La nostra narrativa… l’istinto

Il racconta storie di John Everett Millais (1829-1896) The Boyhood of Raleigh – National Gallery.

Il valore adattivo dell’evoluzione dell’Homo Narrans (II) ⫸ Le nostre innate capacità narrative si manifestano ogni volta che leggiamo, ascoltiamo o vediamo un romanzo, quando creiamo e godiamo consapevolmente un’opera letteraria, teatrale, cinematografica, musicale, ma anche un dipinto, o altri prodotti delle arti visive. Il nostro perenne bisogno di narrazioni è innato e cooptato nella lunga preistoria della nostra specie come un benefico “adattamento” evolutivo?

Se la specie umana ha bisogno di ascoltare e raccontare storie, quale funzione vitale svolge questa nostra enigmatica facoltà cerebrale? E la presenza perenne di varie pratiche narrative nella storia umana soddisfa davvero un nostro bisogno di adattamento di base, o è solo un effetto collaterale, un “sottoprodotto” accidentale del nostro sviluppo cerebrale?

Come abbiamo visto nel precedente articolo, negli ultimi vent’anni hanno cominciato ad apparire le prime indagini scientificamente fondate e interpretazioni strettamente naturalistiche sui meccanismi cerebrali e mentali del tutto opachi, fino a poco tempo fa, che sono coinvolti e consentono l’emergere della predisposizione tipicamente umana trasformare in narrazioni non solo ciò che sappiamo ma anche ciò che non sappiamo (leggi: Homo narrans: il narratore umano).

In effetti, grazie alle tecniche per l’imaging dei tessuti e delle funzioni cerebrali, come la risonanza magnetica funzionale, o fMRI, la tomografia a emissione di positroni, o PET, e la magnetoencefalografia, o MEG, stiamo iniziando a identificare sia le strutture cerebrali di base coinvolte sia i microcircuiti neuronali che si attivano quando ascoltiamo o raccontiamo una storia “reale” o “immaginaria” inventata.

Questi sviluppi scientifici hanno recentemente contribuito alla nascita del “Neuro-storytelling”, il nuovo campo di ricerca interdisciplinare che tenta programmaticamente di sostanziare la teoria scientifica dell'”Homo sapiens narrans”, la quale sostiene che gli esseri umani sono per natura “animali narrativi”, poiché sembrano essere gli unici esseri viventi del pianeta che possiedono ‘istintivamente’ la capacità di inventare e ascoltare narrazioni linguistiche.

Si tratta di una capacità genetica innata, cioè di una predisposizione istintuale esclusivamente umana, o, al contrario, di un comportamento epigenetico che si manifesta solo al verificarsi di determinate condizioni biologiche, ambientali e sociali? Tuttavia, l’espressione sia della nostra capacità senza tempo che del nostro bisogno mentale tipicamente umano di manifestare le nostre varie pratiche narrative presuppone non solo l’evoluzione di alcune complesse strutture cerebrali (linguistiche e mentali), ma, allo stesso tempo, la presenza di adeguate condizioni socio/familiari che consentono, da un lato, il normale sviluppo e, dall’altro, la libera espressione dei nostri cervelli parlanti.

Da tutte le ricerche fino ad oggi emerge la conclusione che l’uomo è davvero l’unico essere vivente che non può vivere senza racconti, che sente costantemente il bisogno di inventare, elaborare e godere di alcune narrazioni più o meno plausibili o addirittura del tutto fantastiche sul suo passato, presente e futuro. “Il nostro cervello ricorre alla tecnica della ‘narrativa’ per mettere ordine nel disturbo e dare una certa coerenza logica a ciò che è logicamente incoerente”, come sostiene nei suoi studi Michael Gazzaniga, uno dei principali neuroscienziati moderni e famoso autore di libri divulgativi.

Il nostro cervello, infatti, è una macchina narrativa che lavora senza sosta, creando narrazioni verbali e visive anche quando dorme e sogna. Perché cos’altro sono i sogni se non le storie che emergono spontaneamente e le “vediamo” nel sonno? Narrazioni mentali notturne prodotte contro la nostra volontà quando i nostri cervelli elaborano inconsciamente e combinano in modi altamente fantasiosi le registrazioni della memoria delle nostre esperienze piacevoli o traumatiche.

Narrativa come “adattamento”

Infatti, le ultime ricerche nelle neuroscienze dei sogni ci rivelano che il nostro cervello non dorme mai uniformemente, ma che diverse strutture di un cervello apparentemente profondamente addormentato si svegliano e sono più o meno attive durante il sonno. Ciò significa che durante il sonno sogniamo non solo nella fase “REM” ma anche nella fase “non REM” del sonno profondo. Attraverso questa elaborazione onirica inconscia delle nostre esperienze reali, il nostro cervello compone, durante il sonno, il paesaggio onirico apparentemente ultraterreno, di cui siamo piuttosto spettatori passivi che… registi!

Tuttavia, le nostre innate capacità narrative si manifestano anche ogni volta che leggiamo, ascoltiamo o vediamo un romanzo, quando creiamo o godiamo consapevolmente di un’opera d’arte: un libro letterario, un’opera teatrale, un film, un brano musicale, un dipinto o qualsiasi prodotto delle arti visive.

