente, ma anche di un volontariato promosso tra le famiglie e nel quartiere, nella misura delle competenze di ciascuno, nella cura dell’edificio scolastico: l’igiene, la raccolta differenziata come fonte di conoscenza dell’origine e della destinazione di ciò che ci passa per le mani, la messa a norma degli impianti, il ricorso alle fonti di energia rinnovabile (i tetti solari fotovoltaici e termici, le pompe di calore, ecc.), la coltivazione delle pertinenze con modalità innovative e coinvolgenti. Ma anche le proposte concrete di riorganizzazione del trasporto, pubblico e non (scuolabus, bicibus, ecc.), per facilitare l’accesso e ridurre il ricorso all’accompagnamento in auto.

4. Infine, bisognerebbe impegnarsi in uno sforzo per trasformare ogni scuola in un punto di riferimento, culturale, sociale, ma anche politico (in senso non partitico né di schieramento), per tutta la popolazione che vi fa riferimento, o perché abita il vicinato, o perché ha dei figli che la frequentano. Per ospitare riunioni, eventi, concerti, corsi extra-scolastici, che trasformino le scuole in centri di autoformazione, di promozione culturale, di costruzione di una socialità e di una solidarietà che contrastino l’isolamento e l’individualismo esasperato promosso dagli stili di vita prevalenti. Fare della scuola il centro di trasformazione di un aggregato territoriale in una comunità autoeducante.

A Firenze l’inerzia ostile della proprietà e del Governo ha costretto il collettivo degli operai della GKN in lotta a decidere di trasformare il loro stabilimento in una “fabbrica pubblica socialmente integrata” al servizio del territorio in cui è insediata e della sua comunità mediante la promozione di un rinnovato mutualismo. È una indicazione da raccogliere e da moltiplicare: non solo intorno alle fabbriche in lotta, ma anche all’interno del tessuto sociale. Le scuole potrebbero diventare dei punti di propagazione di questa prospettiva.

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