Dato il bisogno senza tempo e la capacità universale degli esseri umani di ascoltare e/o inventare narrazioni, mostra che si tratta di un’abilità biologicamente innata: cioè un “adattamento” evolutivo probabilmente selezionato dalla selezione naturale in una fase molto precoce nella sua preistoria della nostra specie, perché apparentemente contribuì al miglioramento della condizione psicosomatica, all’accresciuta adattabilità dei primi “umani narratori” (Homo narrans), nonché alla coesione dei primi gruppi sociali che crearono. In questo senso, siamo letteralmente assuefatti alle pratiche narrative che creiamo incessantemente, non tanto per scelta consapevole quanto per necessità biologica!

Questo nuovo approccio evolutivo all’origine della nostra capacità narrativa come “adattamento” è stato affermato esplicitamente per la prima volta nel libro “The storytelling animal”, dall’americano Jonathan Gottschall, professore di letteratura comparata ed evolutiva al Washington & Jefferson College di Pittsburgh (Pennsylvania ). In questo interessante libro il famoso “darwinista letterario” sostiene la visione non convenzionale e piuttosto provocatoria secondo cui le pratiche narrative umane di base sono universali e si manifestano in tutte le tradizioni narrative orali o scritte: da quelle mitologiche, poetiche e letterarie a quelle storiche e scientifiche.

Secondo Gottschall, sia raccontare che ascoltare storie è un adattamento biologico molto precoce legato all’evoluzione di alcune strutture e funzioni più profonde — in parte già identificate — del cervello umano, che sono direttamente coinvolte nel nostro comportamento sociale e che hanno prevalso universalmente perché hanno migliorato — e continuano a migliorare — la socievolezza degli umani, una specie sociale per antonomasia.

Capacità narrativa come “sottoprodotto” evolutivo

La domanda critica che emerge dalla ricerca neuronarrativa è: esattamente a quale bisogno adattivo vitale serve questa nostra capacità verbale-mentale unica? Se la nostra prima capacità narrativa è nata da alcune mutazioni apparentemente casuali di alcuni geni (che sono completamente sconosciuti), perché è stata selezionata, potenziata e infine prevalsa fin dall’inizio dell’evoluzione della specie umana?

Il fatto che alcune mutazioni genetiche essenzialmente casuali abbiano portato ai principali cambiamenti e riarrangiamenti cerebrali che hanno permesso alla nostra speciale capacità narrativa di emergere significa automaticamente che tutti questi principali cambiamenti evolutivi hanno avuto, fin dall’inizio, un apparente valore adattivo e quindi sono stati deliberatamente ( ?) selezionati o progettati durante l’evoluzione della nostra specie? A queste domande decisive non ci sono ancora risposte definitive, e alcuni sostengono addirittura che non ci saranno mai, perché non è affatto facile ricostruire questi primi passi evolutivi.

Ad esempio, l’eminente paleontologo ed epistemologo evoluzionista Stephen Jay Gould, già alla fine del ventesimo secolo, aveva sollevato diverse serie obiezioni all’applicazione del concetto di “adattamento” come spiegazione universale o addirittura unica per l’origine di tutti i fenomeni biologici caratteristici di una specie. E ancor meno sulla legittimità della sua applicazione quando si tratta di descrivere l’origine evolutiva e l’emergere di caratteristiche umane molto speciali, come le capacità mentali manifestate nell’avventura cognitiva e artistica umana, uniche nel regno animale.

Questo ovviamente non significa che Stephen Jay Gould neghi l’origine esclusivamente evolutiva e quindi storica di queste caratteristiche tipicamente umane. È vero esattamente il contrario, poiché sostiene che tutto il nostro comportamento culturale e sociale nel suo insieme è il “sottoprodotto” di un adattamento biologico precedente e molto più fondamentale: l’emergere evolutivo del cervello umano sovradimensionato e funzionalmente più complesso. Tutte le nostre capacità mentali e artistiche sono sorte in seguito come derivati ​​più o meno accidentali o “sottoprodotti” storici di questa innovazione cerebrale.

“Sono soddisfatto della mia convinzione che il cervello umano sia cresciuto di dimensioni attraverso la selezione naturale e per ragioni adattive per svolgere una serie di attività che i nostri antenati nella savana potevano svolgere solo se i loro cervelli fossero più grandi”, come scrisse Gould, nel 1987, nel suo articolo correlato sulla rivista Natural History.

Così, sebbene i bisogni narrativi e le particolari strutture cerebrali che li soddisfano siano nati da un percorso evolutivo complesso e non lineare di milioni di anni, il consueto ricorso ad alcuni vaghi e privi di fondamento “adattamenti” paleontologici per spiegarli non fa che confondere l’origine di entrambi le capacità narrative e artistiche della specie umana. Tuttavia, diremo di più sulle nuove possibilità cognitive, ma anche sui limiti epistemologici insiti nella moderna “Estetica darwiniana” nel prossimo articolo.

Fonte:efsyn.gr, 19-11-2022

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